I miei Pink Floyd

Girovagando nel web, mi sono imbattuto in una votazione sugli album dei Pink Floyd, la band inglese composta in origine da Syd Barret (chitarra e voce), Roger Waters (basso e voce), Nick Mason (batteria) e Richard Wrigth (tastiera), ai quali quasi immediatamente si unì David Gilmour (chitarra e voce) per supportare e infine sostituire Barrett, annientato dai propri demoni e dall’LSD. Un passaggio fulmineo e sfavillante nella storia del rock psichedelico che in seguito ispirò ai Pink Floyd l’album Wish you were here – in particolare, la canzone Shine on you crazy diamond – e, in parte (essendo prevalente l’autobiografia di Waters), il personaggio Pink nel monumentale The wall, “concept album” diventato anche film (regia di Alan Parker, con Bob Geldof nel ruolo del protagonista).
Devo però mettere le mani avanti. Non sono un esperto di musica. Quello che so sui Pink Floyd l’ho appreso quasi passivamente e senza accorgermene, come aria che si respira. Merito di mio fratello Luis, “pinkfloydologo” d’eccezione: tutto quello che è stato scritto, tutti i dischi (poi cd), tutte le videocassette (poi dvd), persino due tatuaggi, uno tratto dalle immagini dell’album The wall, l’altro da The division bell. Un giubbotto di jeans, che credo ancora conservi, sul quale ai tempi del liceo fece ricamare la copertina di The wall. Ecco, lui può dibattere indifferentemente e con rara competenza degli inizi psichedelici e degli anni della maturità; conosce le biografie di ogni singolo componente; sa tutto sulla genesi di ogni canzone e album; di tutte è in grado di recitarne il testo, in inglese e in italiano. Sa indicare con esattezza l’ingresso della batteria di Mason in Atom hearth mother (9.09: “ascolta ora 50 secondi di perfezione”), quella batteria che nella canzone In the flesh? diventa una raffica. Sa tutto, ma proprio tutto, sugli assoli di Gilmour, sublimati nella straordinaria Comfortably numb. Può anche fare una lezione su una canzone strumentale mai incisa ed eseguita soltanto dal vivo (Reaction in G), che forse gli stessi Pink Floyd non ricordano. I suoi dischi sono cimeli, suonati soltanto una volta per essere copiati sulle musicassette (all’epoca non esistevano cd). Poi sono stati idealmente messi dietro una teca, con il divieto assoluto, per chiunque, di toccarli.
Io non so scegliere tra The dark side of the moon e The wall. E anche a costo di andare controcorrente, penso che The final cut (l’ultimo prima dell’uscita di Waters, 1983) sia un grandissimo album.
Per me la musica è soprattutto pelle d’oca. È l’emozione di Time, che cantavo con mio fratello sotto la doccia (lui le strofe di Gilmour; io quelle di Wright); oppure la pace di Marooned, pezzo strumentale che ascolto quando devo prendere una decisione importante o raggiungere il massimo della concentrazione (ai tempi dell’università, prima di un esame). È l’emozione del concerto a Cinecittà, il 20 settembre 1994, al quale non potevamo mancare. Soprattutto dopo che, ancora minorenni, ci eravamo persi quello di Venezia, nella tournée del 1989. Prendemmo il treno insieme al nostro amico Cosimo e arrivammo di primo mattino davanti ai cancelli, ancora chiusi. Non c’era nessuno. Mio fratello ci proibì di muoverci, perché “dovevamo” entrare per primi e arrivare sotto il palco. E così fu. Tredici ore di attesa per un’esperienza straordinaria, condensata dalla sua battuta al sacerdote-professore di religione del liceo: “ha presente uno che prega, prega e di colpo gli appare la Madonna? Ecco, quando sul palco è spuntato Gilmour, credo di avere provato una cosa del genere!”.

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Il cinguettio della rete

Quella appena conclusa è stata la prima crisi di governo seguita e commentata dal cittadino comune mentre si svolgeva, grazie a Twitter, il social network creato a San Francisco nel 2006, che oggi conta 100 milioni di utenti attivi in tutto il pianeta e un traffico giornaliero di circa un miliardo di messaggi.
Il mio primo cinguettio (tweet) risale al 25 febbraio scorso, ma soltanto da poco ho iniziato ad apprezzare le potenzialità di questo strumento di comunicazione rapido ed efficace. Per parecchi mesi l’ho utilizzato raramente e male. Un atteggiamento diffidente dovuto all’esperienza negativa avuta con Facebook due anni fa, quando avevo aperto un profilo che chiusi dopo neanche un mese perché – motivazione allegata alla richiesta di cancellazione – “pensavo fosse un luogo dove ci si incontra e si discute, invece mi sembra un posto frequentato da guardoni ed esibizionisti”. Le vite degli altri attraverso il buco della serratura e l’ostentazione delle proprie “imprese”, con un’invadenza a volte insopportabile, basata sulla distorsione semantica del concetto di amicizia. Su Faceboook si diventa “amico” di qualcuno, termine abusatissimo e quanto mai inflazionato. Su Twitter si è invece “seguace” (follower), vocabolo più appropriato per mantenere la corretta distanza tra persone che non si conoscono, ma si “seguono” perché uno trova interessante ciò che l’altro dice. Un tweet “retweettato” da un centinaio di utenti sintetizza con ironia la differenza tra i due social network: “Twitter ti fa amare persone che non hai mai conosciuto. Facebook ti fa odiare persone che conosci da tanto tempo”.
Secondo la definizione ufficiale, Twitter è un servizio di microblogging che consente di postare messaggi non superiori a 140 caratteri – contenenti anche immagini e video – per mettere a disposizione degli utenti “notizie complete, chiare e soprattutto brevi” (Marco Castelnuovo, La Stampa). Una rivoluzione nel modo di fare informazione manifestatasi già durante le crisi che hanno interessato i Paesi del Nord Africa, con gli aggiornamenti sugli scontri e le violenze “in presa diretta”, grazie ai tweet inviati con il telefonino da rivoltosi e giornalisti freelance. Per introdurre una tematica d’interesse o partecipare a qualsiasi discussione si usano gli hashtags, parole precedute dal simbolo “cancelletto”. Nei giorni scorsi, #rimontiamo, ideato da Stefano Bartezzaghi anagrammando “Mario Monti”, è stato tra i TT (trending topics) inseriti da politici, giornalisti – i più interessati al fenomeno Twitter – e appassionati del web nei rispettivi commenti sull’evoluzione della crisi politica italiana; #OWS è invece da due mesi la parola-chiave per essere aggiornati sulla protesta che vede impegnato il movimento degli indignati Occupy Wall Street a Manhattan.
In Italia, il numero degli utenti è aumentato esponenzialmente dopo l’arrivo di personaggi del mondo dello spettacolo, su tutti Fiorello che si diverte a fare di Twitter una specie di “sala prove” per i suoi numeri. Tra i politici conquistati di recente dal cinguettio della rete, anche i leader di partito Bersani, Casini, Vendola, Di Pietro: #opencamera l’hashtag utilizzato da molti parlamentari e giornalisti per comunicare all’esterno, in diretta, ciò che accade durante le sedute parlamentari. Le notizie ormai passano prima da Twitter. Ma l’aspetto più intrigante è dato dalla possibilità di riuscire ad interloquire con i protagonisti della vita politica e culturale, ad esempio “guardando insieme” e commentando qualsiasi programma televisivo: cancelletto prima del titolo (#piazzapulita; #serviziopubblico; #portaaporta, e così via) e il gioco è fatto.

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L’italiano, questo sconosciuto

Non penso che essere ignorante sia una colpa. Semmai, è colpa della società se esiste l’ignoranza. Doverosa precisazione: con il termine ignorante non si intende una persona poco intelligente, secondo un’accezione offensiva ma largamente diffusa, bensì “colui che ignora”, cioè “che non sa”, per i più svariati motivi. Eppure è inevitabile un moto di irritazione alla lettura di alcune bestemmie ortografiche e sintattiche. Mi rendo conto che, a volte, è la fretta che genera questi mostri. Per esempio, quando si scrive un sms. In questi casi, l’indulgenza è scontata. Come nei confronti di chi ha passato troppo poco tempo a scuola e non ostenta certificati di laurea incorniciati in legno pregiato. Per gli altri, però, non c’è giustificazione che tenga.
La galleria degli orrori inizia da è, c’è, ce n’è e ce ne sono. Un metodo infallibile per non cadere in errore, appreso alle elementari, consiste nel trasformare il tempo del verbo da presente a imperfetto. Se la frase continua ad avere un senso, ci vogliono accento e apostrofo. Accorgimento valido anche per a con (verbo avere) o senza h (preposizione semplice). Altra lezione senza tempo, uno/una seguiti da aggettivi o nomi che iniziano per vocale. Se il genere è femminile (un’altra, un’anatra), ci vuole l’apostrofo; altrimenti, no (un altro, un uomo). Fa, va e sta non vanno accentati (fa caldo, va bene, sta in cantina), trattandosi di presente indicativo. Nella forma imperativa, invece, subiscono l’elisione, per cui richiedono l’apostrofo: fa’ presto, va’ dove ti porta il cuore, sta’ attento. Un po’ e be’ sono le forme tronche di poco e bene. Un si fa prima a scriverlo, ma fa anche venire l’orticaria. , prendendo in prestito l’ironia di Beppe Severgnini, “è un belato” (L’italiano. Lezioni semiserie). Qual è non vuole l’apostrofo: è un troncamento (o apocope vocalica), non un’elisione. , , perché, affinché vogliono l’accento acuto; è, cioè, caffè quello grave. Per non rischiare di diventare insopportabile, non prendo in considerazione le coltellate inferte alla consecutio temporum, né il condizionale utilizzato in luogo del congiuntivo, che provoca lo stesso effetto di un’unghiata sulla lavagna. Dico solo che una riforma universitaria seria, a questo punto, dovrebbe prevedere un esame finale molto semplice: il dettato. Ci sarebbe da ridere. O da piangere.
Due raccomandazioni finali. La prima: nell’esposizione di un pensiero, è fondamentale riuscire a farsi comprendere. L’ansia di dire tutto in un unico periodo può giocare brutti scherzi. Da evitare, pertanto, frasi chilometriche infarcite di subordinate. Maratone in grado di fare alzare bandiera bianca anche ai podisti più resistenti. La seconda: la punteggiatura non è un orpello superfluo. Punto, virgola, due punti, punto e virgola, trattini, parentesi sono il respiro stesso della pagina, gli strumenti che danno il ritmo alle parole. A patto di non esagerare, come accade di frequente con il punto esclamativo e con i puntini sospensivi, una tendenza dovuta all’irruzione del linguaggio non verbale nei nuovi sistemi di comunicazione. Non a caso, proprio i segni di interpunzione sostituiscono le “faccine” (emoticon) utilizzate nelle chat o negli sms.

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Comunque vada, dovrebbe essere un successo

Questione di ore e ci dovremmo avviare ad un esecutivo guidato da Mario Monti. C’è una gran voglia di archiviare al più presto la stagione berlusconiana, diciassette anni vissuti in apnea, rincorrendo annunci sempre più mirabolanti, una “rivoluzione liberale” promessa e mai realizzata, il rimpianto e la delusione di tanti per ciò che poteva essere e non è stato, come in una famosa poesia di Gozzano.
Non mancano però i colpi di coda. Il Pdl è lacerato, Alfano non sembra in grado di produrre una sintesi che tenga insieme chi non vuole sentir parlare di governo Monti (Brunetta, Rotondi, Matteoli, Sacconi) e chi invece è più possibilista e, anzi, lo considera un passaggio ineludibile in questa fase (Frattini, Scajola, Alemanno, Formigoni, Lupi). L’appoggio esterno può rappresentare un compromesso accettabile? Forse no. Perché a quel punto bisognerebbe valutare la reazione di Terzo polo e Pd, che non avrebbero alcun interesse ad intestarsi provvedimenti di lacrime e sangue, con il Pdl e la Lega a martellare l’opinione pubblica in un’infinita campagna elettorale. Maroni è stato chiaro: da lunedì la Lega è all’opposizione e oggi finisce il ciclo politico iniziato nel 1994, con l’alleanza tra Bossi e Berlusconi. È un “tutti liberi” e non si capisce quale potrebbe essere l’approdo. Proprio il timore di perdere il fedele alleato e di vedersi sbriciolare tra le mani il partito trattengono Berlusconi dallo sposare apertamente la soluzione Monti, altrimenti vissuta come una vera e propria liberazione. Per molti, all’interno del Pdl, la rottura con la Lega è un prezzo troppo alto, soprattutto fino a quando Casini insisterà nel suo terzismo.
Tutto sembra quindi condurre a Monti, da ultimo anche la correzione di tiro di Di Pietro, inizialmente per le elezioni anticipate. Comunità internazionale e mercati si sono già espressi in maniera favorevole, dimostrando un protagonismo al limite dell’ingerenza negli affari di uno Stato sovrano. D’altronde, sono stati Fmi e Bce a decretare la fine dei governi di Grecia e Italia, circostanza sulla quale comunque si dovrà riflettere per capire quale sarà il destino delle democrazie nei prossimi anni.
Monti o non Monti, se il prossimo governo non vuole fallire la propria missione, deve prendere pochi ma significativi provvedimenti, dei quali peraltro si parla da tempo immemorabile. Senza esempio e credibilità, nessuno avrà mai l’autorevolezza necessaria per potere imporre sacrifici. Ecco perché tra i primi provvedimenti, da prendere ora, non da promettere per il prossimo decennio, occorre inserire l’abbattimento dei costi della politica (riduzione del numero dei parlamentari, pesante decurtazione dello stipendio, abolizione di vitalizi, privilegi e benefits) e una robusta patrimoniale. Seguiti da una legge sul conflitto d’interessi affinché “non accada mai più” e da una riforma della legge elettorale che restituisca al cittadino il potere di scegliersi i rappresentanti in Parlamento. Un cronoprogramma da realizzare nel più breve tempo possibile e poi andare al voto. Ma questa classe politica sarà capace di uno scatto di dignità?

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E meno male che non è successo niente

Ha dovuto arrendersi all’evidenza. Non ce n’era più uno favorevole alla “bella morte” in un’ordalia parlamentare di prodiana memoria. Si è fermato un attimo prima. Merito, forse, dell’invito di Bossi a fare un passo “di lato”, giunto dopo che già il ministro dell’Interno Maroni aveva dichiarato che l’accanimento terapeutico non aveva senso. Verrebbe proprio da dire sic transit gloria mundi, pensando a quanto i destini e la fortuna della Lega siano dipesi dal rapporto preferenziale avuto con Berlusconi.
L’immagine del premier in Aula, impegnato a controllare i tabulati della votazione per accertarsi sull’identità dei “traditori” è una nemesi crudele per il presidente del consiglio insediatosi con la più ampia maggioranza della storia repubblicana. Sino alla fine, nonostante l’atmosfera da fine impero, è stata però una gara a chi era più convincente e surreale nel minimizzare. Bastava ascoltare il giornalista di Libero Filippo Facci, tanto per fare un esempio utile anche per deprecare la latitanza della Rai, nel momento più delicato per il governo, e l’ottimo servizio pubblico reso invece da una televisione privata (La7), con la lunghissima no-stop pomeridiana: “non è successo nulla”. Cos’altro doveva accadere, se hanno votato 308 deputati su 630 (309 se si prende per buona la giustificazione di Gianni Malgieri: “ero in bagno”)? Il Rendiconto generale dello Stato è stato approvato grazie all’astensione dell’opposizione. In altre parole, la maggioranza non esiste. E Maurizio Paniz aveva ancora la forza di argomentare che “non è detto che quelli che si sono astenuti oggi siano contrari al governo. Occorre fare prevalere la legge dei numeri. Da qui a dire che si è conclusa una storia politica ce ne corre”. Mentre Antonio Martino cercava di metterla sul decoro: “Berlusconi merita una fine più gloriosa. Dovrebbe cercare la fiducia in Parlamento sulla lettera della BCE e, se il Parlamento vota contro, vuol dire che in questo Parlamento non c’è nulla”. Un giochino, o un ricatto.
Sul piano strettamente procedurale, il premier non è tenuto a dimettersi, in assenza di un voto di sfiducia. Ma i consigli degli alleati e lo spread Btp/Bond schizzato a quasi 500 punti non hanno certamente confortato i propositi di resistenza ad oltranza. Cosicché, poco dopo le 18.30, c’è stata la tanta invocata salita al Colle e la promessa di rassegnare le dimissioni subito dopo l’approvazione della Legge di Stabilità. Un modo per concedersi un finale di partita dignitoso, prima di passare il pallino a Napolitano.
A quel punto inizierà un’altra partita, nonostante la contrarietà del leader del Pdl ad ogni ipotesi contraria alle elezioni anticipate. I giochi di Palazzo sono iniziati. Con il fronte anti-voto, interno allo stesso Pdl, pronto ad appoggiare una personalità prestigiosa capace di traghettare il Paese fino al 2013. Altri, invece, temono l’ennesimo bluff. Di Pietro, per esempio, consiglia prudenza e insinua il dubbio sulle reali intenzioni di Berlusconi. Che alla fine potrebbe approfittare dei prossimi giorni per realizzare l’ennesimo gioco di prestigio e ricompattare la maggioranza. Una provocazione, data la promessa fatta al presidente della Repubblica. Ma al tramonto le ombre si allungano e fanno più paura che mai.

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Un’altra settimana di passione, forse l’ultima

Buona regola, oltre che misura di prudenza, è attenersi al vecchio e saggio consiglio del Trap: “non dire gatto se non ce l’hai nel sacco”. In altre parole, non bisogna mai dare nulla per scontato. Soprattutto con “lui”. Ha già dimostrato ampiamente di avere una capacità di risollevarsi degna di Amintore Fanfani, il “rieccolo” di montanelliana memoria. D’altronde, viene spesso paragonato a “Ercolino sempre in piedi”, mitico pupazzo della Galbani che più lo atterravi e più si rialzava.
Comunque, pare che ormai sia cosa fatta. Questa potrebbe essere la settimana decisiva per scrivere la parola “fine” sulla fallimentare esperienza di governo iniziata nel 2008, con la più ampia maggioranza avuta da un governo repubblicano. Il vuoto creato attorno al presidente del consiglio è palpabile. In Italia e all’estero. Nel suo stesso schieramento, è un invito sempre più insistente a farsi da parte. E non solo tra i malpancisti, quella genia di parlamentari pronti a vendere la residua dignità per un posto da sottosegretario. “Responsabili” fino a quando hanno un tornaconto personale: una poltrona o la garanzia di una ricandidatura. Se anche Gianni Letta si è convinto che “così non si può andare avanti”, siamo ai titoli di coda. Non bastasse la fronda interna (con i vari Formigoni, Scajola e company attenti ai possibili movimenti tellurici del dopo Berlusconi), gli osservatori internazionali sono ancor più espliciti. Il titolo del Financial Times è eloquente: “In nome di Dio e dell’Italia, vattene”.
C’è quasi dell’eroismo nella resistenza opposta dal premier. O dell’irresponsabilità, dalla prospettiva opposta. Forse la consapevolezza che, una volta fuori dal bunker di Palazzo Chigi, molte giornate dovrà trascorrerle nelle aule dei tribunali.
Intanto, è un fuggi-fuggi generale. La maggioranza è un’anguilla che a tentare di bloccarla scappa da tutte le parti. Parlamentari dati in uscita sui quali il pressing di Denis Verdini e dello stesso premier non sembra più produrre effetto. Ma non definiamoli eroi. Tra coloro che ora vestono la maschera dei censori, la stragrande maggioranza è responsabile dello sfascio morale in cui si trova l’Italia. Sono quelli che hanno votato qualsiasi porcata e che si sono sfilati soltanto in questo decadente epilogo. E che con questa legge elettorale saranno rieletti. Difficile pensare che qualcuno sia disposto a fare cadere il governo e poi sparire dalla circolazione. I movimenti al centro sono frenetici ed è probabile che partiti di crinale come Udc ed Mpa diventeranno una lavanderia politica.
Fine di una storia, dunque. Con un rimpianto. Quello di non essere stati in grado di farcela da soli. Alla fine, dovremo ringraziare la comunità internazionale che ha provocato l’isolamento di Berlusconi, e Paolo Cirino Pomicino, il regista delle manovre che stanno sfilando uno ad uno i parlamentari pidiellini. Va a finire che moriremo davvero democristiani.

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Il ritorno di Santoro

Che sarebbero state poche le novità, è stato chiaro sin dall’ingresso di Santoro nello studio sulle note della canzone di Vasco Rossi “I soliti”. Il pubblico di “Annozero” non ha avuto difficoltà a risintonizzarsi su “Servizio Pubblico”, praticamente il sequel del talk show andato in onda su Rai2. La stessa apertura con l’anteprima del conduttore, che ha ricordato due maestri del giornalismo, Enzo Biagi e Indro Montanelli, ed evocato la “rivoluzione civile” auspicata da Mario Monicelli. La stessa musica, quella di Nicola Piovani. Persino gli stessi caratteri utilizzati per scrivere il titolo del programma. Una formula vincente, confermata dai dati d’ascolto. Circa tre milioni di telespettatori e il 14% di audience (dietro soltanto a Rai1 e Canale5) il colpo messo a segno grazie ad una “multipiattaforma” composta da emittenti locali, Sky, siti internet e radio. La dimostrazione che è possibile fare televisione non di nicchia anche al di fuori del finto duopolio Rai-Mediaset.
“Sarà una tv che sale sulla gru”, era stata la promessa. E due gru, simbolo della protesta dei disoccupati, fanno parte della scarna scenografia. Con esse, tre torri d’acciaio da dove il “frate indignato” Vauro, con il suo “giramento di cordoni”, presenta le sue vignette, Giulia Innocenzi lancia in diretta i sondaggi su Facebook e il “paese reale”, quello dei disoccupati e dei precari, prende la parola. Sul palco non c’è il tavolo di “Annozero”, ma soltanto due sedie per gli ospiti della puntata, intitolata “Licenziare la casta”: l’imprenditore Diego Della Valle e il sindaco di Napoli Luigi De Magistris, sottoposti alle domande di Franco Bechis, Luisella Costamagna e Paolo Mieli, il “complottatore capo” (copyright di Giuliano Ferrara) del piano di disarcionamento del premier. Doppio Travaglio, come Vauro: “la balla della settimana” – il magistrato Ingroia “partigiano” della Costituzione – e “i soliti ignoti” sull’argomento della puntata. Asciutto e incisivo il servizio di Sandro Ruotolo sugli sprechi della politica, al quale hanno fatto da complemento le considerazioni di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo, coppia di giornalisti abituata a fare le pulci alla casta. Ottimi i contributi provenienti dalla “strada”: l’intervista al deputato di Fli che ha definito Finmeccanica “il marchettatoio” di questo governo; le rivelazioni di Antonio Razzi, sedicente eroe per avere avuto il “coraggio” di tenere in vita il governo; la stizza di Claudio Scajola, beccato all’uscita dal famigerato appartamento, in parte pagato a sua insaputa dall’imprenditore Diego Anemone.
Nel complesso, prova superata, anche se alcune cose vanno riviste. Per esempio, sarebbe bene ascoltare più campane. E poi, non andare “fuori traccia”, un’impressione che si è avuta con l’intervista alla testimone chiave dei processi sul “bunga-bunga” e con il servizio sul latitante Valter Lavitola, autodefinitosi “lo sfigato della situazione”. Lo schema disegnato sulla lavagna dall’ex direttore dell’Avanti per spiegare i soldi a Tarantini è stato un numero da avanspettacolo, ma la vetta della comicità è stata raggiunta con il comizio di Scilipoti: “è finito il tempo dei cialtroni! È iniziato il tempo della meritocrazia!”.

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Il Big Bang di Renzi e quell’idea che manca

Il segnale inequivocabile dell’approssimarsi delle elezioni sono le faide che si stanno scatenando all’interno del partito democratico e, più in generale, nel centrosinistra. Un riflesso pavloviano: appena si affaccia l’ipotesi di una votazione e, ancor più, di una possibile vittoria, iniziano i litigi. Verrebbe quasi da rimpiangere il centralismo democratico del vecchio Pci. Ora è “tutti contro tutti e ognuno per se”, al massimo per la propria corrente. I volti, alla fine, sono gli stessi di sempre. Sulla questione, ha ragione da vendere Matteo Renzi: “non è possibile che cambino continuamente i simboli dei partiti e restano sempre le stesse facce”.
La tre giorni alla stazione Leopolda ha ufficializzato le ambizioni di leadership del sindaco di Firenze. Una proposta di rottamazione del Pd e di un vecchio modo di fare politica, al quale si vuole contrapporre una proposta diretta e partecipata, non ingessata da rituali oligarchici. Un “partito format”, secondo la definizione di Aldo Grasso, giovanilista, ammiccante, piacione. “Si è presentato con il vestito della prima comunione”, ha ironizzato Luciana Littizzetto, mentre Maurizio Crozza è stato più cattivo: “il niente che avanza”. Il “Big Bang” ha ovviamente scatenato anche la reazione dell’establishment di sinistra. “Tardo blairismo in salsa populista”, per Rosy Bindi; “Renzi nel Pd è una contraddizione”, la quasi scomunica di Cofferati. Diplomatico invece Bersani. A differenza di Vendola: “Renzi è il vecchio”. Di certo, non unisce. Tanto da alimentare le peggiori illazioni. È stato addirittura ripescata dagli archivi Mediaset una puntata della Ruota della fortuna alla quale partecipò (e vinse). È stato ricordato l’incontro con Berlusconi ad Arcore (dicembre 2010), una visita a domicilio inconsueta da un punto di vista istituzionale, guardata dal Pd con sospetto e irritazione. È stato sottolineato con abbondante dose di malizia il contributo di Giorgio Gori (l’ex direttore di Canale 5 che portò in Italia il Grande Fratello, poi fondatore di Magnolia, società che produce L’Isola dei famosi) alla stesura delle “cento idee per l’Italia”. Tre indizi che fornirebbero la prova schiacciante di un Renzi “Berlusconi di sinistra”. Pierfranco Pellizzetti è andato giù pesante: “Il solo elemento di novità del renzismo è l’uso spregiudicato delle tecniche di comunicazione imbonitoria”.
Dalla disfida tra i ricostruttori di Bersani e i rottamatori di Renzi, a rimetterci potrebbe essere, come al solito, l’intero centrosinistra. Il programma della Leopolda, è stato detto, è discutibile e integrabile. A mio avviso, una lacuna andrebbe colmata in via preliminare. Altrimenti è impossibile confrontarsi sul resto. Il peccato originale della sinistra è la mancata approvazione di una legge sul conflitto d’interessi, subito dopo la vittoria alle elezioni del 1996. Bisogna stabilire, una volta per tutte, che chi – come il premier – si trova al centro di un groviglio di interessi, soprattutto nel settore dell’informazione, non può fare politica, per la ragione elementare che il suo tornaconto personale prevarrà sempre sul bene della collettività. Oggi, non sarebbe neppure un provvedimento punitivo contro Berlusconi, ormai al termine della sua parabola politica. Semplicemente, la regolamentazione di un’ anomalia inconcepibile in un Paese democratico.

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Trentasei anni senza P.P.P.

Sono arrivato a Pier Paolo Pasolini da solo. O quasi. Ai tempi del liceo, lo sfiorai tra la prima e la seconda classe, quando la professoressa di lettere ci assegnò alcuni libri da leggere durante le vacanze estive. Conobbi così Pasolini, Cesare Pavese, Italo Calvino, Primo Levi e qualcun altro autore del Novecento. Le fortune dei ragazzi passano spesso dagli insegnanti che incontrano lungo il cammino scolastico. A me è andata bene. Nel biennio, un rapporto splendido, anche sotto il profilo umano, con la professoressa Paino; nel triennio, quello decisivo per la mia formazione con il professore Monterosso (storia e filosofia). In quinta, però, studiammo poco o niente gli autori del Novecento. Di sicuro, non li leggemmo. E anche se il professore di lettere avesse avuto questa intenzione, non credo che ci avrebbe fatto leggere Pasolini. Troppo distante dal suo mondo.
Per vie traverse ci sono però arrivato ugualmente. Mi capita spesso di leggere qualcosa che rimanda ad altri autori. E così è stato. Mi sono “imbattuto” nella raccolta di poesie Le ceneri di Gramsci e così ho prima approfondito il poeta, quindi sono passato alla lucidità del pensiero degli Scritti corsari, all’intellettuale scomodo, scandaloso e affascinante per chi si rifiuta di sottostare alle logiche e ai valori propagandati dal consumismo e dall’edonismo dominanti. Nessuno meglio di Pasolini ha saputo leggere i cambiamenti della società italiana nel secondo dopoguerra. Nessuno è stato così profetico e coraggioso nel mettere in guardia, con quarant’anni d’anticipo, dal baratro verso il quale l’umanità stava (e sta) precipitando. Le denunce contro il Palazzo, il ruolo e la funzione della televisione in una società di massa, l’omologazione culturale, la trasformazione antropologica della società sono temi drammaticamente attuali.
Domani ricorre il trentaseiesimo anniversario dell’assassinio di Pasolini. Una vicenda che presenta ancora molti lati oscuri. L’ennesimo mistero della storia d’Italia. Nella sua appassionata orazione funebre, Alberto Moravia pronunciò parole forti e condivisibili: “abbiamo perso prima di tutto un poeta, e poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono soltanto tre o quattro in un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta: il poeta dovrebbe essere sacro!”.

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Si fa, non si fa, si fa, non si fa…

Il primo ad affrettarsi a dire che no, il ponte si farà lo stesso, nonostante l’approvazione della mozione presentata dal dipietrista Antonio Borghesi, è stato il ministro Ignazio La Russa: “la mozione dice che il governo eventualmente può sopprimere i finanziamenti per l’opera, ma posso assicurare che non lo farà”. A ruota, la precisazione di Palazzo Chigi, dello stesso tenore. Qualche giorno fa, era stato il ministro delle Infrastrutture, Altero Matteoli, a ribadire che il Ponte rimaneva una priorità del governo, nonostante l’Unione europea non avesse inserito il Ponte tra le opere prioritarie del Corridoio 1.
Troppo semplice cavarsela con la battuta di La Russa: “una mozione non si nega a nessuno, ma vale per quello che vale”. La sensazione è che sia stata posta una pietra tombale sulla grandeur berlusconiana da immortalare con una costruzione faraonica. Bocciata con un provvedimento di buon senso che rimedia ai tagli dei trasferimenti del governo a Regioni ed Enti locali per le infrastrutture, andando a recuperare così 1,7 miliardi di euro. Qualche considerazione sull’opportunità di un’opera che difficilmente risolverebbe i problemi della Calabria è inevitabile. Guadagnare trenta minuti nell’attraversamento dello Stretto non risolverebbe alcunché. Senza voler fare del facile “benaltrismo”, è un problema l’isolamento dei comuni calabresi delle zone interne, dovuto a collegamenti scarsi e disastrati. Sono un problema le code interminabili sull’A3, le stragi della 106 ionica, le frane che impongono la chiusura di intere strade provinciali, i fatiscenti treni-lumaca. Nello specifico, è un problema l’esistenza di un duopolio che gestisce il trasporto nello Stretto sulla pelle dei pendolari, permettendosi aumenti dei prezzi frequenti e inspiegabili, senza che le legittime proteste non si rivelino soltanto un avvilente abbaiare alla Luna.
Il Ponte unirebbe Calabria e Sicilia, in un deserto di infrastrutture. L’unica utilità sarebbe quella dichiarata da Berlusconi: “se uno ha un grande amore dall’altra parte dello stretto potrà andarci anche alle quattro del mattino senza aspettare i traghetti”. Sotto il profilo dello sviluppo economico, cambierebbe poco. La Calabria deve guardare oltre la Sicilia. Occorre puntare lo sguardo ai mercati del Nord Italia e dell’Europa, per cui servono strade e ferrovie che ne riducano le distanze. Deve guardare ai Paesi del Mediterraneo. Il suo sviluppo passa necessariamente dal rilancio e dal potenziamento del Porto di Gioia Tauro (indotto e iniziative imprenditoriali che non riducano lo scalo a box per il pit stop delle navi), ora in grave crisi per l’addio della Maersk Line che ha causato una drammatica diminuzione del traffico.
La quantità di soldi spesi fino ad ora per la “realizzazione” del Ponte è da guinness dei primati: 270 milioni di euro (8,5 miliardi il costo finale previsto). Niente male per un’opera che – probabilmente – non si farà. E pensare che l’11 giugno la Società Stretto di Messina ha compiuto trent’anni. Un compleanno che rischia di diventare amaro, anche se la sua scadenza è fissata al 31 dicembre 2050. Il tempo (per gli sprechi) non basta mai.

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