I colori da dietro

Accettare il punto di vista dell’altro, o anche soltanto riuscire a prenderlo in considerazione come ipotesi alternativa alle proprie immodificabili idee, segna il confine tra l’arena e l’agorà.
Capita spesso di ascoltare, sconfortati, gente urlarsi addosso e capire, alla fine, che la rissa diventa essa stessa il tema centrale della discussione. Qualche artificio dialettico a protezione del dogma e il gioco è fatto: l’arroganza ingloba tutto, immiserisce il confronto e lo riduce a prosaica questione di decibel o di protervia.

Il nostro io reclama la scena (tutta la scena), il salotto diventa giungla, la legge del più forte (di ugola) facile scorciatoia. Una compulsiva furia onanistica, che rende centro dell’universo quel maledetto ombelico che ci deliziamo a contemplare, quasi estasiati.

Basterebbe cambiare prospettiva, spostarsi di sedia e occupare il posto dell’interlocutore di fronte a noi, indossare i suoi abiti, intuire le sue emozioni, le sue aspettative, le sue ansie. Basterebbe guardare il colore “da dietro”, come ci insegna Antonio Albanese (alias Epifanio Gilardi) in un monologo bellissimo e serissimo, farsi affascinare dalle sfumature e comprendere che le tinte più belle hanno gradazioni, contrasti e luminosità infiniti. Bianco e nero appartengono ai vecchi televisori e ad una visione manichea della vita, tipica delle guerre di religione. In un mondo che non potrà mai corrispondere a ogni individuale aspirazione, convivere con la ragione dell’altro diventa “la” necessità, non “una” possibilità.

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Cetto è tra noi, purtroppamente

Stimo Antonio Albanese sin dai tempi di Su la testa e ho seguito sempre con molto favore la sua carriera artistica. Il timido e profondissimo Epifanio Gilardi (magnifico il monologo sui colori); l’irascibile Alex Drastico (“c’è tra di voi un figlio di nessuna che ha rubato il mio motorino?”); Pier Piero, il giardiniere di Arcore gay e interista; il telecronista foggiano Frengo (mitico l’incontro con l’allenatore del Foggia dei miracoli, Zdenek Zeman); il cinico industriale brianzolo Ivo Perego; e poi il cuoco Alain Tonné, il filosofo cocainomane Mino Martinelli, il sommelier, il ministro della paura, l’intellettuale di sinistra in crisi d’identità: maschere che appartengono all’immaginario collettivo in quanto allegorie della stessa natura umana. Uguale felice sorte è toccata a Cetto La Qualunque, il politico calabrese sprezzante della legge, dell’ambiente e della dignità delle donne. Un personaggio talmente riuscito che un sondaggio serio dà al 2,3% il consenso che raccoglierebbe se si presentasse alle elezioni (e un altro 7% di elettorato potenziale): più di Mpa, Api, Partito socialista, Radicali, La destra. Insomma, ci sono fior di politici di professione in campo da decenni che per una percentuale del genere farebbero carte false.

In questi giorni sui quotidiani locali è un gran dibattere. C’è chi si sente offeso dalla rappresentazione “esagerata” di un certo modo di fare politica e denuncia l’ulteriore discredito che si getta sulla Calabria. Un’accusa pretestuosa, visto che Cetto, televisivamente, “vive” dal 2003. E c’è chi, forse semplificando e generalizzando, riscontra nel personaggio l’amara e desolante realtà della cronaca quotidiana. Calabria Ora ha anche lanciato un sondaggio: “E a te Cetto fa ridere o arrabbiare?”.
Sono andato a vedere il film, spinto dai contrastanti pareri di due miei amici. Per il primo, Qualunquemente è di una noia mortale. Avrebbe voluto abbandonare la sala dopo i primi venti minuti, ma visto che di questi tempi il cinema non è uno spettacolo economico (a proposito, 7,5 euro al multisala di Reggio Calabria non sono eccessivi? Una mia amica a Brolo paga 5 euro) ha deciso di restare fino al termine della proiezione. L’altro mio amico ha invece riso dal primo all’ultimo minuto.
Personalmente, Cetto non mi ha fatto arrabbiare. La Qualunque va preso per quello che è: una caricatura. E nelle caricature sono soprattutto i tratti più caratteristici – specialmente i difetti – ad essere accentuati. È sempre stato così, nel disegno e nella satira. Altrimenti uno va a vedere una mostra di quadri o guarda un reportage giornalistico. Non si possono però nascondere alcuni evidenti limiti del film. La sceneggiatura latita, riducendosi a un escamotage per legare sketch in gran parte già noti. Si tratta, per l’appunto, di un “già visto” che raramente consente alle battute quell’effetto sorpresa che provoca lo scoppio di una risata. Di sicuro, il personaggio è più efficace e brillante nei 5-10 minuti di un’apparizione televisiva. Qualunquemente non vincerà l’Oscar. Ma non credo che sia stato prodotto, girato e interpretato con quest’ambizione.

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