Da Gianni Brera a Marco Mazzocchi il giornalismo sportivo italiano ne ha fatta di strada. A ritroso. C’erano fondati motivi di sconforto, martedì sera, dinanzi alla castroneria sparata da Mazzocchi in diretta televisiva dallo stadio Marassi. Per calmare i propri tifosi, i giocatori serbi si avvicinano sotto la curva e fanno il gesto del tre con le dita. Interpretazione del giornalista Rai: “i giocatori dicono ai tifosi di smetterla altrimenti perderanno la partita 3-0 a tavolino”.
Per fortuna, a distanza di pochi minuti, il giornalista Bruno Gentili rimedia allo strafalcione del suo collega e ristabilisce la verità. Che non era un segreto di stato. Il “saluto a tre dita” (o “saluto serbo”) fa parte della simbologia ultranazionalista serba e rimanda alle pagine più buie della storia dell’ex Jugoslavia, quelle che videro protagonisti i gruppi cetnici (i fascisti serbi) nella guerra civile che si intrecciò con la resistenza contro l’invasore nazista durante la seconda guerra mondiale e nella pulizia etnica degli anni ’90 del Novecento.
I serbi sono forse gli unici al mondo a celebrare una sconfitta, quella subita il 28 giugno 1389 dai turchi nella Piana dei Merli (“Kosovo Polje”), come mito fondante della nazione. Una data, quella in cui si festeggia San Vito (28 giugno), che ricorre di continuo e marca gli avvenimenti più salienti, tanto che lo storico Joze Pirievec ha intitolato Il giorno di San Vito il suo fondamentale studio sulla storia della ex Jugoslavia: l’assassinio, a Sarajevo, dell’arciduca Francesco Ferdinando – erede al trono d’Austria – e di sua moglie Sofia, per mano del nazionalista serbo Gavrilo Princip, che causò lo scoppio della prima guerra mondiale (1914); l’approvazione della Costituzione (detta, appunto, “di San Vito”) del regno SHS – “Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni”; dal 1931, “Jugoslavia” – che stabilì la forma monarchico-parlamentare (1921); l’espulsione della Jugoslavia comunista dal Cominform (1948); la manifestazione organizzata da Slobodan Milosevic per il seicentesimo anniversario della battaglia della Piana dei Merli, che preannunciò l’imminente guerra civile (1989).
È una storia di popoli diversi per etnie, lingue, culture, religioni. Un vero e proprio ginepraio. Croati e sloveni più europei per via del retaggio austro-ungarico e cattolico; serbi e montenegrini storicamente legati alla Russia per il comune slavismo e la religione ortodossa; macedoni più “orientali” in virtù della storica sudditanza alla Sublime Porta. Ancora, serbo-bosniaci, croato-bosniaci, ungheresi della Vojvodina, albanesi del Kosovo, considerato sin dal 1389 culla della civiltà serba (“Kosovo è Serbia” era un eloquente striscione esposto allo stadio). E, nel cuore stesso dello stato ex Jugoslavo, la compresenza di tutti i fattori di diversità in un unico stato, la Bosnia-Erzegovina, dove l’elemento turco s’incontra (e si scontra) con quello serbo e croato. Il ponte sulla Drina, del premio Nobel per la letteratura Ivo Andric, è la metafora perfetta della Bosnia (e della stessa ex Jugoslavia): una terra in bilico tra occidente ed oriente, tra cristianesimo ed islam, come la cittadina bosniaca del romanzo, Visegrad, divisa in due dal fiume Drina e unita dal ponte che collega due sponde (e due mondi).
La storia della Jugoslavia, come stato unitario, comincia con l’assetto europeo stabilito a Versailles dopo la prima guerra mondiale. Una creatura fortemente voluta da Francia e Inghilterra in funzione anti-imperi centrali inizialmente, quindi per contrastare le mire espansionistiche di Italia e Ungheria. Tra le due guerre mondiali vive di fatto “sotto tutela”, grazie agli aiuti finanziari anglo-francesi, che ne determinano tutte le decisioni politiche, compreso – nel 1929 – il colpo di stato di Alessandro I contro le opposizioni.
All’interno del Paese si afferma l’ideale grande-serbo: i serbi occupano i gangli dell’amministrazione burocratica e militare, mentre il sistema economico si fonda sul costante drenaggio delle risorse economiche dalle regioni ricche (Croazia e Slovenia) verso Belgrado. Questo modello viene fatto proprio anche dal maresciallo Tito, che dopo la seconda guerra mondiale stabilisce la dittatura al termine di un periodo convulso che registra, accanto alla guerra contro l’invasore nazista, quella tra le truppe cetniche di Mihailovic e i partigiani comunisti.
Il regime titoista attraversa diverse fasi: dalla fedeltà al modello sovietico all’eresia sanzionata dalla scomunica stalinista nel 1948, fino all’elaborazione dottrinaria di Kardelj e Dijlas che costituisce la base teorica del socialismo jugoslavo. Pilastri del nuovo corso sono l’autogestione in politica interna, il non-allineamento e il terzomondismo nel campo estero (una sorta di “pendolo” tra i due blocchi creati a Yalta).
I conflitti interni diventano però sempre più aspri e, inevitabilmente, esplodono in seguito alla morte di Tito (1980), quando i vincoli federali si allentano e la disastrosa congiuntura economica esaspera quelle spinte secessionistiche che diventano incontrollabili dopo la caduta del muro di Berlino. Una deriva che viene mirabilmente evocata da Emir Kusturica nella sequenza finale di Underground, capolavoro cinematografico che ripercorre cinquant’anni di storia nazionale, dalla seconda guerra mondiale alla disgregazione dello stato jugoslavo.
Il resto è guerra, distruzione e crimini contro l’umanità. E un dopoguerra lunghissimo, con la questione kosovara ancora capace di generare tensione e apprensione.
L’equivoco
Dagli articoli e commenti pubblicati negli ultimi due anni, prima sul sito santeufemiaonline e ora su questo blog, si potrebbero fraintendere le mie reali impressioni sulla società attuale. Vorrei pertanto rassicurare i miei venticinque lettori (per dirla alla Manzoni): la nostalgica e facile suggestione del “si stava meglio quando si stava peggio” non mi appartiene, se non nel senso che soggettivamente posso preferire alcuni aspetti del passato rispetto a comportamenti che non condivido o non riesco a decifrare con i miei (desueti?) parametri di valutazione. Comprendo invece che i tempi sono mutati e che la realtà odierna è completamente diversa rispetto a quella di qualche decennio fa, perché le trasformazioni intervenute hanno stravolto le abitudini e la vita delle persone.
È sufficiente parlare con chi oggi ha settanta-ottanta anni per comprendere di quanto siano cambiate le nostre comunità. Parecchie persone sono cresciute in abitazioni prive di beni che noi diamo per scontati: elettricità, acqua corrente, servizi igienici, cucine, riscaldamenti (per non dire degli elettrodomestici e di tutto quanto sia collegato allo sviluppo tecnologico), persino brande e materassi. Quando, alla fine degli anni ’50, cominciarono ad arrivare in paese i primi televisori e la gente dei quartieri (le “rrughe”) si riuniva nelle abitazioni dei pochi fortunati che ne possedevano uno per vedere “Il musichiere” o gli sceneggiati, in tanti andavano a controllare dietro quell’incomprensibile scatolone per verificare se non ci fosse qualcuno nascosto.
Questo per dire che non sono un luddista, non considero cioè il progresso tecnologico un male; e per affermare una verità lapalissiana, cioè che senza dubbio la qualità della vita è di parecchio migliorata dal secondo dopoguerra ad oggi. È pur vero, però, che lo sviluppo industriale ha provocato contraccolpi negativi nelle relazioni sociali: si parla di meno, si tende sempre più all’autosufficienza affettiva, sono aumentate le paure verso l’esterno, si sta sempre di più in casa e di meno sulla strada, a contatto con la vita vera. Quando escono, specie i ragazzini e i bambini, sono sostanzialmente parcheggiati da qualche parte (tempo pieno a scuola, palestra, scuola di ballo, di musica, di tutto).
Questo non significa che i giovani e i bambini di oggi siano meno intelligenti. Semmai è vero il contrario, dato che l’abilità tecnologica di alcuni è veramente sorprendente. Bambini che ancora non hanno imparato a scrivere riescono ad utilizzare correttamente un computer o un telefonino. La loro capacità di apprendimento è di gran lunga superiore rispetto a quella delle generazioni passate, probabilmente perché il cervello, ricevendo maggiori stimoli dall’esterno, è più allenato e predisposto a sviluppare le capacità cognitive.
Il corto circuito scatta quando il nuovo fa tabula rasa del passato, quando sulla modernità non vengono innestati quei valori tanto “antichi” quanto bistrattati: famiglia, amicizia, rispetto, responsabilità.
La famiglia non può abdicare al proprio ruolo educativo. Il permissivismo e il giustificazionismo di alcuni genitori sono dannosissimi. Molti ragazzi pensano che tutto sia loro dovuto e che possano (e debbano) fare qualsiasi cosa passi loro per la testa. Questo perché non è stato loro insegnato che accanto ai diritti esistono anche i doveri; che il rispetto del prossimo e dell’ambiente che ci circonda è un valore fondamentale; che senza responsabilità non può esistere una vita di relazione.
Così come non può rinunciarvi la scuola, con i suoi insegnanti sempre più umiliati e considerati alla stregua di baby sitter, privi di qualsiasi autorevolezza.
Né tantomeno i rapporti interpersonali possono ridursi al click distratto con cui su Facebook si accetta una richiesta di amicizia. Non è inusuale che persone “amiche” nella rete, se si incontrano per strada neanche si salutano. Per me questo non è normale: è semplicemente inconcepibile.
La morte in diretta
Provo un profondo disagio nell’esprimere un giudizio negativo su Federica Sciarelli e sul suo “Chi l’ha visto?”, che seguo sin dagli inizi e reputo un esempio di vero servizio pubblico in palinsesti quasi interamente monopolizzati da programmi-spazzatura. Niente a che vedere, insomma, con tutti quei programmi che speculano – da mane a sera – sulle disgrazie altrui, esibendo le solite compagnie di giro e gli immancabili fenomeni da baraccone. Tutti a favore di telecamera, tutti pronti a dispensare la propria verità, i propri sospetti, i “si vedeva che era così”. Spesso lontani parenti delle vittime, gente che in molti casi non ha mai avuto rapporti (o non ne ha da tempo immemorabile) con i malcapitati protagonisti della tragedia, ma che ne approfitta per poter godere del proprio warholiano quarto d’ora di celebrità.
In quale gorgo stiamo precipitando, se non riusciamo a fermarci davanti a niente, se non comprendiamo che davanti all’orrore occorre a volte spegnere le telecamere e lasciare che il dolore torni ad essere un sentimento privato, da tenere per sé e non da esibire nella piazza televisiva?
La spettacolarizzazione della morte è un esempio di come qualsiasi sentimento, per esistere, ha bisogno di essere buttato in piazza, condiviso con altri, “linkato” come avviene su internet per qualsiasi cosa, sia un post, una foto o un video.
E poi c’è questa abitudine, pessima, di fare baccano, quando invece occorrerebbe stare zitti. Ci sono dei momenti in cui si devono spegnere le luci, abbassare le voci e lasciare campo al silenzio. La morte esige silenzio, compostezza, raccoglimento. Non quegli odiosi applausi che ormai frequentemente si odono ai funerali. Da sempre, l’applauso esprime gioia, non dolore. Il dolore si esprime con il silenzio e con le lacrime, possibilmente a telecamere spente.
Dovrebbe esistere un modo per affermare il diritto di cronaca senza turbare le coscienze. Quelle telecamere che insistevano sul volto della madre per carpirne le reazioni alla notizia della confessione resa ai giudici dal cognato hanno fatto del male alla famiglia della vittima, a noi che assistevamo e alla televisione in generale. È stato superato il limite del buonsenso. Quello che avrebbe dovuto avere Federica Sciarelli (o qualche responsabile del programma), interrompendo d’imperio la diretta dalla casa dell’assassino, senza chiedere alla madre di Sarah se volesse ascoltare le notizie che si stavano diffondendo in rete e spiegando, dopo (alla famiglia e al pubblico), ciò che stava accadendo.
Volevo morire in Piazza Grande
A guardare le piazze del mio paese, anche Lucio Dalla si sarebbe ricreduto e avrebbe riformulato il desiderio di morire nella sua adorata Piazza Grande, “tra i gatti che non han padrone come me”. In tempi di politically correct anche il bruttume ha diritto di cittadinanza, non fosse altro che per segnalare alle giovani generazioni le cose da non fare per salvaguardare un minimo di armonia e bellezza nello spazio che ci circonda. Non può esserci altra argomentazione valida per giustificare lo scempio architettonico – e non solo – delle piazze di Sant’Eufemia.
I luoghi dell’incontro e della memoria, per dirla con le parole della traccia di un tema di maturità di alcuni anni fa, stanno diventando aree poco fruibili, fatta esclusione per piazza Matteotti, che però presenta una serie di altre gravi problematiche.
Alcune non hanno neanche un nome, segno di inequivocabile povertà culturale: possibile che dal secondo dopoguerra non ci sia stato un eufemiese degno di essere ricordato nella toponomastica cittadina? La piazzetta in via maggiore Cutrì appartiene a questa categoria: quella – per intenderci – senza ringhiera, senza un cespuglio, un albero o un fiore, con panchine simili ai tavoli di un obitorio e con una ghigliottina limacciosa al posto della fontana. Così come quella in via De Nava, che come altre ha una spiccata polifunzionalità, tanto da fungere indifferentemente da piazza e da parcheggio.
Piazza Azzolina ne è l’esempio più eclatante, ma è addirittura preferibile nelle condizioni attuali rispetto all’iniziale piramide (o “supposta”) al centro della piazza e alla sudiceria della fontana che era diventata un cassonetto della spazzatura. Un altro bel parcheggio è stato ricavato nel largo Giovanni Paolo II, inaugurato in fretta e furia per ragioni politiche alla vigilia delle passate elezioni comunali. In barba, evidentemente, al ben noto motto “scherza con i fanti ma lascia stare i santi”. E definiamo scherzo tutta l’operazione politico-mediatica sorta intorno a quella inaugurazione per carità di patria. Paradossalmente, se ora quell’area fosse davvero utilizzata come parcheggio risolverebbe i problemi di congestione del traffico che nell’area attorno a piazza Matteotti fanno imprecare gli automobilisti costretti a incolonnarsi dietro le macchine di coloro che per entrare nelle attività commerciali di via Vittorio Veneto sostano impunemente dove non si dovrebbe.
Già, piazza Matteotti. La piazza dei ventinove lampioni che incredibilmente non assicurano una completa illuminazione; delle poche e scomodissime panchine (piangiamo quelle di prima, che erano sistemate in modo da consentire la conversazione a gruppi di una decina di persone); dell’inutile chiosco; delle pendenze che raccolgono al centro la pioggia creando una suggestiva piscina; della leggendaria palla, assurta a metafora di un’intera amministrazione comunale.
A breve dovrebbero iniziare i lavori di riqualificazione di piazza don Minzoni: incrociamo le dita.
C’erano una volta i partiti
Quasi quasi viene da rimpiangere la partitocrazia della tanto vituperata Prima Repubblica. Almeno era chiaro chi stava con chi, chi era un compagno di viaggio, quali erano gli avversari.
Oggi è una melma gelatinosa, per non utilizzare il linguaggio “pulp, molto pulp, pure troppo” di Thomas Prostata, alias Bebo Storti, che rimanda alla più citata pillola di saggezza dispensata da Rino Formica: “la politica è sangue e merda”.
Questa estate abbiamo assistito all’implosione di un partito (parolona) – il PDL – crollato sotto i colpi che i due cofondatori (Berlusconi e Fini) si sono scambiati senza risparmio, in un clima di resa dei conti simil basso impero. La sinistra si è così ritrovata a “fare il tifo” per Fini, segno inequivocabile della propria inconsistenza e dell’incapacità di avanzare una proposta politica endogena, indipendente cioè dall’unica ragione (esterna) che tiene insieme i tanti cacicchi (copyright: Massimo D’Alema), mezzi bianchi e mezzi rossi: l’antiberlusconismo – di facciata tra l’altro, visto che quando ci fu la possibilità di sanare la più grave anomalia del sistema politico italiano (il conflitto d’interessi del premier) fu la sinistra al governo a rivelarsi assolutamente inadeguata.
Trovo molto triste e avvilente lo spettacolo allestito da personaggi impudenti che hanno anche l’ardire di dichiarare enfaticamente di avere a cuore “l’interesse del Paese”. Personalmente, non mi sento rappresentato da politici che (a destra, a sinistra, al centro) non sono in grado di fare ciò per cui i cittadini votano e pagano. Chi ha vinto deve governare, chi ha perso deve esercitare l’altrettanto importante funzione di controllo. Tutti gli altri tentativi di sovvertire il responso delle urne sono mascalzonate. In questo, per la prima volta nella mia vita, mi trovo d’accordo con Berlusconi. Se cade il governo, occorre andare al voto. La sinistra, questa sinistra evanescente, è terrorizzata dall’idea di tornare alle urne perché rischia seriamente di scomparire. Ecco perché rispolvera un malinteso senso delle istituzioni per tentare un giochino vecchio quanto il cucco: un accordo che le consenta, principalmente, di guadagnare altri tre anni, indispensabili (e forse neanche sufficienti) per organizzare una reazione che assomigli almeno ad un flebile respiro.
Il problema è che Berlusconi è capace di vincere da solo eventuali elezioni, tanta è l’impalpabilità dell’avversario. E ciò costituisce davvero una seria preoccupazione. Altro che leggi ad personam: ci ritroveremmo con un Parlamento quasi completamente piegato al volere di un capo del governo dotato di un potere vastissimo.
Riassumendo: da un lato abbiamo un partito sempre più personale e aziendale, con le ultime voci fuori dal coro messe alla porta; dall’altra una specie di ectoplasma sopravvissuto malamente al velleitarismo veltroniano della “vocazione maggioritaria” e comunque incapace di coagulare energie e personalità forti attorno ad una proposta seria e credibile. L’Unione di Prodi è stata sbranata dagli alleati. Non si capisce perché dovrebbe avere sorte diversa una riedizione riveduta e corretta (Montezemolo? Casini? Allegria, popolo della sinistra). E poi, si sa: la prima volta è tragedia, la seconda farsa.
L’uomo e la regina
La passione per il teatro, così come quella altrettanto intensa per i classici greci, traspare un po’ ovunque tra le pagine del bel romanzo di Aldo Coloprisco, L’uomo e la regina (Laruffa editore, Reggio Calabria 2009). L’incipit stesso, con il protagonista che si guarda allo specchio e si sistema il cappello con cura, rimanda alle indicazioni per la messa in scena di un’opera teatrale. C’è un’attenzione per i dettagli nella descrizione sia dei posti che dei comportamenti dei personaggi che ci riporta all’attività di regista e di autore teatrale di Coloprisco: “il bastone di legno leggero dal manico d’osso” del protagonista; la donna che ha “il mento appoggiato sul manico della scopa” mentre conversa; la preparazione meticolosa del caffè, la descrizione minuziosa della bottega del “restauratore”, o quella della cappella privata, nella scena che introduce, in pagine di grande lirismo, il toccante ricordo delle dolci carezze all’anziano padre e della morte della madre.
Credo quindi che il romanzo debba molto all’amore del suo autore per il teatro, inteso secondo il celebre aforisma di Eduardo De Filippo: “lo sforzo disperato che compie l’uomo nel tentativo di dare alla vita un qualsiasi significato è teatro”.
Questa cura per i particolari a volte sembra avere anche altre ascendenze. Mi riferisco alla descrizione della stanza e degli oggetti che circondano il protagonista nel passaggio in cui ricorda le veglie notturne, nell’attesa del ritorno a casa dei figli. Si possono infatti rilevare delle assonanze con “le buone cose di pessimo gusto” di Guido Gozzano nella poesia L’amica di nonna Speranza, oppure – operando un collegamento al di fuori della letteratura – con la canzone Vite, di Francesco Guccini, nella quale il cantautore si pone le stesse domande del protagonista del romanzo sul destino degli oggetti e delle persone che, nel fluire del tempo, li hanno di volta in volta posseduti e utilizzati.
La vicenda si consuma nell’arco di una giornata, nel corso della quale il protagonista rivive tutta la propria vita, come nel nastro di un film riavvolto, ma incontra anche tutta una serie di personaggi che danno un senso alla sua intera esistenza nelle ore che precedono il suo distacco dalle cose terrene. La complessità delle tematiche affrontate non impedisce all’autore di riuscire a farsi leggere sovente col sorriso sulle labbra. Il romanzo è infatti pervaso da un’ironia ora sottile ora corrosiva, ma in nessun caso triviale. Penso ad alcune riflessioni sulle giovani donne che sposano uomini molto più maturi, sugli intellettuali che polemizzano sui massimi sistemi e sul sesso degli angeli; o all’incontro con il “restauratore”, un personaggio che sembra uscito dalla fortunata tradizione letteraria romanesca che va da Gioacchino Belli a Trilussa.
Lo svolgimento dell’intreccio avviene su più piani, sia temporali che spaziali, grazie al sapiente ricorso al flash-back come artificio narrativo efficace per tenere insieme una trama ricca di storie e di personaggi. Tra le pieghe dei ricordi si intravedono persone e luoghi che fanno senza dubbio parte dell’album autobiografico dell’autore.
Il presente – in una città caotica e dai ritmi forsennati – rivela tutte le rughe fisiche e interiori che comporta l’incedere della vecchiaia e si contrappone ad un passato quasi onirico nel quale situazioni e personaggi affollano la mente del protagonista come fantasmi che appaiono all’improvviso, in una Calabria che è “terra selvaggia ma bellissima”, soggiogata dalla violenza che governa la natura e la società. Una terra in cui è ancora possibile assistere al delitto d’onore di un giovane per mano dei suoi “tre più cari amici”, sulla scorta di accuse probabilmente false. In pagine che riecheggiano il migliore Corrado Alvaro, viene descritta la morte di massaro Rocco, “travolto con le sue pecore dalla furia di fango e di pietre”. Altrove, il barbaro assassinio di Antonio – un giovane che si era ribellato ai soprusi e al malaffare e che aveva osato candidarsi a sindaco in un paese di “quattro case e un forno” – si pone invece nel solco tracciato da un altro calabrese d’esportazione, il carfizzoto Carmine Abate. Il paesino di Calabria è soprattutto il luogo dell’infanzia e della giovinezza, rappresentato da un ciliegio fiorito che rimanda ad uno dei più bei libri di Enzo Biagi, L’albero dai fiori bianchi, anch’esso venato da una forte nostalgia per i luoghi e i volti della gioventù. Volti, in alcuni casi, mai rivisti nel corso degli anni. Storie consumate nell’arco di un pomeriggio, come l’amore per Elisa, della quale il protagonista non sa più nulla, ma il cui ricordo continua a provocare un’emozione intensissima. “È stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati”, canta d’altronde Fabrizio De Andrè nella canzone Giugno ’73. Un microcosmo destinato forse a scomparire (“il paese muore – ammonisce l’autore – senza che nessuno faccia niente per salvarlo”), agonizzante a causa dell’emorragia costante di giovani che emigrano alla ricerca di lavoro, che si contrappone alla Capitale, “una camera a gas” popolata da esseri inscatolati in trabiccoli metallici, alienati e frenetici nel loro andare senza meta e con un bisogno pressante di stare in mezzo alla folla per sentirsi vivi, anche soltanto per sproloquiare su qualsiasi argomento (tempo, governo, calcio, salute). Nel caos quotidiano, anche un’azione apparentemente insignificante come quella di lasciare a casa volontariamente il telefonino può costituire un gesto di grande libertà, un volersi riappropriare della propria esistenza di fronte alle invasioni che la nostra privacy di continuo subisce. Coloprisco non rinuncia ad aprire una finestra sull’attualità, lasciandosi andare a considerazioni mai banali sulla libertà, la democrazia, il potere della televisione e la condizione dell’uomo nella società dei consumi. Mai come in questo momento, di fronte ai tentativi di omologazione cui siamo quotidianamente sottoposti, allo squallore intellettuale di chi vuole farci credere che questo è il migliore dei mondi possibili e che è sovversivo chiunque non lo riconosca, servono voci limpide e terse che denuncino l’inganno. Altrimenti diventa impossibile accorgersi di un’umanità dolente, che può assumere le sembianze di una donna “tradita e delusa” che improvvisamente si dedica soltanto alle faccende domestiche, rinunciando ad avere qualsiasi altro ruolo nella famiglia e nella società; di un disoccupato che “non sa dove sbattere la testa”; di un ragazzo che pensa di superare i propri problemi esistenziali togliendosi la vita; di un barbone che mendica qualche spicciolo; di una prostituta che per necessità o per costrizione vende il proprio corpo. Coloprisco ci presenta questa umanità con delicatezza, con quella “com-passione” che, come ci spiega l’etimologia, rende partecipi della sofferenza altrui ed esalta la pietas che sta alla base dell’amore e del rispetto per il prossimo. L’incontro con Marisa, che si definisce “un trenino rotto” e che convive con il dolore atroce causato dalla morte del figlio per overdose, non è soltanto la denuncia contro uno dei mali più subdoli della nostra società, ma offre anche all’autore lo spunto per affrontare una questione sulla quale più volte ritorna: il rapporto problematico con la religione. La posizione intellettualmente più saggia non può che essere rappresentata dall’agnosticismo, che non va confuso – come spesso accade – con l’ateismo. L’ateo nega l’esistenza di Dio, l’agnostico non si pronuncia, in quanto non può dare una risposta razionalmente sicura, per cui lascia aperto il campo a qualsiasi ipotesi. C’è però un bisogno di fede e di certezze difficile da nascondere, una ricerca ossessiva che forse, come sosteneva Sant’Agostino, è essa stessa fede. Strettamente legato a questo è poi il tema della morte, colei che finalmente darà le risposte alle infinite domande che ognuno si pone e che Coloprisco propone in pagine altamente introspettive.
L’inseguimento tra il protagonista e la “regina” si conclude con l’incontro finale. Questa donna che appare e scompare, rinviando di fatto l’appuntamento dell’uomo con la morte ricorda, per certi versi, il celebre film di Ingmar Bergman, Il settimo sigillo, nel quale il cavaliere e la morte giocano una partita a scacchi dall’esito scontato mentre attraversano i mali della società. Anche Coloprisco ci fa vedere le piaghe del mondo, prima fra tutte la guerra, contro la quale scaglia un anatema vigoroso (“maledetti gli uomini che vogliono la guerra, bestie più delle bestie”) e contemporaneamente ci fa commuovere con la “favola della stella” che una nonna racconta al proprio nipotino. Per altri versi, credo sia invece possibile azzardare un paragone con la produzione teatrale (ma non solo) di Samuel Beckett. Anche gli eroi beckettiani – ad esempio i protagonisti di L’ultimo nastro di Krapp; Finale di partita; Aspettando Godot – sono generalmente colti nel momento che precede la fine, una fine che inconsciamente cercano. Come il protagonista de L’uomo e la regina, sono personaggi un po’ avanti negli anni che si raccontano e ci raccontano delle storie nel tentativo di prolungare così la loro agonia perché sentono “l’obbligo di esprimere in un mondo in cui non c’è niente da esprimere”, rinviando così il raggiungimento di quella fine che pure desiderano perché “non c’è più niente da rimpiangere, non ci sono anni da rivolere indietro”.
Il protagonista del romanzo di Coloprisco va incontro al suo destino, come gli eroi delle tragedie greche, senza tentare di procrastinare un incontro che comunque avverrà, con un’ansia di affrontare l’ignoto paragonabile alla smania di Ulisse nel ventiseiesimo canto dell’Inferno di Dante. Nonostante l’epilogo tragico, l’autore riesce a consolarci con parole e immagini di speranza e di vita perché – come egli stesso ci ricorda – è vero che sono stolti gli uomini che vogliono conoscere il proprio destino, ma è anche vero che è saggio l’uomo che nel suo piccolo spende la vita per lasciare alle generazioni future un mondo migliore di quello ereditato dai suoi predecessori.
L’untore
La caccia all’untore è da sempre uno sport molto popolare in Italia. Tanto quanto l’adulazione verso i potenti. Comportamenti molto diffusi che costituiscono due facce della stessa medaglia. In genere, è proprio colui che è platealmente adorato – specialmente se potente e temuto – ad essere altrettanto odiato una volta caduto in disgrazia. Pescare nella storia della nostra nazione esempi che avvalorino questa tesi è esercizio facilissimo. Piazzale Loreto – una scena da “macelleria messicana” (Ferruccio Parri) – non sarebbe altrimenti comprensibile. Il cadavere dell’uomo osannato fino al giorno prima, preso a calci, sputato, orinato.
Fatte le debite proporzioni, è ciò che accade nella vita quotidiana: a scuola, in ufficio, al comune, nel condominio, ovunque vi siano rapporti gerarchici, anche soltanto in senso lato. Vale a dire dappertutto.
Da circa un mese a questa parte, il giochino preferito degli Italiani è lo sputtanamento di Marcello Lippi. Mentirei se dicessi che il personaggio mi sta simpatico. Tutt’altro. Lo trovo arrogante, saccente, troppo pieno di sé e poco rispettoso del mondo che lo circonda. Senza contare che agli occhi di un interista, l’ex allenatore della nazionale sconta non soltanto il pessimo ricordo lasciato nella breve parentesi nerazzurra, ma soprattutto il peccato originale della sua juventitudine, l’essere stato, a vario titolo, compagno di merende di Moggi, Giraudo e Bettega. Ritengo inoltre pertinenti gran parte delle critiche sui limiti tecnici della nostra nazionale e sulle responsabilità del suo condottiero. Insomma, un po’ se l’è cercata.
Eppure ho l’impressione che si stia superando il segno. Una sensazione che è diventata certezza quando ho visto in tv uno spot di suonerie per telefonini che invitava a scaricare una canzone dall’eloquente titolo “Vergogna”. Inutile dire chi sia il personaggio che dovrebbe provare vergogna e i motivi. In quel momento ho pensato che aveva ragione Indro Montanelli nel sostenere che quando si accendono i roghi occorre mettersi sempre dalla parte della strega, anche a rischio di salire sul rogo con lei.
La redazione sportiva Rai ci ha massacrato per giorni con le “dieci” domande alle quali Lippi avrebbe dovuto rispondere, magari prima di confessare la propria irredimibile colpevolezza e la richiesta spontanea di essere confinato in un Gulag siberiano. Non ho notato nella Rai identico accanimento per questioni ben più importanti, per esempio le dieci domande (toh, non hanno neanche la dote dell’originalità) del quotidiano “La Repubblica” per Berlusconi dopo lo scandalo D’Addario, letteralmente censurate dal servizio pubblico nazionale.
È un segno dei tempi, di un certo giornalismo ormai diventato gara di ugole, come abbiamo potuto constatare per un anno intero con il fenomeno Mourinho, tanto per restare nel campo sportivo. Criticato perché irregolare, irriverente e anticonformista, ma già rimpianto perché personaggio straordinario, l’unico in grado di fare riempire pagine di giornali e trasmissioni intere con una sola battuta contro quel sistema che fa mangiare nello stesso tavolo giornalisti, allenatori, procuratori. Magari gli stessi che di fronte alle telecamere fanno la faccia feroce e se ne dicono di tutti i colori. Ognuno recitando il proprio copione.
Quel vecchio tanfo di fascismo
Il grande giurista Piero Calamandrei amava ripetere che “la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”. Ma c’è di più: all’inizio uno neanche se ne accorge, perché continua a respirare lo stesso, pur con sempre maggiore difficoltà. Fino a quando non soffoca.
Stanno tentando di fare questo: asfissiarci poco alla volta, sopprimendo i diritti conquistati con anni di lotte, di esilio e di galera. Lo stanno facendo scientificamente. Un diritto in meno oggi, un altro ancora domani. Quando, finalmente, il popolo si sveglierà dal torpore in cui è sprofondato, si ritroverà con la catena al collo.
È un’esagerazione? Siamo i soliti comunisti catastrofisti? Non sono mai stato comunista. E comunque, non credo sia neanche questo ormai il problema, a meno che non si voglia considerare pure Gianfranco Fini (distante anni luce dalle mie convinzioni politiche) un pericoloso e sovversivo trinariciuto.
Il disegno di legge sulle intercettazioni, che il Parlamento si sta affrettando ad approvare con una lena inusuale (e sospetta), va esattamente in quella direzione. Tra i primi provvedimenti (1923) adottati dal fascismo prima ancora che diventasse regime, ci fu proprio la limitazione della libertà di stampa. Ora vogliono fare passare come dettato dalla necessità di difendere la privacy dei cittadini (un’esigenza sacrosanta) un ddl che in realtà punta a mettere il bavaglio all’informazione non allineata e scomoda, quella che – tanto per essere chiari – ha consentito di scoperchiare i tanti pentoloni dell’affarismo di cricche e consorterie varie.
Ancora: in pochi si sono accorti che, con la motivazione della lotta all’immigrazione clandestina, si stanno introducendo delle vere e proprie leggi razziali, come quella che prevedeva l’aggravante per i reati commessi dai clandestini e che la Consulta di recente ha cassato. Per chi l’avesse dimenticato, l’articolo 3 della Costituzione recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Strano che proprio il presidente della Repubblica, che dovrebbe essere il custode della nostra Carta fondamentale, se ne fosse scordato e avesse dato il via libera.
Quando le camicie nere furono alle porte di Roma, il presidente del consiglio Luigi Facta e il ministro dell’Interno Paolino Taddei sottoposero al re Vittorio Emanuele III il decreto di stato d’assedio approvato in piena notte dal consiglio dei ministri. Dapprima d’accordo, il re si rifiutò di firmare e le cose andarono come sappiamo. Ora, il presidente non è soltanto un notaio che firma qualsiasi foglio gli mettano davanti. Ha anche un potere rilevantissimo, quello di rinviare alle Camere le leggi in cui ravvisa profili di incostituzionalità. Lo eserciti.
E l’uso vergognoso e strumentale delle cariche pubbliche? Quale altra finalità potrebbe avere la nomina di Aldo Brancher a ministro (non si sa bene neanche di cosa, visto che Bossi si è infuriato quando ha sentito di un ministero per il federalismo, che è roba sua) se non quella di eludere – grazie al legittimo impedimento – il filone collaterale del processo sulla scalata all’Antonveneta che lo vede coinvolto? Difatti, un quarto d’ora dopo l’accettazione dell’incarico si era subito avvalso di questa facoltà (che sarebbe più corretto definire artificio) per evitare il processo. D’altronde, il maestro (guarda caso, suo capo sin dai tempi di Pubblitalia) l’ha avuto di prima scelta. Fortunatamente, in questo caso Napolitano ha mostrato segnali di resipiscenza: non c’è niente da organizzare in un ministero senza portafoglio. Resta comunque il disinvolto, strumentale e inverecondo uso delle cariche pubbliche per fini personali, la strafottenza e l’arroganza di chi si sente al di sopra della legge.
Da ultimo, l’accordo di Pomigliano, che la Fiat ha potuto imporre anche in virtù del sostegno governativo. Certo, come si fa a dire a più di 5.000 operai con famiglie da mantenere che quell’accordo non andava firmato perché non si possono barattare i diritti dei lavoratori con il posto di lavoro? La libertà però è un bene indisponibile e ciò che è avvenuto nello stabilimento Fiat rappresenta un pericoloso campanello d’allarme.
Non sono per niente d’accordo sul fatto che – come si dice da più parti – occorra “abbassare i toni”. A furia di abbassare i toni, ci siamo abituati a sopportare qualsiasi porcata. Occorre invece alzare i toni, fare sentire la voce di chi considera la libertà il bene più prezioso.
Il burattinaio di parole
Francesco Guccini è entrato a casa mia e nella mia vita ai tempi del liceo, saltando fuori dallo zaino di mio fratello – lui al terzo anno, io al secondo – “copiato” (preistoria, a ripensarci) in tre musicassette: Radici; L’isola non trovata; Quasi come Dumas.
Il 14 giugno l’eterno studente e burattinaio di parole (come si è autodefinito, rispettivamente in Addio e in Samantha) ha compiuto settanta anni e, come si conviene per un artista che ha segnato la storia della musica italiana, le rievocazioni da giorni occupano le pagine dei giornali.
Guccini è un cantautore coltissimo, paragonato da Umberto Eco a Walt Whitman, capace di rime e assonanze ricercatissime, di citazioni dotte e riferimenti letterari eruditi (dal profeta Isaia a Borges), ma anche di temi “bassi”, di sberleffo puro, come sa chiunque abbia ascoltato l’album Opera buffa o la canzone I fichi nel disco non a caso intitolato D’amore, di morte e di altre sciocchezze. Un anarchico “perso dietro le nuvole e la poesia”, attaccato alle proprie radici, ad un mondo in via di estinzione riproposto sotto forma di mito (l’infanzia, la saggezza dei montanari dell’Appennino). E poi i temi del tempo che passa e l’intimismo di certe situazioni raccontate come con una cinepresa, della rivolta e della lotta contro le ingiustizie, dei miti della sua gioventù (l’America, Hemingway, Bob Dylan, la Beat generation), dei vinti e dei “piccoli eroi delle occasioni perse”, del rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato (per dirlo con le parole di Gozzano, cui Guccini spesso rimanda).
Per me Guccini è un caldo giugno di tanti anni fa. È il profumo di una ragazza, due corpi sudati sotto un sole cocente alle tre del pomeriggio. Sono tanti viaggi, i finestrini della macchina abbassati e l’aria che entra scompigliando i capelli, Eskimo cantata a squarciagola, quando ancora il futuro era una mela acerba e non c’era tempo per farla maturare. È un concerto al Palapentimele, tutti seduti a terra, un rito inderogabile nei concerti di Guccini: una via di mezzo tra un’assemblea del sessantotto o i collettivi degli anni Settanta e una scampagnata fuori porta, con il più bravo della compagnia che tira fuori la chitarra e suona e canta per tutti. Sono di nuovo due corpi stretti stretti, mentre la scaletta delle canzoni scorre via, iniziando (Canzone per un’amica) e finendo (La locomotiva) con le stesse due canzoni da sempre.
E poi quel dialogare con il pubblico, la sua “r” che si arrota, l’esclamazione “non sono mica un juke-box” rivolta ad un gruppo di ragazzi che chiede insistentemente Incontro, i rimproveri a quelli che ogni tanto provano ad alzarsi da terra. Non si può. Bisogna attendere le ultime tre canzoni: quando attacca Dio è morto scattiamo tutti in piedi e non smettiamo di saltare e di urlare fino ai saluti finali. Dopo è soltanto nostalgia struggente e Farewell che ronza nella testa.
La Santa Alleanza
Il rapporto Mezzogiorno-Governo centrale rischia di scivolare verso una china molto pericolosa, ma c’è una generale sottovalutazione di questa emergenza. Fino a quando, infatti, le popolazioni meridionali potranno sopportare di essere defraudate da un governo sfacciatamente sbilanciato sopra la linea Gustav?
Basta mettere in fila i provvedimenti adottati o comunque proposti per farsi un quadro del grado di attenzione riservato alle regioni meridionali e, in particolare, alla Calabria.
La vicenda dei fondi FAS (fondi per le aree sottosviluppate) è emblematica. Istituiti per sostenere lo sviluppo e l’occupazione al Sud, negli ultimi due anni sono stati platealmente saccheggiati (circa 31 miliardi di euro su un totale di quasi 54) dal governo con una logica da Robin Hood alla rovescia che ha consentito la redistribuzione alle regioni del Nord di fondi destinati a quelle meridionali.
Come se si trattasse di un bancomat, sono stati prelevati soldi per ripianare il debito pubblico, per l’emergenza rifiuti di Napoli, per la riqualificazione energetica degli immobili, per il taglio dell’Ici, per ripianare i buchi di bilancio dei comuni di Roma e Catania, per finanziare il Servizio sanitario nazionale, per mettere a posto i conti dell’Alitalia e delle Ferrovie dello Stato e per tanti altri provvedimenti (uno su tutti: la realizzazione, mai avvenuta, del G8 della Maddalena).
L’utilizzo improprio ha provocato la condanna della Corte dei Conti, che ha stigmatizzato l’andazzo di considerare i fondi FAS veri e propri “fondi di riserva” ai quali “si è fatto ricorso in modo massiccio” e in settori “non direttamente connessi con la missione concernente il riequilibrio territoriale”. Che tradotto vuol dire che soldi assegnati per risollevare l’economia del Sud sono stati invece utilizzati per coprire spese di diversa natura al Nord. Per essere più chiari: lodevole quanto si vuole (ci mancherebbe altro) l’iniziativa di alleviare con la cassa integrazione le pene degli operai rimasti senza lavoro, ma i soldi prelevati dai fondi FAS per finanziare l’operazione andavano destinati ad altri interventi, al Sud (mentre gli operai beneficiati risiedono prevalentemente al Nord).
Per non parlare degli imprenditori senza scrupolo scesi dal Nord – secondo la denuncia della senatrice UDC Dorina Bianchi – per fare della Calabria “terra di conquista”, approfittando dei finanziamenti della legge 488 e del Contratto d’area che hanno consentito loro di aprire le aziende “giusto il tempo necessario per avvalersi degli incentivi. Poi hanno chiuso le imprese, lasciando a spasso i lavoratori e tornandosene al Nord”.
E che dire della proposta, contenuta nella bozza originaria della manovra correttiva, poi scartata (ma ora riapparsa in un emendamento al disegno di legge sulla Carta delle autonomie all’esame della commissione Affari costituzionali della Camera), di sopprimere le province con popolazione inferiore a 220.000 abitanti? È un esempio classico di come un progetto in linea di principio condivisibile – l’abolizione degli enti provinciali per tagliare un po’ di spese inutili, anche se, personalmente, preferirei tornare all’impianto originario del nostro Stato, abolendo le Regioni e conservando le province – diventi indigesto per la Calabria, visto che la scure governativa avrebbe risparmiato le province delle Regioni a statuto speciale e quelle direttamente confinanti con Stati esteri. Facevano prima a scrivere “si aboliscono le province di Vibo e Crotone”.
Non è antimeridionalista un provvedimento che, pur necessario, diventa punitivo soltanto per una parte d’Italia?
E la proposta di introdurre il pagamento del pedaggio sull’A3 Salerno-Reggio Calabria e sul raccordo reggino tra A3 e statale 106? O è uno scherzo, per cui chi l’ha proposto è inadeguato a governare, o è una vera e propria dichiarazione di guerra contro la Calabria. Vogliamo almeno sperare che il provvedimento riguardi qualche tratto già concluso e non il rischiosissimo budello-mulattiera che quotidianamente molti lavoratori sono costretti a percorrere facendosi il segno della croce prima di mettersi in viaggio.
Il ceto dirigente meridionale è chiamato ad un atto di grande responsabilità, pena il suo rovinoso naufragio. È necessaria una Santa Alleanza che superi le divisioni partitiche e realizzi un fronte comune (principalmente in Parlamento, dove non dovrebbe essere complicato bloccare i lavori affossando sistematicamente le iniziative della maggioranza) per ribaltare la logica del “divide et impera” che ha caratterizzato l’azione di tutti i governi post-unitari.
O la classe politica riuscirà ad incanalare su binari istituzionali il magma che si agita nella pancia della società, o verrà travolta dagli eventi.