Volevo morire in Piazza Grande

A guardare le piazze del mio paese, anche Lucio Dalla si sarebbe ricreduto e avrebbe riformulato il desiderio di morire nella sua adorata Piazza Grande, “tra i gatti che non han padrone come me”. In tempi di politically correct anche il bruttume ha diritto di cittadinanza, non fosse altro che per segnalare alle giovani generazioni le cose da non fare per salvaguardare un minimo di armonia e bellezza nello spazio che ci circonda. Non può esserci altra argomentazione valida per giustificare lo scempio architettonico – e non solo – delle piazze di Sant’Eufemia.
I luoghi dell’incontro e della memoria, per dirla con le parole della traccia di un tema di maturità di alcuni anni fa, stanno diventando aree poco fruibili, fatta esclusione per piazza Matteotti, che però presenta una serie di altre gravi problematiche.
Alcune non hanno neanche un nome, segno di inequivocabile povertà culturale: possibile che dal secondo dopoguerra non ci sia stato un eufemiese degno di essere ricordato nella toponomastica cittadina? La piazzetta in via maggiore Cutrì appartiene a questa categoria: quella – per intenderci – senza ringhiera, senza un cespuglio, un albero o un fiore, con panchine simili ai tavoli di un obitorio e con una ghigliottina limacciosa al posto della fontana. Così come quella in via De Nava, che come altre ha una spiccata polifunzionalità, tanto da fungere indifferentemente da piazza e da parcheggio.
Piazza Azzolina ne è l’esempio più eclatante, ma è addirittura preferibile nelle condizioni attuali rispetto all’iniziale piramide (o “supposta”) al centro della piazza e alla sudiceria della fontana che era diventata un cassonetto della spazzatura. Un altro bel parcheggio è stato ricavato nel largo Giovanni Paolo II, inaugurato in fretta e furia per ragioni politiche alla vigilia delle passate elezioni comunali. In barba, evidentemente, al ben noto motto “scherza con i fanti ma lascia stare i santi”. E definiamo scherzo tutta l’operazione politico-mediatica sorta intorno a quella inaugurazione per carità di patria. Paradossalmente, se ora quell’area fosse davvero utilizzata come parcheggio risolverebbe i problemi di congestione del traffico che nell’area attorno a piazza Matteotti fanno imprecare gli automobilisti costretti a incolonnarsi dietro le macchine di coloro che per entrare nelle attività commerciali di via Vittorio Veneto sostano impunemente dove non si dovrebbe.
Già, piazza Matteotti. La piazza dei ventinove lampioni che incredibilmente non assicurano una completa illuminazione; delle poche e scomodissime panchine (piangiamo quelle di prima, che erano sistemate in modo da consentire la conversazione a gruppi di una decina di persone); dell’inutile chiosco; delle pendenze che raccolgono al centro la pioggia creando una suggestiva piscina; della leggendaria palla, assurta a metafora di un’intera amministrazione comunale.
A breve dovrebbero iniziare i lavori di riqualificazione di piazza don Minzoni: incrociamo le dita.

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C’erano una volta i partiti

Quasi quasi viene da rimpiangere la partitocrazia della tanto vituperata Prima Repubblica. Almeno era chiaro chi stava con chi, chi era un compagno di viaggio, quali erano gli avversari.
Oggi è una melma gelatinosa, per non utilizzare il linguaggio “pulp, molto pulp, pure troppo” di Thomas Prostata, alias Bebo Storti, che rimanda alla più citata pillola di saggezza dispensata da Rino Formica: “la politica è sangue e merda”.
Questa estate abbiamo assistito all’implosione di un partito (parolona) – il PDL – crollato sotto i colpi che i due cofondatori (Berlusconi e Fini) si sono scambiati senza risparmio, in un clima di resa dei conti simil basso impero. La sinistra si è così ritrovata a “fare il tifo” per Fini, segno inequivocabile della propria inconsistenza e dell’incapacità di avanzare una proposta politica endogena, indipendente cioè dall’unica ragione (esterna) che tiene insieme i tanti cacicchi (copyright: Massimo D’Alema), mezzi bianchi e mezzi rossi: l’antiberlusconismo – di facciata tra l’altro, visto che quando ci fu la possibilità di sanare la più grave anomalia del sistema politico italiano (il conflitto d’interessi del premier) fu la sinistra al governo a rivelarsi assolutamente inadeguata.
Trovo molto triste e avvilente lo spettacolo allestito da personaggi impudenti che hanno anche l’ardire di dichiarare enfaticamente di avere a cuore “l’interesse del Paese”. Personalmente, non mi sento rappresentato da politici che (a destra, a sinistra, al centro) non sono in grado di fare ciò per cui i cittadini votano e pagano. Chi ha vinto deve governare, chi ha perso deve esercitare l’altrettanto importante funzione di controllo. Tutti gli altri tentativi di sovvertire il responso delle urne sono mascalzonate. In questo, per la prima volta nella mia vita, mi trovo d’accordo con Berlusconi. Se cade il governo, occorre andare al voto. La sinistra, questa sinistra evanescente, è terrorizzata dall’idea di tornare alle urne perché rischia seriamente di scomparire. Ecco perché rispolvera un malinteso senso delle istituzioni per tentare un giochino vecchio quanto il cucco: un accordo che le consenta, principalmente, di guadagnare altri tre anni, indispensabili (e forse neanche sufficienti) per organizzare una reazione che assomigli almeno ad un flebile respiro.
Il problema è che Berlusconi è capace di vincere da solo eventuali elezioni, tanta è l’impalpabilità dell’avversario. E ciò costituisce davvero una seria preoccupazione. Altro che leggi ad personam: ci ritroveremmo con un Parlamento quasi completamente piegato al volere di un capo del governo dotato di un potere vastissimo.
Riassumendo: da un lato abbiamo un partito sempre più personale e aziendale, con le ultime voci fuori dal coro messe alla porta; dall’altra una specie di ectoplasma sopravvissuto malamente al velleitarismo veltroniano della “vocazione maggioritaria” e comunque incapace di coagulare energie e personalità forti attorno ad una proposta seria e credibile. L’Unione di Prodi è stata sbranata dagli alleati. Non si capisce perché dovrebbe avere sorte diversa una riedizione riveduta e corretta (Montezemolo? Casini? Allegria, popolo della sinistra). E poi, si sa: la prima volta è tragedia, la seconda farsa.

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L’uomo e la regina

La passione per il teatro, così come quella altrettanto intensa per i classici greci, traspare un po’ ovunque tra le pagine del bel romanzo di Aldo Coloprisco, L’uomo e la regina (Laruffa editore, Reggio Calabria 2009). L’incipit stesso, con il protagonista che si guarda allo specchio e si sistema il cappello con cura, rimanda alle indicazioni per la messa in scena di un’opera teatrale. C’è un’attenzione per i dettagli nella descrizione sia dei posti che dei comportamenti dei personaggi che ci riporta all’attività di regista e di autore teatrale di Coloprisco: “il bastone di legno leggero dal manico d’osso” del protagonista; la donna che ha “il mento appoggiato sul manico della scopa” mentre conversa; la preparazione meticolosa del caffè, la descrizione minuziosa della bottega del “restauratore”, o quella della cappella privata, nella scena che introduce, in pagine di grande lirismo, il toccante ricordo delle dolci carezze all’anziano padre e della morte della madre.
Credo quindi che il romanzo debba molto all’amore del suo autore per il teatro, inteso secondo il celebre aforisma di Eduardo De Filippo: “lo sforzo disperato che compie l’uomo nel tentativo di dare alla vita un qualsiasi significato è teatro”.
Questa cura per i particolari a volte sembra avere anche altre ascendenze. Mi riferisco alla descrizione della stanza e degli oggetti che circondano il protagonista nel passaggio in cui ricorda le veglie notturne, nell’attesa del ritorno a casa dei figli. Si possono infatti rilevare delle assonanze con “le buone cose di pessimo gusto” di Guido Gozzano nella poesia L’amica di nonna Speranza, oppure – operando un collegamento al di fuori della letteratura – con la canzone Vite, di Francesco Guccini, nella quale il cantautore si pone le stesse domande del protagonista del romanzo sul destino degli oggetti e delle persone che, nel fluire del tempo, li hanno di volta in volta posseduti e utilizzati.
La vicenda si consuma nell’arco di una giornata, nel corso della quale il protagonista rivive tutta la propria vita, come nel nastro di un film riavvolto, ma incontra anche tutta una serie di personaggi che danno un senso alla sua intera esistenza nelle ore che precedono il suo distacco dalle cose terrene. La complessità delle tematiche affrontate non impedisce all’autore di riuscire a farsi leggere sovente col sorriso sulle labbra. Il romanzo è infatti pervaso da un’ironia ora sottile ora corrosiva, ma in nessun caso triviale. Penso ad alcune riflessioni sulle giovani donne che sposano uomini molto più maturi, sugli intellettuali che polemizzano sui massimi sistemi e sul sesso degli angeli; o all’incontro con il “restauratore”, un personaggio che sembra uscito dalla fortunata tradizione letteraria romanesca che va da Gioacchino Belli a Trilussa.
Lo svolgimento dell’intreccio avviene su più piani, sia temporali che spaziali, grazie al sapiente ricorso al flash-back come artificio narrativo efficace per tenere insieme una trama ricca di storie e di personaggi. Tra le pieghe dei ricordi si intravedono persone e luoghi che fanno senza dubbio parte dell’album autobiografico dell’autore.
Il presente – in una città caotica e dai ritmi forsennati – rivela tutte le rughe fisiche e interiori che comporta l’incedere della vecchiaia e si contrappone ad un passato quasi onirico nel quale situazioni e personaggi affollano la mente del protagonista come fantasmi che appaiono all’improvviso, in una Calabria che è “terra selvaggia ma bellissima”, soggiogata dalla violenza che governa la natura e la società. Una terra in cui è ancora possibile assistere al delitto d’onore di un giovane per mano dei suoi “tre più cari amici”, sulla scorta di accuse probabilmente false. In pagine che riecheggiano il migliore Corrado Alvaro, viene descritta la morte di massaro Rocco, “travolto con le sue pecore dalla furia di fango e di pietre”. Altrove, il barbaro assassinio di Antonio – un giovane che si era ribellato ai soprusi e al malaffare e che aveva osato candidarsi a sindaco in un paese di “quattro case e un forno” – si pone invece nel solco tracciato da un altro calabrese d’esportazione, il carfizzoto Carmine Abate. Il paesino di Calabria è soprattutto il luogo dell’infanzia e della giovinezza, rappresentato da un ciliegio fiorito che rimanda ad uno dei più bei libri di Enzo Biagi, L’albero dai fiori bianchi, anch’esso venato da una forte nostalgia per i luoghi e i volti della gioventù. Volti, in alcuni casi, mai rivisti nel corso degli anni. Storie consumate nell’arco di un pomeriggio, come l’amore per Elisa, della quale il protagonista non sa più nulla, ma il cui ricordo continua a provocare un’emozione intensissima. “È stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati”, canta d’altronde Fabrizio De Andrè nella canzone Giugno ’73. Un microcosmo destinato forse a scomparire (“il paese muore – ammonisce l’autore – senza che nessuno faccia niente per salvarlo”), agonizzante a causa dell’emorragia costante di giovani che emigrano alla ricerca di lavoro, che si contrappone alla Capitale, “una camera a gas” popolata da esseri inscatolati in trabiccoli metallici, alienati e frenetici nel loro andare senza meta e con un bisogno pressante di stare in mezzo alla folla per sentirsi vivi, anche soltanto per sproloquiare su qualsiasi argomento (tempo, governo, calcio, salute). Nel caos quotidiano, anche un’azione apparentemente insignificante come quella di lasciare a casa volontariamente il telefonino può costituire un gesto di grande libertà, un volersi riappropriare della propria esistenza di fronte alle invasioni che la nostra privacy di continuo subisce. Coloprisco non rinuncia ad aprire una finestra sull’attualità, lasciandosi andare a considerazioni mai banali sulla libertà, la democrazia, il potere della televisione e la condizione dell’uomo nella società dei consumi. Mai come in questo momento, di fronte ai tentativi di omologazione cui siamo quotidianamente sottoposti, allo squallore intellettuale di chi vuole farci credere che questo è il migliore dei mondi possibili e che è sovversivo chiunque non lo riconosca, servono voci limpide e terse che denuncino l’inganno. Altrimenti diventa impossibile accorgersi di un’umanità dolente, che può assumere le sembianze di una donna “tradita e delusa” che improvvisamente si dedica soltanto alle faccende domestiche, rinunciando ad avere qualsiasi altro ruolo nella famiglia e nella società; di un disoccupato che “non sa dove sbattere la testa”; di un ragazzo che pensa di superare i propri problemi esistenziali togliendosi la vita; di un barbone che mendica qualche spicciolo; di una prostituta che per necessità o per costrizione vende il proprio corpo. Coloprisco ci presenta questa umanità con delicatezza, con quella “com-passione” che, come ci spiega l’etimologia, rende partecipi della sofferenza altrui ed esalta la pietas che sta alla base dell’amore e del rispetto per il prossimo. L’incontro con Marisa, che si definisce “un trenino rotto” e che convive con il dolore atroce causato dalla morte del figlio per overdose, non è soltanto la denuncia contro uno dei mali più subdoli della nostra società, ma offre anche all’autore lo spunto per affrontare una questione sulla quale più volte ritorna: il rapporto problematico con la religione. La posizione intellettualmente più saggia non può che essere rappresentata dall’agnosticismo, che non va confuso – come spesso accade – con l’ateismo. L’ateo nega l’esistenza di Dio, l’agnostico non si pronuncia, in quanto non può dare una risposta razionalmente sicura, per cui lascia aperto il campo a qualsiasi ipotesi. C’è però un bisogno di fede e di certezze difficile da nascondere, una ricerca ossessiva che forse, come sosteneva Sant’Agostino, è essa stessa fede. Strettamente legato a questo è poi il tema della morte, colei che finalmente darà le risposte alle infinite domande che ognuno si pone e che Coloprisco propone in pagine altamente introspettive.
L’inseguimento tra il protagonista e la “regina” si conclude con l’incontro finale. Questa donna che appare e scompare, rinviando di fatto l’appuntamento dell’uomo con la morte ricorda, per certi versi, il celebre film di Ingmar Bergman, Il settimo sigillo, nel quale il cavaliere e la morte giocano una partita a scacchi dall’esito scontato mentre attraversano i mali della società. Anche Coloprisco ci fa vedere le piaghe del mondo, prima fra tutte la guerra, contro la quale scaglia un anatema vigoroso (“maledetti gli uomini che vogliono la guerra, bestie più delle bestie”) e contemporaneamente ci fa commuovere con la “favola della stella” che una nonna racconta al proprio nipotino. Per altri versi, credo sia invece possibile azzardare un paragone con la produzione teatrale (ma non solo) di Samuel Beckett. Anche gli eroi beckettiani – ad esempio i protagonisti di L’ultimo nastro di Krapp; Finale di partita; Aspettando Godot – sono generalmente colti nel momento che precede la fine, una fine che inconsciamente cercano. Come il protagonista de L’uomo e la regina, sono personaggi un po’ avanti negli anni che si raccontano e ci raccontano delle storie nel tentativo di prolungare così la loro agonia perché sentono “l’obbligo di esprimere in un mondo in cui non c’è niente da esprimere”, rinviando così il raggiungimento di quella fine che pure desiderano perché “non c’è più niente da rimpiangere, non ci sono anni da rivolere indietro”.
Il protagonista del romanzo di Coloprisco va incontro al suo destino, come gli eroi delle tragedie greche, senza tentare di procrastinare un incontro che comunque avverrà, con un’ansia di affrontare l’ignoto paragonabile alla smania di Ulisse nel ventiseiesimo canto dell’Inferno di Dante. Nonostante l’epilogo tragico, l’autore riesce a consolarci con parole e immagini di speranza e di vita perché – come egli stesso ci ricorda – è vero che sono stolti gli uomini che vogliono conoscere il proprio destino, ma è anche vero che è saggio l’uomo che nel suo piccolo spende la vita per lasciare alle generazioni future un mondo migliore di quello ereditato dai suoi predecessori.

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L’untore

La caccia all’untore è da sempre uno sport molto popolare in Italia. Tanto quanto l’adulazione verso i potenti. Comportamenti molto diffusi che costituiscono due facce della stessa medaglia. In genere, è proprio colui che è platealmente adorato – specialmente se potente e temuto – ad essere altrettanto odiato una volta caduto in disgrazia. Pescare nella storia della nostra nazione esempi che avvalorino questa tesi è esercizio facilissimo. Piazzale Loreto – una scena da “macelleria messicana” (Ferruccio Parri) – non sarebbe altrimenti comprensibile. Il cadavere dell’uomo osannato fino al giorno prima, preso a calci, sputato, orinato.
Fatte le debite proporzioni, è ciò che accade nella vita quotidiana: a scuola, in ufficio, al comune, nel condominio, ovunque vi siano rapporti gerarchici, anche soltanto in senso lato. Vale a dire dappertutto.
Da circa un mese a questa parte, il giochino preferito degli Italiani è lo sputtanamento di Marcello Lippi. Mentirei se dicessi che il personaggio mi sta simpatico. Tutt’altro. Lo trovo arrogante, saccente, troppo pieno di sé e poco rispettoso del mondo che lo circonda. Senza contare che agli occhi di un interista, l’ex allenatore della nazionale sconta non soltanto il pessimo ricordo lasciato nella breve parentesi nerazzurra, ma soprattutto il peccato originale della sua juventitudine, l’essere stato, a vario titolo, compagno di merende di Moggi, Giraudo e Bettega. Ritengo inoltre pertinenti gran parte delle critiche sui limiti tecnici della nostra nazionale e sulle responsabilità del suo condottiero. Insomma, un po’ se l’è cercata.
Eppure ho l’impressione che si stia superando il segno. Una sensazione che è diventata certezza quando ho visto in tv uno spot di suonerie per telefonini che invitava a scaricare una canzone dall’eloquente titolo “Vergogna”. Inutile dire chi sia il personaggio che dovrebbe provare vergogna e i motivi. In quel momento ho pensato che aveva ragione Indro Montanelli nel sostenere che quando si accendono i roghi occorre mettersi sempre dalla parte della strega, anche a rischio di salire sul rogo con lei.
La redazione sportiva Rai ci ha massacrato per giorni con le “dieci” domande alle quali Lippi avrebbe dovuto rispondere, magari prima di confessare la propria irredimibile colpevolezza e la richiesta spontanea di essere confinato in un Gulag siberiano. Non ho notato nella Rai identico accanimento per questioni ben più importanti, per esempio le dieci domande (toh, non hanno neanche la dote dell’originalità) del quotidiano “La Repubblica” per Berlusconi dopo lo scandalo D’Addario, letteralmente censurate dal servizio pubblico nazionale.
È un segno dei tempi, di un certo giornalismo ormai diventato gara di ugole, come abbiamo potuto constatare per un anno intero con il fenomeno Mourinho, tanto per restare nel campo sportivo. Criticato perché irregolare, irriverente e anticonformista, ma già rimpianto perché personaggio straordinario, l’unico in grado di fare riempire pagine di giornali e trasmissioni intere con una sola battuta contro quel sistema che fa mangiare nello stesso tavolo giornalisti, allenatori, procuratori. Magari gli stessi che di fronte alle telecamere fanno la faccia feroce e se ne dicono di tutti i colori. Ognuno recitando il proprio copione.

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Quel vecchio tanfo di fascismo

Il grande giurista Piero Calamandrei amava ripetere che “la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”. Ma c’è di più: all’inizio uno neanche se ne accorge, perché continua a respirare lo stesso, pur con sempre maggiore difficoltà. Fino a quando non soffoca.
Stanno tentando di fare questo: asfissiarci poco alla volta, sopprimendo i diritti conquistati con anni di lotte, di esilio e di galera. Lo stanno facendo scientificamente. Un diritto in meno oggi, un altro ancora domani. Quando, finalmente, il popolo si sveglierà dal torpore in cui è sprofondato, si ritroverà con la catena al collo.
È un’esagerazione? Siamo i soliti comunisti catastrofisti? Non sono mai stato comunista. E comunque, non credo sia neanche questo ormai il problema, a meno che non si voglia considerare pure Gianfranco Fini (distante anni luce dalle mie convinzioni politiche) un pericoloso e sovversivo trinariciuto.
Il disegno di legge sulle intercettazioni, che il Parlamento si sta affrettando ad approvare con una lena inusuale (e sospetta), va esattamente in quella direzione. Tra i primi provvedimenti (1923) adottati dal fascismo prima ancora che diventasse regime, ci fu proprio la limitazione della libertà di stampa. Ora vogliono fare passare come dettato dalla necessità di difendere la privacy dei cittadini (un’esigenza sacrosanta) un ddl che in realtà punta a mettere il bavaglio all’informazione non allineata e scomoda, quella che – tanto per essere chiari – ha consentito di scoperchiare i tanti pentoloni dell’affarismo di cricche e consorterie varie.
Ancora: in pochi si sono accorti che, con la motivazione della lotta all’immigrazione clandestina, si stanno introducendo delle vere e proprie leggi razziali, come quella che prevedeva l’aggravante per i reati commessi dai clandestini e che la Consulta di recente ha cassato. Per chi l’avesse dimenticato, l’articolo 3 della Costituzione recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Strano che proprio il presidente della Repubblica, che dovrebbe essere il custode della nostra Carta fondamentale, se ne fosse scordato e avesse dato il via libera.
Quando le camicie nere furono alle porte di Roma, il presidente del consiglio Luigi Facta e il ministro dell’Interno Paolino Taddei sottoposero al re Vittorio Emanuele III il decreto di stato d’assedio approvato in piena notte dal consiglio dei ministri. Dapprima d’accordo, il re si rifiutò di firmare e le cose andarono come sappiamo. Ora, il presidente non è soltanto un notaio che firma qualsiasi foglio gli mettano davanti. Ha anche un potere rilevantissimo, quello di rinviare alle Camere le leggi in cui ravvisa profili di incostituzionalità. Lo eserciti.
E l’uso vergognoso e strumentale delle cariche pubbliche? Quale altra finalità potrebbe avere la nomina di Aldo Brancher a ministro (non si sa bene neanche di cosa, visto che Bossi si è infuriato quando ha sentito di un ministero per il federalismo, che è roba sua) se non quella di eludere – grazie al legittimo impedimento – il filone collaterale del processo sulla scalata all’Antonveneta che lo vede coinvolto? Difatti, un quarto d’ora dopo l’accettazione dell’incarico si era subito avvalso di questa facoltà (che sarebbe più corretto definire artificio) per evitare il processo. D’altronde, il maestro (guarda caso, suo capo sin dai tempi di Pubblitalia) l’ha avuto di prima scelta. Fortunatamente, in questo caso Napolitano ha mostrato segnali di resipiscenza: non c’è niente da organizzare in un ministero senza portafoglio. Resta comunque il disinvolto, strumentale e inverecondo uso delle cariche pubbliche per fini personali, la strafottenza e l’arroganza di chi si sente al di sopra della legge.
Da ultimo, l’accordo di Pomigliano, che la Fiat ha potuto imporre anche in virtù del sostegno governativo. Certo, come si fa a dire a più di 5.000 operai con famiglie da mantenere che quell’accordo non andava firmato perché non si possono barattare i diritti dei lavoratori con il posto di lavoro? La libertà però è un bene indisponibile e ciò che è avvenuto nello stabilimento Fiat rappresenta un pericoloso campanello d’allarme.
Non sono per niente d’accordo sul fatto che – come si dice da più parti – occorra “abbassare i toni”. A furia di abbassare i toni, ci siamo abituati a sopportare qualsiasi porcata. Occorre invece alzare i toni, fare sentire la voce di chi considera la libertà il bene più prezioso.

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Il burattinaio di parole

Francesco Guccini è entrato a casa mia e nella mia vita ai tempi del liceo, saltando fuori dallo zaino di mio fratello – lui al terzo anno, io al secondo – “copiato” (preistoria, a ripensarci) in tre musicassette: Radici; L’isola non trovata; Quasi come Dumas.
Il 14 giugno l’eterno studente e burattinaio di parole (come si è autodefinito, rispettivamente in Addio e in Samantha) ha compiuto settanta anni e, come si conviene per un artista che ha segnato la storia della musica italiana, le rievocazioni da giorni occupano le pagine dei giornali.
Guccini è un cantautore coltissimo, paragonato da Umberto Eco a Walt Whitman, capace di rime e assonanze ricercatissime, di citazioni dotte e riferimenti letterari eruditi (dal profeta Isaia a Borges), ma anche di temi “bassi”, di sberleffo puro, come sa chiunque abbia ascoltato l’album Opera buffa o la canzone I fichi nel disco non a caso intitolato D’amore, di morte e di altre sciocchezze. Un anarchico “perso dietro le nuvole e la poesia”, attaccato alle proprie radici, ad un mondo in via di estinzione riproposto sotto forma di mito (l’infanzia, la saggezza dei montanari dell’Appennino). E poi i temi del tempo che passa e l’intimismo di certe situazioni raccontate come con una cinepresa, della rivolta e della lotta contro le ingiustizie, dei miti della sua gioventù (l’America, Hemingway, Bob Dylan, la Beat generation), dei vinti e dei “piccoli eroi delle occasioni perse”, del rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato (per dirlo con le parole di Gozzano, cui Guccini spesso rimanda).
Per me Guccini è un caldo giugno di tanti anni fa. È il profumo di una ragazza, due corpi sudati sotto un sole cocente alle tre del pomeriggio. Sono tanti viaggi, i finestrini della macchina abbassati e l’aria che entra scompigliando i capelli, Eskimo cantata a squarciagola, quando ancora il futuro era una mela acerba e non c’era tempo per farla maturare. È un concerto al Palapentimele, tutti seduti a terra, un rito inderogabile nei concerti di Guccini: una via di mezzo tra un’assemblea del sessantotto o i collettivi degli anni Settanta e una scampagnata fuori porta, con il più bravo della compagnia che tira fuori la chitarra e suona e canta per tutti. Sono di nuovo due corpi stretti stretti, mentre la scaletta delle canzoni scorre via, iniziando (Canzone per un’amica) e finendo (La locomotiva) con le stesse due canzoni da sempre.
E poi quel dialogare con il pubblico, la sua “r” che si arrota, l’esclamazione “non sono mica un juke-box” rivolta ad un gruppo di ragazzi che chiede insistentemente Incontro, i rimproveri a quelli che ogni tanto provano ad alzarsi da terra. Non si può. Bisogna attendere le ultime tre canzoni: quando attacca Dio è morto scattiamo tutti in piedi e non smettiamo di saltare e di urlare fino ai saluti finali. Dopo è soltanto nostalgia struggente e Farewell che ronza nella testa.

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La Santa Alleanza

Il rapporto Mezzogiorno-Governo centrale rischia di scivolare verso una china molto pericolosa, ma c’è una generale sottovalutazione di questa emergenza. Fino a quando, infatti, le popolazioni meridionali potranno sopportare di essere defraudate da un governo sfacciatamente sbilanciato sopra la linea Gustav?
Basta mettere in fila i provvedimenti adottati o comunque proposti per farsi un quadro del grado di attenzione riservato alle regioni meridionali e, in particolare, alla Calabria.
La vicenda dei fondi FAS (fondi per le aree sottosviluppate) è emblematica. Istituiti per sostenere lo sviluppo e l’occupazione al Sud, negli ultimi due anni sono stati platealmente saccheggiati (circa 31 miliardi di euro su un totale di quasi 54) dal governo con una logica da Robin Hood alla rovescia che ha consentito la redistribuzione alle regioni del Nord di fondi destinati a quelle meridionali.
Come se si trattasse di un bancomat, sono stati prelevati soldi per ripianare il debito pubblico, per l’emergenza rifiuti di Napoli, per la riqualificazione energetica degli immobili, per il taglio dell’Ici, per ripianare i buchi di bilancio dei comuni di Roma e Catania, per finanziare il Servizio sanitario nazionale, per mettere a posto i conti dell’Alitalia e delle Ferrovie dello Stato e per tanti altri provvedimenti (uno su tutti: la realizzazione, mai avvenuta, del G8 della Maddalena).
L’utilizzo improprio ha provocato la condanna della Corte dei Conti, che ha stigmatizzato l’andazzo di considerare i fondi FAS veri e propri “fondi di riserva” ai quali “si è fatto ricorso in modo massiccio” e in settori “non direttamente connessi con la missione concernente il riequilibrio territoriale”. Che tradotto vuol dire che soldi assegnati per risollevare l’economia del Sud sono stati invece utilizzati per coprire spese di diversa natura al Nord. Per essere più chiari: lodevole quanto si vuole (ci mancherebbe altro) l’iniziativa di alleviare con la cassa integrazione le pene degli operai rimasti senza lavoro, ma i soldi prelevati dai fondi FAS per finanziare l’operazione andavano destinati ad altri interventi, al Sud (mentre gli operai beneficiati risiedono prevalentemente al Nord).
Per non parlare degli imprenditori senza scrupolo scesi dal Nord – secondo la denuncia della senatrice UDC Dorina Bianchi – per fare della Calabria “terra di conquista”, approfittando dei finanziamenti della legge 488 e del Contratto d’area che hanno consentito loro di aprire le aziende “giusto il tempo necessario per avvalersi degli incentivi. Poi hanno chiuso le imprese, lasciando a spasso i lavoratori e tornandosene al Nord”.
E che dire della proposta, contenuta nella bozza originaria della manovra correttiva, poi scartata (ma ora riapparsa in un emendamento al disegno di legge sulla Carta delle autonomie all’esame della commissione Affari costituzionali della Camera), di sopprimere le province con popolazione inferiore a 220.000 abitanti? È un esempio classico di come un progetto in linea di principio condivisibile – l’abolizione degli enti provinciali per tagliare un po’ di spese inutili, anche se, personalmente, preferirei tornare all’impianto originario del nostro Stato, abolendo le Regioni e conservando le province – diventi indigesto per la Calabria, visto che la scure governativa avrebbe risparmiato le province delle Regioni a statuto speciale e quelle direttamente confinanti con Stati esteri. Facevano prima a scrivere “si aboliscono le province di Vibo e Crotone”.
Non è antimeridionalista un provvedimento che, pur necessario, diventa punitivo soltanto per una parte d’Italia?
E la proposta di introdurre il pagamento del pedaggio sull’A3 Salerno-Reggio Calabria e sul raccordo reggino tra A3 e statale 106? O è uno scherzo, per cui chi l’ha proposto è inadeguato a governare, o è una vera e propria dichiarazione di guerra contro la Calabria. Vogliamo almeno sperare che il provvedimento riguardi qualche tratto già concluso e non il rischiosissimo budello-mulattiera che quotidianamente molti lavoratori sono costretti a percorrere facendosi il segno della croce prima di mettersi in viaggio.
Il ceto dirigente meridionale è chiamato ad un atto di grande responsabilità, pena il suo rovinoso naufragio. È necessaria una Santa Alleanza che superi le divisioni partitiche e realizzi un fronte comune (principalmente in Parlamento, dove non dovrebbe essere complicato bloccare i lavori affossando sistematicamente le iniziative della maggioranza) per ribaltare la logica del “divide et impera” che ha caratterizzato l’azione di tutti i governi post-unitari.
O la classe politica riuscirà ad incanalare su binari istituzionali il magma che si agita nella pancia della società, o verrà travolta dagli eventi.

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Il colore della felicità

Il tifoso non è scaramantico. Semplicemente, “sa” che non bisogna turbare l’ordine naturale dell’Universo. Se lascia la macchina parcheggiata sempre nello stesso posto quando va a vedere la partita a casa dell’amico (e c’è un motivo se la guardano sempre assieme, con la stessa disposizione sul divano e il solito caffè tra primo e secondo tempo) e la volta che non lo fa la squadra perde, beh, vuol dire che ha provocato un’alterazione nel normale divenire della Storia. È così naturale come ragionamento!
Per chi tifa Inter la coppa dalle grandi orecchie era soltanto un ricordo sempre più sbiadito, qualche fotogramma traballante, la foto di un Mazzola giovanissimo e la cantilena che tutti coloro che sono stati iniziati alla fede nerazzurra conoscono: Sarti, Burnich, Facchetti… L’epopea di “seconda mano” della Grande Inter, tramandata da genitori che hanno avuto la fortuna di esserci in quelle stagioni memorabili.
Per noi, figli di un dio minore, invece, la fedeltà alla bandiera sembrava un esercizio di autolesionismo, delusione dopo delusione, quasi una nemesi storica. In campionato, a parte la cavalcata trionfale dell’Inter dei record del Trap, solo amarezze fino a cinque anni fa.
Ci canzonavano col coro “non vincete mai”, irridendo le campagne acquisti sontuose di Moratti che non portavano a nulla, soltanto giocatori di cui neanche ricordiamo il volto (l’elenco sarebbe infinito: Gilberto, Caio, Rambert, Vampeta, Fadiga… e continuate voi…). Poi abbiamo scoperto il motivo per cui eravamo predestinati alla sconfitta.
In campo internazionale, un disastro. Lacrime su lacrime. Come quelle, vere, che sento ancora scendere caldissime sulle guance del bambino che fui, dopo due “remuntade” subite proprio al Bernabeu dal Real di Butragueno e Hugo Sanchez. La prima, 3-0 dopo il 2-0 per l’Inter a San Siro, nella notte della biglia a Bergomi. La seconda, un 3-1 ribaltato 5-1 ai supplementari, un’agonia vissuta attaccato alla radiolina.
Quando si raggiunge la vetta, non bisogna dimenticare da dove si è partiti, né la fatica che è costata. Ha fatto bene capitan Zanetti a ricordarlo, ora che l’Universo si è colorato di nerazzurro.

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L’aperitivo

Dopo due anni di invettive contro la sinistra catastrofista e porta sfiga, anche Silvio Berlusconi si è accorto che non è più sufficiente sfoggiare il sorriso d’ordinanza e spargere ottimismo davanti alle telecamere per nascondere la gravità della crisi economica.
Spalleggiato dal “creativo” Tremonti – al quale va dato atto di essere tra i più responsabili nell’esecutivo, se non altro perché riesce a respingere i pervicaci assalti alla diligenza dei suoi colleghi ministri – ci aveva assicurato che non ci sarebbe stata alcuna manovra finanziaria aggiuntiva. Beh, era una battuta da avanspettacolo.
Occorre trovare 28 miliardi. E farlo in fretta, prima che salti tutto.
Per questo motivo, Tremonti ha preparato e servito “l’aperitivo”: taglio del 10% degli stipendi dei top manager che percepiscono più di 100.000 euro l’anno e riduzione (da quantificare) degli stipendi di ministri e parlamentari. A queste misure andrebbe aggiunta la lotta all’evasione fiscale, ma annunciata dal governo artefice dello scudo fiscale sa davvero di gag comica. Quasi meglio di Tremonti-Guzzanti intento a recuperare soldi giocando alla slot-machine.
Il rischio che i tagli annunciati contro la casta rappresentino un’arma di distrazione di massa dalla notevole carica demagogica, in un periodo in cui ai cittadini viene chiesto di fare l’ennesimo buco alla cinghia, è purtroppo concreto. Tanto più che al momento l’accerchiamento di cui sembra soffrire il governo si fa di giorno in giorno più pesante.
Le vicende che hanno interessato negli ultimi mesi i vari Scajola, Verdini, Matteoli e Bertolaso fanno venire in mente la battuta di Giovanni Giolitti sui politici fascisti al governo: “Anche i miei mangiavano, però almeno sapevano stare a tavola”.
Il timore è che ancora dell’altro debba emergere e che la cricca non nasconda un’invenzione giornalistica di Sergio Rizzo, bensì un metodo scientifico di arricchimento personale attraverso la gestione del denaro pubblico. In una fase in cui le famiglie stanno progressivamente impoverendosi, gli “affari” realizzati da politici spregiudicati e immorali rischiano di creare una saldatura molto pericolosa tra crisi economica, crisi sociale e crisi del sistema politico, con effetti imprevedibili.
Anche Scopelliti, finita la campagna elettorale, appena insediatosi alla Regione ha dovuto cambiare registro: ci toccherà versare “lacrime e sangue”.
Il problema è che in realtà il sangue l’abbiamo finito già da un bel po’. E forse anche le lacrime.

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Cercasi becchino

Come quei personaggi delle fiabe che si svegliano dall’incantesimo, Guccione sembra essere uscito dal torpore invernale. Ha preso così coscienza di una verità sensazionale, l’ha messa per iscritto, sigillata, affrancata e fatta recapitare a Bersani: il PD in Calabria non è mai nato. In pratica, la confessione di una crisi d’identità in pieno svolgimento. Perché se il partito non esiste, il segretario regionale è un avatar.
Troppo approssimativa come spiegazione. Oltre che auto assolutoria. Il PD invece è nato, ma è stato immediatamente soffocato in fasce da troppe faide e giochi di potere (o di prestigio: il nuovissimo “gioco delle tre poltrone” inventato e a lungo esercitato da Bova, Loiero e Adamo). Da questo punto di vista, Pirillo ha ragione da vendere: “Non è affatto vero che il PD in Calabria non è mai nato. Semmai è vero il contrario e cioè che si sta tentando in tutti i modi di soffocarlo sotto il peso di personalismi, guerre intestine e, cosa ancora più grave, senza l’autorevolezza di qualsiasi guida politica”.
Sulla bocca di chi, subito dopo essere stato eletto al Parlamento europeo grazie al contributo decisivo di Loiero, ha preso le distanze dal proprio sponsor principale e ha cominciato ingenerosamente ad avversarlo in tutti i modi, parole di questo tono sono ovviamente poco attendibili. Il dato politico però è un altro. La richiesta di azzeramento e commissariamento dei vertici del partito non rispecchia più soltanto una posizione minoritaria (Gigliotti).
Franceschini, nel corso della convention nazionale di “Area democratica”, ha proposto di affidare il PD calabrese ad una “personalità di grande autorevolezza, capace di ricostruire investendo su nuove energie”. “Na chiacchiera”, direbbero a Roma. Perché un rinnovamento radicale è impossibile in un contesto in cui le “nuove energie” sono sempre emerse col metodo della cooptazione e con operazioni di maquillage eseguite dal gruppo dirigente col solo fine di conservare una rendita politica.
Lo scenario di “tutti contro tutti” autorizza a pensare che la lettera del segretario regionale sia una richiesta d’aiuto, un modo per dire a Roma: “per favore, intervenite voi altrimenti rischio di essere sbranato”. Ma Guccione non può pensare di farla franca scaricando sugli altri responsabilità che sono anche sue. Le primarie fasulle che hanno portato alla sua elezione sono state il frutto dell’accordo Bova-Loiero, non un evento accidentale.
Certo, i panni sporchi andrebbero lavati in casa. Se, come sostiene Caminiti, “si sceglie non di discutere e decidere in Calabria, ma a Roma, per poi magari tornare in Calabria solo a decisione presa, per farla digerire al partito-colonia, allora non c’è da stupirsi se tutto diventerà sempre più ingestibile e sempre più inaccettabile”.
Ecco perché serve un becchino. Occorre fare tabula rasa del passato, di politici autoreferenziali che hanno come obiettivo esclusivo la propria sopravvivenza. Se tutto si risolverà con la solita soluzione pasticciata, per cui ognuno conserverà il proprio strapuntino, vorrà dire che a nulla è valsa la sonora batosta delle regionali.

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