Bondì, bondì, bondannu

Tra i personaggi che emergono dalle pagine dell’ultimo lavoro di Vito Teti, Terra inquieta. Per un’antropologia dell’erranza meridionale (Rubbettino, 2015), gli “strinari” e i mascherati rimandano a storie che, in forme più o meno analoghe, appartengono anche alla tradizione etnografica di Sant’Eufemia, a racconti ascoltati dalla viva voce dei nostri genitori e dei nostri nonni.
Gli “strinari” erano gruppi di quattro-cinque individui che percorrevano le strade dei paesi durante il periodo natalizio, qualcuno dei quali suonava l’organetto che accompagnava i canti augurali, contenenti la richiesta di cibo e bevande. “Il cibo rituale [osserva Teti] costituisce in molti paesi il veicolo dell’incontro reale e simbolico tra vivi e defunti”. I questuanti non sono altro che “vicari” dei defunti e il cibo loro offerto viene considerato un’offerta fatta ai defunti. Tale identificazione vale per gli “strinari”, ma vale anche per i protagonisti di quelli che Teti definisce “viaggi rituali e vicari dei morti”: ad esempio, i “mascherati” che escono dopo il tramonto durante il periodo di Carnevale.
Nelle zone delle Serre vibonesi la formula augurale, recitata dai bambini che bussavano alle porte delle case era: «Bonu Capudannu, facitimi la strina ca si no mi dannu». Il Vocabolario del dialetto calabrese compilato da Giovanni Battista Marzano (1928) alla voce “strina” conferma: “dono che i genitori sogliono fare ai figliuoli e i padroni ai domestici e dipendenti; mancia, strenna” e riporta alcuni versi dialettali: Curriti tutti, vi dugnu pe strina/ castagni, nuci, ficu, meli e pira (Lu gattu, di I. Donati). Ed erano proprio espressione della frugalità, se non della povertà dei tempi, i doni che i partecipanti consumavano o dividevano alla fine della questua. Il richiamo alla dannazione, nell’ipotesi improbabile di diniego dell’offerta, rivela appunto che questuanti e anime dei defunti, nella percezione popolare, coincidono.
Ma non ovunque era così. A Sant’Eufemia i bambini degli anni Cinquanta del secolo scorso recitavano una formula leggermente diversa, più giocosa e nella quale non vi era riferimento ai morti, anche se probabilmente da quella tradizione traeva origine: «Bondì, bondì, bondannu, boni festi i Capudannu/ se m’ati e se non m’ati, cent’anni mi campati/ ma se non m’ati nenti, mi vi cadinu moli e denti!». Subito dopo veniva fatta esplodere una mistura di zolfo e polvere pirica,
nel tempo sostituita con le capocchie dei fiammiferi e, infine, con le
munizioni (tubetti) delle pistole
giocattolo inserite nell’asta delle grandi chiavi di qualche vecchia porta
, alla cui bocca veniva legato un chiodo che fungeva da percussore e che veniva azionato facendo sbattere la chiave contro il muro. Gli inquilini si affacciavano quindi sull’uscio e offrivano il poco che avevano: noci, castagne, fichi secchi, pittapie, sussumelle, torrone.
Più o meno simile era l’esito delle questue effettuate durante le festività dei “morti” («m’i dati i morti?») o a Carnevale, quando i “mascherati” – che, a differenza di oggi, non indossavano ovviamente costumi costosi – si presentavano vestiti in maniera buffa: una giacca infilata al rovescio, una gobba finta realizzata con un cuscino e sistemata dietro le spalle, un cappello calato sul viso o un bastone a simulare un’accentuata zoppia. In questa occasione vi era l’esplicita richiesta di avere una polpetta, che in molti riuscivano ad assaggiare solo a Carnevale, della quale si mimava il gesto di preparazione facendo sfregare una mano sull’altra, senza proferire parola per non farsi “riconoscere”. Le polpette arrivavano infilate sulla forchetta, che a turno passava di bocca in bocca, in tempi non certo caratterizzati da eccessive fisime di natura igienica.

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