“Curacaro”, traduzione dell’inglese caregiver (“colui che si prende cura”) è un neologismo introdotto nella lingua italiana dallo scrittore Flavio Pagano, autore di Perdutamente (Giunti, 2014), Infinito presente (Sperling & Kupfer, 2017), Oltre l’Alzheimer. L’arte del caregiving (Maggioli, 2019), nonché del corto Abbracciami, presentato nel 2021 all’Alzheimer Fest di Cesenatico, manifestazione ideata nel 2017 dal giornalista Michele Farina, il quale – a sua volta – ha dedicato alle problematiche che coinvolgono i pazienti affetti da demenza senile, i loro familiari e gli operatori sanitari il libro-inchiesta Quando andiamo a casa? Mia madre e il mio viaggio per comprendere l’Alzheimer. Un ricordo alla volta (Rizzoli, 2015).
I cura cari, scritto dal giornalista, critico musicale e poeta Marco Annicchiarico, prende in prestito (separando le due parole) il neologismo di Pagano e racconta l’esperienza dell’autore, già nota ai lettori delle sue due rubriche: Diario di un caregiver, per la rivista «Mind», è “la storia delle difficoltà, degli ostacoli, della burocrazia e dei paradossi che affronta chi assiste un malato di demenza”; Caregiver Whisper – Storie di ordinario Alzheimer, per il blog collettivo «Poetarum Silva», racconta invece “piccole storie di vita nella malattia, tra le mille difficoltà con cui mi sono dovuto misurare, il più delle volte da solo, e l’ironia che ci ha aiutato a non impazzire nei momenti più difficili”.
Prendersi cura di familiari malati è un’attività dai forti risvolti emotivi, oltre che pesante sotto il profilo materiale: basti considerare che il 70% di chi assiste un familiare malato è costretto ad abbandonare il lavoro. Quando poi si tratta di soggetti affetti da Alzheimer o da altre forme di demenza, le difficoltà si avvertono in forma ancora più acuta. Come riuscire, infatti, a trovare un senso ad un’esperienza che spesso comporta l’annullamento della propria vita? Come gestire la malattia del familiare e l’inevitabile deterioramento del proprio equilibrio psicofisico?
Annicchiarico, che affronta la questione ricorrendo alla propria esperienza personale, offre al lettore una storia d’amore tra madre e figlio che è al tempo stesso poetica e dolorosa: “un romanzo-pugno e un romanzo-carezza, capace di commuovere e di farci sorridere nello stesso rigo”.
I cura cari è la ricerca di un nuovo equilibrio, che consenta a madre e figlio di ritrovarsi in quella realtà parallela del malato che Pietro Vigorelli (autore, tra l’altro, del libro edito da FrancoAngeli nel 2015: Alzheimer. Come favorire la comunicazione nella vita quotidiana) ha definito “mondi possibili”: «Noi dobbiamo accettare quello che i malati sono ora. Il salto nei mondi possibili ci permette di stare vicino a loro “dove sono in questo momento” rispettando, anche nelle situazioni più drammatiche, la loro dignità di persona e valorizzando le abilità che hanno mantenuto».
Annicchiarico attraversa le diverse fasi della malattia della madre Lucia, che inevitabilmente si ripercuotono sulla sua quotidianità, stravolta dagli effetti devastanti della caduta del familiare nel gorgo della demenza. Il sasso che manda in frantumi la finestra della propria esistenza si manifesta con la perdita dei ruoli (“non si può tornare ad essere figlio, non si può tornare ad essere madre”). All’inizio prevale il senso di vergogna, di fronte ad una mamma che gradualmente perde ogni freno inibitore: mangia con le mani, diventa scurrile, non è capace di controllare le funzioni corporali. Poi subentra l’accettazione, a conclusione di un processo graduale, che porta alla consapevolezza di trovarsi di fronte ad un’altra persona, che vede quello che non c’è e lo rivela al figlio. Con questa nuova mamma, sospesa sempre nell’altrove in cui è finita, l’autore si sforza di entrare in relazione, nonostante l’avvilente impressione di essere lo spettatore di una donna che lentamente si sta dissolvendo.
Madre e figlio si incontrano così in storie spesso inventate, raccontate con l’utilizzo di una nuova lingua, una sorta di esperanto fatto di frasi e parole senza senso o che non esistono. «Sono una ticococca», afferma Lucia sul finire del libro, in un dialogo che ispira all’autore versi struggenti:
Ho scoperto che mia madre
è diventata una ticococca,
per metà è fatta di carne
e per metà è fatta di nebbia.
La notte scompare nel suo letto,
riesci solo a sentirne la voce, flebile,
che arriva da lontano.
Al mattino, però, con tutta
la sua forza chiude le dita dolenti
attorno alle mie mani.
A volta sembra sussurrare:
«Sono qui, vienimi a salvare».