Fiordaliso è Stefano Terranova, con la sua giacca rosa, il ciuffo ribelle, gli auricolari alle orecchie. Secondo un’antica leggenda, il fiordaliso è il fiore dell’amore perduto. Stefano è un amore perduto per i suoi genitori, il fratello, gli amici, la comunità di Sant’Angelo di Brolo. Un fiore reciso a diciotto anni: morto “di” ospedale, come sottolinea il titolo del libro-denuncia di Maria Azzurra Ridolfo.
Un libro necessario, nonostante sul procedimento penale incomba la prescrizione, dopo sei anni di rimpalli da un tribunale all’altro e lungaggini burocratiche assurde.
Sin dal primo momento la famiglia di Stefano ha urlato la propria sete di verità su quanto avvenuto. Verità, non vendetta. Perché Stefano non è morto a causa dell’anomalia vascolare congenita per la quale era stato ricoverato e operato. L’intervento era riuscito perfettamente, un vero miracolo. Stefano è morto per le complicazioni sorte in seguito, a causa della negligenza dei medici: “ha avuto – commenta lo scrittore Alfio Caruso nella prefazione al libro – l’amaro privilegio di conoscere il miele e il fiele dell’assistenza sanitaria nel nostro paese”.
Il libro ripercorre le tappe dolorose della via crucis toccata in sorte ad un ragazzo brillante ed estroverso, prossimo alla maturità e con la gioia di vivere impressa sul volto. A diciotto anni non si pensa alla morte. Là fuori c’è tutto un mondo che aspetta di essere addentato e gustato, come un frutto succoso.
Azzurra Ridolfo ridà a Stefano la voce persa dal giovane nell’ultimo mese di vita. Lo fa raccontando in prima persona e rispondendo, dalle pagine del libro, “al silenzio delle istituzioni”.
L’autrice riesce a tenere bene in equilibrio i diversi registri narrativi del libro: le rasoiate di vita di un adolescente un po’ “folle”, ma poetico alla vista della Guardiola di Piraino o sulle ali della sua bicicletta, con lo studio scrupoloso delle schede cliniche e dell’incartamento legale.
Il lettore viene accompagnato in una repentina e inarrestabile corsa verso l’abisso. Le condizioni di Stefano si aggravano giorno dopo giorno, proprio quando sembra che il peggio sia passato. Nessuno si accorge di niente, nessuno si chiede niente, nessuno fa niente: «Sono come uno scarabeo che ha la sventura di ritrovarsi sul dorso e agita confusamente le zampine per chiedere aiuto, che nessuno gli darà. E morirà così, con la pancia in aria».
Stefano muore il 2 giugno 2013: da allora, la sua famiglia non ha mai smesso di cercare verità e giustizia. Il libro di Azzurra Ridolfo è l’ennesimo tentativo di sfondare il muro di silenzio e di indifferenza innalzato intorno alla vicenda. Proprio per questo è necessario, “affinché ciascuno – prendiamo in prestito le parole di Alfio Caruso – possa sentirsi parte di una grande battaglia di civiltà”.
Conversazione su Camilleri
Azzurra Ridolfo fa parte di “Ali di Carta”, un gruppo culturale di Brolo (Messina) composto “per il momento” – precisa – da sole donne, che opera per la promozione della cultura attraverso la presentazione di libri, l’organizzazione di incontri-dibattiti, l’allestimento di rappresentazioni teatrali. “Ali di Carta” considera la riflessione e il confronto dialettico condizioni imprescindibili per la crescita civile di una comunità. In collaborazione con l’amministrazione comunale di Brolo e con la libreria “Capitolo 18” di Patti nel giugno del 2018 ha curato l’iniziativa “Un arancino con Camilleri”, che ha sviluppato il tema “Andrea Camilleri: scrittore siciliano e fenomeno pop”. La sinergia con l’Istituto alberghiero di Brolo ha inoltre consentito, in quell’occasione, l’omaggio “I sapori siciliani nei romanzi di Camilleri”. Ad Azzurra Ridolfo ho posto alcune domande sul “fenomeno” Camilleri.
Quando hai “conosciuto” Andrea Camilleri e qual è stata la tua prima impressione?
Ho “scoperto” Andrea Camilleri nel 1995 leggendo “Il Birraio di Preston”. Mi trovavo a Palermo ospite di un’amica. Sulla sua scrivania scorsi il volumetto blu della Sellerio: il nome dell’autore, lo confesso, mi giungeva del tutto nuovo. Ad attrarmi furono il titolo e le lodi sperticate della mia amica che non riusciva a celare l’incontenibile soddisfazione di beccarmi in fallo. Quello stesso pomeriggio acquistai “Il Birraio di Preston”, “La stagione della caccia” e “La bolla di componenda”.
Cosa rappresenta per un siciliano Camilleri?
Camilleri della Sicilia porta addosso movenze, ammiccamenti, tratti somatici, linguaggio, espressioni. Per un siciliano Andrea Camilleri è “casa”. La Sicilia Camilleri se l’è sempre portata nel cuore o, come amava dire, nel taschino sinistro della camicia. Sul cuore. Quando lo ascolti parlare o leggi i suoi libri, riconosci luoghi, profumi, sapori, suoni familiari. È come se fosse un parente o il vicino di pianerottolo a cui puoi suonare alla porta, per chiedere il sale quando già bolle l’acqua per la pasta. È riuscito a sdoganare l’insularità facendola decollare verso l’universalità. Ha raccontato la Sicilia più vera e bella, quella delle tradizioni, dei sentimenti, dei paesaggi mozzafiato, della cucina.
In che rapporto sta Camilleri con altri grandi siciliani protagonisti della letteratura italiana?
In un rapporto di assoluta parità. Lo collocherei nel nutrito stuolo di scrittori siciliani che hanno fatto grande la letteratura italiana: De Roberto, Buttitta, Bufalino. Agrigentino, innovatore, costruttore di trame, di grandi personaggi e sfondi pittoreschi come Pirandello; penso all’amicizia che lo legò a Sciascia, al loro rapporto franco, diretto, oserei dire, “impetuoso”; ai loro confronti che sfociavano spesso in accesi litigi senza, tuttavia, intaccare mai la stima reciproca. Si scontrarono spesso sul linguaggio, sull’uso dell’italiano. Quello limpido e accurato di Sciascia, restava perplesso di fronte alla lingua “shakerata” di Camilleri, nella quale l’italiano si unisce al siciliano in una amalgama potenzialmente difficile, rischiosa, azzardata che, però, alla fine, si rivela vincente dando vita a un registro linguistico nuovo e originale che riesce a esprimere compiutamente il sentimento contenuto nel concetto. I suoi libri sono come dei cocktail perfettamente dosati. Penso anche all’amicizia con Simonetta Agnello Hornby, di cui è stato mentore e sostenitore. La stima della scrittrice nei confronti del Maestro è palpabile nello stile linguistico dei suoi romanzi trasudanti di “sicilianità”, termine che lei non apprezza ma che a me dice tanto, e di termini siciliani. Lo scorso giugno, con il gruppo culturale di cui faccio parte, “Ali di Carta”, in sinergia con la libreria Capitolo 18 di Patti, organizzammo un pomeriggio con Camilleri per omaggiare quello che a nostro avviso rappresentava uno dei più importanti scrittori contemporanei. In quella occasione Simonetta Agnello Hornby ci rilasciò un’intervista esclusiva in cui raccontò del “suo” Camilleri, della loro amicizia, della generosità del maestro verso gli scrittori e, in generale, gli artisti emergenti. Una testimonianza preziosissima.
Quali sono le ragioni del “fenomeno” Camilleri e in che cosa consiste lo “stile” Camilleri?
Camilleri ha internazionalizzato la lingua siciliana, ha creato il vigatese, un miscuglio originalissimo di italiano, siciliano, agrigentino, e “camillerese”. Una scelta nata dalla sua difficoltà a rendere l’essenza dei sentimenti utilizzando l’italiano. È riuscito ad abbattere muri linguistici apparentemente invalicabili, ad arrivare a milioni di lettori in tutto il mondo. Il vero miracolo, a mio avviso, sta nel fatto che anche nella traduzione in altre lingue, il vigatese restituisce ad un pubblico internazionale le sensazioni espresse nella lingua radicata in un territorio delimitato. Uno scrittore italiano, nato in Sicilia, che si porta dietro la sua sicilianità e che da questa prospettiva guarda al mondo partendo dal particolare, spaziando verso l’universale, perché “la Sicilia è infinita, arriva da per tutto. Basta portarsela in tasca”.
Tre aggettivi per descrivere l’uomo e lo scrittore Andrea Camilleri.
1) Impegnato. Io credo che Camilleri abbia svolto in maniera egregia il suo ruolo di intellettuale curioso, attento osservatore e commentatore della contemporaneità di cui ha sottolineato l’involuzione umanitaria e democratica. I suoi moniti affinché si arresti il pericoloso declino culturale e sociale attualmente in atto resteranno l’eredità più grande per le generazioni a venire.
2) Fantasioso. La fantasia, instillatagli dalla nonna Elvira in tenerissima età, è una costante nella vita di Camilleri. Le sue opere spaziano dalla poesia ai romanzi storici, dai polizieschi ai copioni teatrali, alla letteratura per bambini. E per essere così poliedrici, oltre ad una immensa cultura di base, credo ci voglia un’enorme fantasia.
3) Ironico. Guardare al mondo con il sorriso sulle labbra, sapere raccontare i fatti trovando sempre il lato comico, anche delle vicende più drammatiche, alleggerire senza mai perdere di credibilità e di sostanza, credo che sia un dono che gli dei hanno concesso a pochi eletti. Camilleri era uno di questi.
La tua vita, il mio dono
«Questo libro è il mio inno all’amore». Una lezione sul trionfo della vita: passato, presente e futuro sublimati nel sorriso di una mamma che non avrebbe potuto amare di più quel bambino “con un cromosoma pazzo e un sorriso che scioglieva il cuore”, se avesse “corso, saltato, cantato” come qualsiasi altro suo coetaneo. Una mamma alla quale non è mai pesato non ascoltare la parola “mamma” pronunciata dal figlio: «i tuoi occhi ed il tuo costante sorriso mi riempivano il cuore come nessuna parola al mondo avrebbe potuto fare. Sono fiera e orgogliosa, non finirò mai di ripeterlo, sono fiera e orgogliosa di essere stata la tua mamma; la tua vita, il dono della tua vita, il regalo più grande che Dio, Gesù e la Madonna abbiano potuto fare al tuo papà e a me».
Un inno all’amore che sconfigge anche la morte, che spinge un paese intero ad assistere alla prima uscita ufficiale del libro nella sala conferenze dell’Hotel “Il Gattopardo” di Brolo, diventata troppo piccola per contenere la gente che tracima nel corridoio e poi ancora giù nelle scale. Commozione e gioia sui volti degli amici di Ignazio Raffaele e Mimma Giuliano, su quelli dei compagni di scuola di Ninuccio. Una comunità che “festeggia la vita”, per parafrasare il titolo di un capitolo del libro scritto a quattro mani da Mimma Giuliano e Azzurra Ridolfo (“l’amica che abbiamo avuto sempre accanto”): La tua vita, il mio dono. Mimma racconta Nino (Armenio Editore, 2017).
Sì, per festeggiare la vita. Questo mistero insondabile che ci sforziamo di comprendere, di etichettare con categorie inadeguate. Quando invece occorrerebbe lasciarsi inebriare dai suoi infiniti odori, spalancare gli occhi e farsi accecare dai suoi colori più forti, gustarla in tutta la sua pienezza. Sempre. Vita e morte, morte e vita: Yin e Yang che si tengono insieme facendosi beffe delle difficoltà dell’uomo incredulo di fronte all’arcano.
Il libro ripercorre, anche per immagini, la breve ma intensa parabola terrena di Ninuccio, sedici anni di presenza centrale nella vita della sua comunità. La grandezza di questa storia sta nel suo essere esperienza condivisa; sta in una quotidianità che non è soltanto quella intima del rapporto tra genitori e figlio disabile, ma si snoda su più livelli. La famiglia, certo. Non tutti i bambini disabili hanno la fortuna di possedere due genitori come Mimma e Ignazio: «Avevamo capito quanto rara fosse la tua malattia e, di conseguenza, quanto speciale fossi tu. Eravamo stati scelti per crescerti, era la nostra missione, dovevamo esserne fieri. E lo siamo stati». Parole che rafforzano il monito di Giuseppe Pontiggia nel suo Nati due volte, al quale si ispirò Gianni Amelio per girare Le chiavi di casa: «Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso difficile. La seconda dipende da voi, da quello che saprete dare. Sono nati due volte e il percorso sarà più tormentato. Ma alla fine anche per voi sarà una rinascita».
Il livello chiassoso e colorato della scuola, “anni “stupendi” che fanno sentire Ninuccio parte integrante di una comunità che cresce insieme a lui, perché la sua vita – e questo è il terzo livello – diventa romanzo di formazione per tutti, gioco di squadra che abbatte steccati mentali e barriere architettoniche e che trova nell’associazione di volontariato La Rosa Blu uno strumento di lotta efficace: «La solidarietà vera non è fatta di sterili parole, sguardi compassionevoli e pacche sulla spalla per dar forza e coraggio. La solidarietà vera consiste nell’aiutare e nell’interagire con la disabilità, nel nostro caso con bambini speciali che gioivano della compagnia, dell’aiuto, della presenza, del sorriso dei loro coetanei più fortunati».
L’immagine di Mimma che spinge la carrozzina di Ninuccio ed è sempre accompagnata da ragazzi, amici o parenti spiega con forza la dimensione empatica di una storia dal carattere universale. Una lezione di umanità e di dignità che invita a guardare il mondo con fiducia e con speranza anche quando il dolore prevale, anche quando la morte chiama a sé una persona amata: e che indica nell’amore per gli altri e per la vita il senso della propria stessa esistenza.