Per favore, risparmiateci la spocchia

Le ultime settimane sono state monopolizzate da due dichiarazioni infelici e dalle successive polemiche. Il tema dell’occupazione è un nervo scopertissimo. Forse sarebbe il caso che chi ricopre incarichi di governo maneggiasse con più cura una materia talmente esplosiva. Ha iniziato il viceministro del lavoro e delle politiche sociali, Michel Martone: “chi si laurea dopo i 28 anni è uno sfigato”. Anche chi si laurea in tempo e poi invecchia cercando un lavoro non scherza. Martone ha successivamente rettificato il senso della sua affermazione, ma l’irritazione non passa. E non va via perché pure Martone dovrebbe sapere che la questione, innanzitutto, è di “opportunità”. Che non sono uguali per tutti. Senza ricorrere alla vis polemica di Travaglio, se sei figlio di un magistrato della Cassazione (o comunque “figlio di”), hai possibilità che altri nemmeno si sognano. Fai esperienze, maturi un curriculum eccellente e vai avanti. Incarichi su incarichi, una pubblicazione dopo l’altra e può capitare di ritrovarsi professore ordinario a 30 anni e viceministro a 38.
Commentando la mia lettera al ministro Profumo, in poche battute Mario ha spiegato dove sta la vera differenza tra l’Inghilterra e l’Italia:

In Inghilterra c’è un’etica del lavoro cristallina. Non hai bisogno di conoscere nessuno e nei colloqui sei valutato “semplicemente” per i tuoi meriti. Non solo, anche se non hai le qualifiche richieste, se reputano tu abbia il potenziale, il training te lo danno loro, pagato, perché investono nella persona. È il valore della persona che conta, non chi conosci. Negli anni, con uno straccio di diploma di maturità scientifica (42/60) ho lavorato in una banca multinazionale (HSBC), per la polizia metropolitana londinese, ed ora per una compagnia aerea, che è anche un’altra multinazionale, in un percorso lavorativo di cui vado fiero. Dubito in Italia avrei avuto le stesse possibilità. In banca ci entri con le raccomandazioni, così come in Polizia o all’Alitalia.

Sei valutato per le tue qualità. Se ti giudicano idoneo, investono su di te. Una visione copernicana. Quanti corsi di formazione vengono tenuti in Calabria, senza che si riesca ad ottenere neanche un posto di lavoro? Gli unici a trarre un profitto sono coloro che li organizzano. Non i partecipanti, che collezionano l’ennesimo inutile pezzo di carta. A quanti curriculum inviati non segue alcun colloquio di lavoro e neppure l’educazione di una risposta?
Per entrare all’HSBC, una delle più grandi banche europee, Mario non ha fatto un concorso. Ha superato un colloquio di lavoro, durante i mesi di prova ha seguito un corso di formazione, infine è stato assunto. Lineare. In Italia una cosa del genere è impensabile. Fare per tutta la vita lo stesso lavoro non rientra nella sua filosofia di vita. Altrimenti sarebbe rimasto in banca. Ma lui ha la possibilità di smettere e fare altro con una relativa semplicità. Se invece il presidente del consiglio se ne esce con “il posto fisso è monotono”, in una realtà caratterizzata dal 30% di disoccupazione giovanile (senza contare inoccupati, cassintegrati, lavoratori a 5-600 euro al mese), è scontata la selva di fischi. Il problema è il lavoro, un lavoro qualsiasi. Altro che posto fisso. Le parole sono importanti, ma anche chi le pronuncia.

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Casta calabra

L’aveva detto in tempi non sospetti: “Ci rivedremo presto. E sempre con la schiena dritta”. Era la chiusura dell’editoriale sofferto, ma orgoglioso, con il quale Paolo Pollichieni, il 20 luglio 2010, annunciava le dimissioni da direttore di CALABRIA ORA, il quotidiano che aveva guidato per più di tre anni. In tanti tirarono un sospiro di sollievo. “Chissà cosa uscirà stamattina” era diventato l’incubo ricorrente per gli amici degli amici, per i compari dei compari, per tutta quella gente dotata della dose di pelo sullo stomaco indispensabile per coltivare amicizie “pericolose” e per essere “qualcuno” in Calabria. I rapporti tra politica e ’ndrangheta sono stati spesso al centro delle inchieste portate avanti da Pollichieni e dai suoi collaboratori, una pattuglia giovane, agguerrita, coraggiosa, che non ha esitato a seguire l’esempio del direttore di fronte alle pressioni della proprietà del giornale.
Casta Calabra (sottotitolo: La politica? Sempre meglio che lavorare…), edito da Falco (Cosenza, dicembre 2011), è lo sbocco naturale di vicende personali e professionali vissute in prima linea. La sistemazione organica del discorso interrotto bruscamente quell’estate e ripreso un anno dopo, dalle colonne del CORRIERE DELLA CALABRIA, settimanale di inchieste e approfondimenti che ogni venerdì provoca parecchi bruciori di stomaco a Palazzo Campanella e a Palazzo Alemanni.
“C’è di tutto nel libro. Per cominciare, la denuncia del degrado culturale”, il giudizio del giornalista del CORRIERE DELLA SERA Gian Antonio Stella, al quale va il merito (da dividere con il collega Sergio Rizzo) di avere per primo scoperchiato il malcostume della classe politica italiana con La casta, exploit editoriale datato 2007, che ha aperto la strada ad un filone giornalistico di successo.
Pollichieni, Eugenio Furia, Giampaolo Latella, Pablo Petrasso e Antonio Ricchio accompagnano i lettori girone dopo girone, in un abisso popolato da politici e politicanti, faccendieri, mafia e antimafia, massondrangheta e borghesia mafiosa, quella “zona grigia” già definita dal direttore del CORRIERE DELLA CALABRIA “il vero capitale sociale della ’ndrangheta”. E che è diventata classe dirigente in una realtà dominata dal “familismo amorale”, modello di comportamento sociale fondato sul perseguimento dell’interesse “familiare” a scapito del bene della collettività. Nella notte della politica calabrese, le differenze tra gli schieramenti sono impercettibili. Anche perché la cronaca è un inciucio continuo, sublimato nella legge sul “concorsone” (2001), ma riscontrabile in un modus operandi che non distingue tra gli schieramenti politici. Leggi sul taglio dei costi della politica che si rivelano fonti di ulteriori sprechi. Consulenze inutili e incarichi esterni assegnati a politici trombati alle elezioni, tra gli sbadigli annoiati del personale interno. Carrozzoni come l’Afor e l’Arssa, aboliti per legge da cinque anni, che continuano ad assumere personale. Società partecipate perennemente in rosso: emblematico il caso della Sogas, la società che gestisce l’Aeroporto dello Stretto e che dalla data della sua costituzione (1986) non ha mai chiuso un bilancio in attivo. Nelle pagine di Casta calabra sfilano politici e burocrati, con il relativo codazzo di parenti attaccati alla mammella pubblica, tutti accomunati dal longanesiano “tengo famiglia”. Tutti sorridenti dietro al vip di turno portato a sfilare sul corso Garibaldi per promuovere l’immagine di Reggio, mentre nelle periferie manca l’acqua e le buche nelle strade sono voragini. Il tanto sbandierato “modello Reggio”, assurto prima a modello da esportare a livello regionale, quindi declassato a “modello peggio”: scandali, debiti, misteri, il suicidio di Orsola Fallara, la nomina prefettizia della commissione d’accesso antimafia. E nuvoloni neri all’orizzonte.

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Ho scritto al ministro Profumo. E mi ha risposto

Qualche giorno fa avevo scritto al ministro della Pubblica Istruzione. Ho abbastanza esperienza per sapere come vanno queste cose. Mi ero detto: “Qualche collaboratore del ministro Profumo leggerà (forse) e cestinerà”. Nella migliore delle ipotesi, lo stesso collaboratore invierà un paio di righe di risposta, le solite frasi di circostanza. Insomma, non mi aspettavo chissà cosa, tanto che non avevo neanche intenzione di rendere pubblica la mia lettera. E invece la risposta mi è arrivata, una email della segreteria del ministero:

“Gent.mo dr. Forgione, apprendo dalla sua lettera lo sconforto che sta vivendo. La invito però a non demotivarsi nonostante le difficoltà del momento e a continuare a credere nel suo impegno. Cordiali saluti”.

Mi è sembrata un’inaccettabile presa per i fondelli. Cioè, sono io che non devo demotivarmi?! Io non mi sono mai demotivato, altrimenti avrei gettato la spugna prima di oggi!
Ho quindi deciso di pubblicare la lettera e di cercare di diffonderla per quanto mi è possibile. Vi chiedo di fare lo stesso, con tutti i mezzi che avete a disposizione (email, facebook, twitter). Probabilmente, non cambierà nulla. Ma è giunto il momento di gridare, per dire almeno che non siamo più disposti a sopportare in silenzio.

27 gennaio 2012
Ch.mo prof. Profumo,
chi le scrive è un dottore di ricerca in Storia dell’Europa mediterranea che ormai non sa più quanti bocconi amari ha ingoiato da quando ha avuto la disgrazia – perché tale si è rivelata – di vincere il concorso all’Università di Messina, nell’ormai lontano 2001.
A conti fatti, è stata una vera sciagura, che mi ha precluso opportunità lavorative che non si ripresenteranno mai più. Altrove (si pensi al PhD anglosassone) il dottorato è un passe-partout che apre le porte all’eccellenza, ai posti di lavoro più prestigiosi, tanto da costituire un requisito quasi indispensabile per chi aspira a diventare classe dirigente. In Italia, il dottorato non solo non dà niente, se non una precarizzazione infinita, ma in un certo senso è penalizzante, perché se si è investito tutto su quello, al termine del corso ci si ritrova praticamente senza niente in mano. E così, esperienze lavorative all’estero, pubblicazioni, dieci anni di collaborazione con una cattedra universitaria inseguendo il miraggio “prima o poi arriverà il mio turno”, si sono rivelati un suicidio. Perché giunti alla soglia dei quarant’anni, un dottorato in una disciplina umanistica e una laurea in scienze politiche non hanno alcuna spendibilità nel mercato del lavoro.
Nell’Università, al di là di ciò che si strombazza ogni qual volta si approva una riforma, non cambia mai niente. Perché si possono fare centomila riforme, ma il sistema rimane sempre autoreferenziale: commissioni fatte da professori. Prima era tutto più semplice perché la “scelta” dei candidati vincitori veniva fatta a livello locale. Ora c’è solo un passaggio in più: commissari esterni fanno vincere il candidato “scelto” dalle facoltà, perché tanto i membri “girano”. Tu mi fai il favore qua, io te lo ricambierò nella tua facoltà, quando si presenterà l’occasione.
Può dirmi: “se hai le prove denuncia, altrimenti stai zitto”. Lo sappiamo tutti che è difficilissimo dimostrare l’imbroglio. Le commissioni giudicano secondo criteri “oggettivi”. Li conosco bene. Per gli insegnamenti a contratto, le esperienze di dottorati e assegni di ricerca hanno una valutazione che oscilla da un punteggio minimo ad uno massimo. Ovviamente, il candidato che “deve” vincere ottiene il massimo e le sue pubblicazioni sono “attinenti” con la materia messa a bando. Per gli altri non è mai così. Assegni di ricerca, post-dottorati, concorsi per ricercatore: dalla composizione della commissione di esame si sa già chi vincerà. Perché una sola pubblicazione di 100 pagine (per metà un’appendice con documenti copiati) può valere più di diversi libri, saggi e articoli, purché edita su una rivista specializzata. Magari, quella del preside della facoltà che ha indetto il concorso e che ha una candidata, quasi cinquantenne ed estranea al mondo universitario, da sistemare per ripagarla di servigi di altra natura.
Insomma, se il professore al quale si è legati non conta nulla, si rimarrà sempre fuori dal sistema.
E fuori c’è il nulla. Ci si ritrova, saltuariamente, a fare lavori per i quali non sarebbe stato necessario alcun titolo, né scolastico, né accademico. Come si può, in queste condizioni, pensare al futuro, a farsi una famiglia? Aspirazioni legittime, non la Luna.
Capisco che non possiede la bacchetta magica. Per cui so che non può risolvere, dall’oggi al domani, una situazione che si trascina da decenni. Lei però conosce benissimo il problema, cioè cosa spetta a tantissimi giovani all’indomani del conseguimento del pezzo di carta: disoccupazione, sottoccupazione, lavori dequalificanti che non hanno alcuna correlazione con il percorso di studi seguito. Infine, inoccupazione, quando la stanchezza prende il sopravvento. Per pochi “fortunati”, se così si possono definire coloro che hanno la possibilità di fare qualche lavoretto in nero, o qualche contratto a progetto per un paio di mesi, sfruttamento senza alcuna tutela e senza alcun diritto.
Siamo la prima generazione della storia d’Italia senza futuro. Siamo una generazione che non può farsi una famiglia perché non ne ha la possibilità. Siamo una generazione che tra trenta-quaranta anni farà esplodere una bomba sociale che neanche riusciamo ad immaginare. Perché non avremo niente, neanche uno straccio di pensione. Siamo una generazione senza sogni. E questa è la cosa che fa più male. Quando non si è più capaci di sognare, si sta cominciando a morire. È ciò che sta capitando a molti di noi. Perché anche i sogni (la carriera universitaria, nel mio caso) sono ormai una possibilità come tante altre. Come qualsiasi cosa che ci consenta di non dovere “chiedere”, di potere fare fronte alla vita con le nostre sole forze.
Servono riforme strutturali. Servono percorsi formativi che portino ad uno sbocco lavorativo. Servono corsi di formazione che non siano soltanto uno strumento clientelare di gestione del potere. Il solito escamotage per stabilizzare gente nominata per intuitu personae, quell’intuito che tutti conosciamo.
La mia storia è certo una sconfitta personale, ma è anche l’esito tristissimo di un modello di sviluppo e di politiche occupazionali fallimentari.

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Gli anni Ottanta di mio fratello Mario. E anche i miei

A scrivere sugli anni Ottanta, non ci si stancherebbe mai. Sarà che eravamo dei ragazzini spensierati, sarà che il passato ci strappa quasi sempre un sorriso, sarà che l’ingenuità e l’innocenza di quel tempo non le ritroveremo più. Molti di voi conoscono mio fratello Mario, da 14 anni “esule” (secondo la sua autoironica definizione) a Londra. È più piccolo di me di nemmeno due anni, per cui abbiamo avuto un’adolescenza identica. Ha scritto un pezzo sugli anni Ottanta, che sono felice di riproporre sul mio blog. Chi in quegli anni c’era sorriderà, chi non c’era forse avrebbe voluto esserci. Alcune chicche, tipo quella finale del mangianastri sulle Vespe, le avevo scordate.

Associo gli anni Ottanta alla parola “semplicità”. Nel 1980 avevo 5 anni e grazie al telefilm Spazio 1999, vivevo nella certezza che il mondo sarebbe finito nel 2000. Nel mio cervello da bambino, però, il 1999 era lontano anni luce, perciò non c’era niente di cui preoccuparsi. Non c’erano complicazioni allora. Il mio unico problema esistenziale riguardava la “signora” dell’asilo, la quale aveva notato che ero mancino ed aveva deciso di correggere quel mio difetto, obbligandomi a tenere la mano sinistra dietro la schiena. Sfortunatamente per lei, anche a quell’età facevo di testa mia. A casa scrivevo con la sinistra, pagine e pagine di vocali e lettere dell’alfabeto. All’asilo, tenevo la matita con la destra, ed appena la megera voltava occhio, scattavo dai box con la sinistra. Ero velocissimo. Fui scoperto una mattina d’inverno, ma troppo tardi. Il danno era fatto, non avrei mai scritto con la destra, se non altro per questioni di principio.
La scuola elementare si rivelò una pacchia immane. Il mio professore credeva nell’attività fisica. Ricordo con piacere gli sguardi di invidia degli altri bambini sempre chiusi in classe o nella migliore delle ipotesi in terrazzo mentre noi si giocava per ore in cortile. Le bambine erano delle funambole nel gioco dell’elastico. Noi bambini eravamo impegnati in interminabili partite di pallone, interrotte solo al suono della campanella. Se pioveva, si andava in palestra. Per motivi tuttora a me alieni, io ero il primo della classe, uno status che mi permetteva di esprimere un’opinione su tutto.
Erano gli anni di Dallas, che mia madre guardava religiosamente il lunedì sera. Le attrici avevano delle acconciature impossibili. Quando un giorno il professore mi chiese di dare la definizione di volume, io risposi che un esempio eclatante erano i capelli di Sue Ellen, la moglie ubriaca di JR. Anche da bambino mi dilettavo in associazioni di idee improbabili ma che il mio professore incoraggiava. Quando le disse che ero un creativo, mia madre non dimostrò però nessun entusiasmo. In TV guardavo tutti i cartoni animati, ma poiché Candy Candy, Anna dai Capelli Rossi, Remi e Heidi erano roba da bambini rammolliti, io mi concentravo su Gig Robot d’acciaio, Goldrake e Mazinga Zeta: probabilmente le tette esplosive di Afrodite A, la fidanzata di Mazinga, al giorno d’oggi sarebbero state censurate durante la fascia protetta. Il sabato c’era Fantastico con Pippo Baudo ed Heather Parisi, che non solo era americana, ma era entrata nell’immaginario collettivo perché un gran bel pezzo di figliuola.
In un batter d’occhio mi ritrovai nell’86, in scuola media, corso C, quello d’Inglese. Guardavamo con sufficienza gli sfigati del corso A e B, che studiavano Francese e quindi venivano ritenuti inferiori. Inspiegabilmente, ero ancora primo della classe, ma in realtà ero ignorante come una capra. L’87 è stato l’anno dei miei primi turbamenti pre-adolescenziali. All’improvviso, il mensile taglio di capelli diventò un momento irrinunciabile. Penso che i barbieri di paese fossero responsabili dell’educazione sessuale di intere generazioni di ragazzi. A meno che non si avesse un fratello maggiorenne, era lì che si aveva accesso a materiale VIETATO e fumetti porno. I più popolari erano Sukia, la vampira assetata non solo di sangue, ed Il Camionista, che incidentalmente aveva il mio stesso nome: non vedevo l’ora di farmi crescere i baffi.
Ad 11 anni scoprii la “piazza” (piazza Matteotti) e la mia vita cambiò radicalmente. Si giocava a calcio dalle 16 alle 20, quando mia madre prelevava me e i miei fratelli in Fiat 500. Quelli erano gli anni dei record. Il più eclatante era quello dei giri della piazza in bicicletta senza mani, tuttora detenuto da Calarco. Si fermò a mille per sopraggiunta oscurità. Io detenevo quello del giro della piazza in pattini a rotelle: fermai il cronometro a 17.9 secondi. Talvolta facevamo delle trasferte in pineta, che a suo tempo era un pezzo di bosco, una distesa d’erba ed alberi. Lì, dribblando pure i tronchi, sfidavamo a calcio i bambini “pinetoti”. Il mio albero era però in piazza, sulla sinistra, vicino al muretto, che era un altro punto di incontro dove si svolgevano anche le sfide di briscola. Spendevamo ore arrampicati su quell’albero. Ognuno aveva il suo ramo, sul mio vi avevo inciso il mio nome. Quell’albero lo tagliarono nel 1993: piansi. Quando avevamo fame ci riversavamo sugli orti: eravamo peggio delle locuste e mangiavamo di tutto: ciliegie, prugne, fragole, albicocche, pesche, lattuga, finocchi, fave. Non lavavamo mai niente. Al limite ci soffiavamo sopra. Nessuno è mai stato male, a riprova che l’esposizione allo sporco ed ai batteri tempra il sistema immunitario e che le pubblicità odierne su prodotti che uccidono il 99.9 di batteri dovrebbero essere bandite perché promuovono solo psicosi di massa.
Quelli erano anche gli anni dell’orologio Casio con calcolatrice incorporata, del cubo di Rubik, di jeans avvolti sulle caviglie, di pettinature improbabili e di cinture dalle fibbie pesantissime, armi improprie da dichiarare ai Carabinieri. In paese imperversavano le Vespa 50, rigorosamente truccate. Avrei venduto mia madre per possederne una, con tanto di antenna e mangianastri incastrato nel porta oggetti, così tamarramente geniale che proporrei una raccolta di firme per riproporla. Poi, all’improvviso giunse il 1989, con una tempesta ormonale che mi fece esplodere la faccia. Fu la fine dell’innocenza.
Mi chiamo Mario, ho 37 anni. Negli anni Ottanta ero un bambino. Segretamente, lo sono ancora.

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La Giornata della Memoria

La memoria è un dovere e il modo migliore per commemorare l’Olocausto è affidarsi alle parole di chi c’era.
Perché non accada mai più.

Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile.
Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.
Noi sappiamo che in questo difficilmente saremo compresi, ed è bene che così sia. Ma consideri ognuno, quanto valore, quanto significato è racchiuso anche nelle più piccole nostre abitudini quotidiane, nei cento oggetti nostri che il più umile mendicante possiede: un fazzoletto, una vecchia lettera, la fotografia di una persona cara. Queste cose sono parte di noi, quasi come membra del nostro corpo; né è pensabile di venirne privati, nel nostro mondo, ché subito ne ritroveremmo altri a sostituire i vecchi, altri oggetti che sono nostri in quanto custodi e suscitatori di memorie nostre.
Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso; tale quindi, che si potrà a cuor leggero decidere della sua vita o morte al di fuori di ogni senso di affinità umana; nel caso più fortunato, in base ad un puro giudizio di utilità.

[Primo Levi, Se questo è un uomo, p. 23]

Di seguito, la testimonianza di Primo Levi raccolta da Enzo Biagi e riproposta ne Il Fatto, trasmissione di successo andata in onda sulla Rai dal 1995 al 2002, quando fu soppressa dall’“editto bulgaro”.

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Cinque anni fa

Quel 27 gennaio, ovunque ci si voltasse, erano soltanto occhi gonfi. Quando in una piccola comunità viene a mancare una giovane vita, stringersi attorno alla famiglia è un gesto istintivo, un riflesso naturale. Un modo per fare e farsi forza, tutti assieme.
La morte di Adelina Luppino è stata un dolore troppo grande, che ognuno hai poi elaborato individualmente (ma anche collettivamente) nel tempo, pur continuando a portarlo dentro di sé, “come una pietra leggera” – direbbe il poeta. In tanti abbiamo seguito, più o meno da vicino, la sua personale via crucis, accompagnandola stazione dopo stazione, e trovando – noi – nelle sue parole, nella sua testimonianza di vita e di fede, il conforto per quel vuoto che immaginavamo avrebbe lasciato.
Come in un flashback: il freddo sferzante, una lama che tagliava visi solcati da lacrime. Una ragazza minuta che tremava, quasi saltellava, nel tentativo inutile di soffocare il pianto. Una folla immensa. Muta. Attonita. Un silenzio che metteva i brividi, interrotto soltanto dai singhiozzi. “Su ali d’aquila”. Il dolore e la dignità di una mamma che forse ancora oggi non riesce ad accettare la crudeltà di un destino che l’ha fatta sopravvivere alla figlia.
Una scia di luce è il titolo del libro che la sorella Antonietta ha curato, raccogliendo lettere, pensieri e poesie di Adelina. Una scia di luce è quel che ci rimane di lei, scintillante. Come nell’estate scorsa, quando grazie al “suo” contributo l’Agape è riuscita a portare a Lourdes un gruppo di disabili.
Per ricordare Adelina, gli amici dell’Agape si sono dati appuntamento alle 12.00 di venerdì 27 per recarsi al cimitero. Nella chiesa di Sant’Eufemia, alle 18.00, sarà celebrata una Santa Messa in suo ricordo, mentre a partire dalle 20.00 ci si ritroverà presso la sede per cenare e trascorrere la serata insieme.

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Addio al ponte sullo Stretto

Il cittadino comune lo sa da sempre: “solo gli allocchi possono pensare che si farà il ponte sullo Stretto” e “né io né tu vivremo abbastanza per passarci sopra” sono le frasi ricorrenti quando si affronta l’argomento. Accompagnate da considerazioni sulla strumentalizzazione politica che da sempre accompagna il progetto, in particolare negli ultimi anni, in concomitanza con l’aspirazione berlusconiana a lasciare ai posteri un segno tangibile della propria grandezza. Certo, c’era anche la proverbiale premura dell’ex premier per le questioni di cuore: “se uno ha un grande amore dall’altra parte dello Stretto potrà andarci anche alle tre di mattino, senza dipendere dai traghetti”.
Dovranno farsene una ragione le coppie separate dalla lingua di mare, il progetto è congelato. Più o meno come il “bianco ghiaccio” che il 45,5% dei 4.476 votanti il sondaggio proposto dal sito www.pontedimessina.it ha indicato come colore ideale per la megastruttura. Per cui, addio al ponte dei record, l’opera faraonica che avrebbe oscurato l’Akashi Bridge (Giappone): 3.300 metri la campata centrale (+ 1.100 metri), 382 metri l’altezza delle torri (+ 85 metri), un metro e 24 centimetri il diametro dei cavi di sospensione (+ 12 centimetri), oltre 44.000 cavi d’acciaio (+7.000).
Il Cipe ha infatti sbloccato, nella riunione del 20 gennaio, 6,2 miliardi di euro, definanziando nel contempo 1.624 milioni precedentemente destinati dal governo Berlusconi alla società Stretto di Messina e dirottandoli verso altri interventi. IL SOLE 24 ORE, che ha per primo dato la notizia, ha sottolineato il “doppio cambio di filosofia” rispetto all’era Tremonti: “si favoriscono da una parte interventi diffusi sul territorio piuttosto che mega opere dai tempi lunghi; e dall’altra si definiscono piani dettagliati e già concordati con il territorio allo scopo di far partire prima possibile le ruspe”. È anche vero, però, che la decisione era nell’aria, diretta conseguenza di scelte già fatte, sia in Italia che in Europa. Dopo l’estate, la commissione europea aveva dato un segnale inequivocabile, non inserendo il ponte sullo Stretto tra le opere infrastrutturali prioritarie per il periodo 2014-2020. E già a fine ottobre la Camera aveva approvato la mozione di Idv che prevedeva di destinare al trasporto pubblico locale i fondi per il ponte. Una votazione che sollevò un vespaio di polemiche per il parere positivo espresso dal viceministro alle Infrastrutture, Aurelio Misiti. Può darsi che sia finalmente finita la pantomima “ponte sì, ponte no”, in scena da troppo tempo. Vince Berlusconi e il ponte si fa. Perde e non si fa. Ma non è detto. Uno spreco di denaro senza fine. Cinquanta milioni di euro, nel periodo 2001-2007, soltanto per le consulenze di terzi e per il personale della società Stretto di Messina.
Il governatore della Sicilia, Raffaele Lombardo ha commentato con ironia: “Il Cipe toglie i fondi al ponte, che i siciliani vogliono, e li mantiene per la Tav, che in Val di Susa non vogliono”. Affermazione che andrebbe verificata. Per esempio, consultando le popolazioni interessate. La società dello Stretto l’ha fatto sul proprio sito e il risultato smentisce la convinzione granitica di Lombardo. Su 30.513 votanti, il 59% è contrario (percentuale alla quale va aggiunto il 5,6% del parere che “sarebbe meglio fare altro”), mentre soltanto il 33,6% si è dichiarato a favore. Evidentemente, il numero delle coppie “interregionali” deve essere in forte calo.

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Cultura, qualche proposta per i prossimi amministratori

Dopo la recensione al libro di Vittorio Visalli sui fatti d’Aspromonte, mi è stato chiesto dove sia possibile reperire l’opera dello storico eufemiese. Posso dire dove l’acquistai io. Al centro commerciale “La Perla” di Villa San Giovanni, quattro anni fa. Si trovava dentro un grande cesto di libri economici, lo notai per caso e fui attratto dal nome dell’autore. Del libro, non conoscevo l’esistenza. Ad essere sincero, neanche della casa editrice. Che nel frattempo ha cambiato denominazione e sede. Ora si chiama “Nuove edizioni Barbaro”, si trova a Delianuova ed è gestita da Caterina Di Pietro e Raffaele Leuzzi. Sul catalogo online, Aspromonte risulta esaurito, ma con un colpo di fortuna se ne potrebbe trovare copia in qualche libreria o edicola della provincia.
Visalli non è l’unico autore del quale la stragrande maggioranza dei suoi compaesani ignora le opere e financo l’esistenza. Ecco perché occorrerebbe un’operazione di recupero della memoria e della tradizione storico-culturale eufemiese. Personalmente, qualche volta ne ho parlato. Anche pubblicamente, come in occasione del convegno sul centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia organizzato dall’associazione “Terzo Millennio”. Così come ho più volte espresso un mio desiderio particolare, il rilancio del periodico “Incontri”, edito per tre lustri dall’associazione culturale “Sant’Ambrogio”. L’apprezzamento ricevuto non ha però finora prodotto iniziative concrete. La questione delle risorse economiche sembra insormontabile. Eppure non credo – tanto per fare un esempio – che la realizzazione di un’antologia eufemiese richieda una spesa insostenibile. Nella biblioteca comunale si trovano libri scritti da eufemiesi (non tanti, per la verità); altri sono facilmente consultabili presso la biblioteca “Topa” di Palmi; altri ancora sono in possesso di privati cittadini. La raccolta degli scritti più significativi di questi autori riporterebbe alla luce un patrimonio che molti ignorano e potrebbe inoltre rivelarsi un’operazione dall’alto contenuto sociale. Il rafforzamento delle ragioni stesse dello stare insieme di questa comunità.
Senza l’aiuto e la collaborazione di coloro che hanno a cuore le sorti di Sant’Eufemia, diventa però tutto più complicato. In primavera ci sarà il rinnovo del consiglio comunale. Non sarebbe male se nei programmi che verranno presentati agli elettori si parlasse anche di cultura. Negli scantinati del palazzo municipale c’è tutta la storia del comune, in documenti privi di alcuna catalogazione, non consultabili, esposti all’umidità e alla polvere. L’istituzione dell’archivio storico comunale potrebbe essere un punto qualificante per la futura amministrazione municipale.

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Garibaldi fu ferito. I fatti d’Aspromonte nella ricostruzione di Vittorio Visalli

Vittorio Visalli, lo storico nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 15 ottobre 1859 e morto a Reggio Calabria il 27 giugno 1931, è conosciuto principalmente per le opere I calabresi nel Risorgimento italiano e Lotta e martirio del popolo calabrese (1847-1848). Meno noto è invece il lavoro dedicato al ferimento di Giuseppe Garibaldi sull’Aspromonte, il 29 agosto 1862. Aspromonte, stampato per i “Tipi F. Nicastro” a Messina (1907), è un agile libretto di 74 pagine, suddiviso in nove capitoletti e un’appendice documentaria, che ripercorre il tentativo dell’Eroe dei Due Mondi di marciare su Roma per porre fine al potere temporale dei Papi e consegnare all’Italia la capitale naturale, interrotto tra i pini della località “Forestali” dalle truppe piemontesi del colonnello Emilio Pallavicini.
La particolare circostanza in cui il libro vide la luce induce al sospetto sulla sua reale diffusione e, di conseguenza, notorietà anche tra gli addetti ai lavori. “Una semplice e veritiera narrazione popolare del tentativo garibaldino su Roma” per “aiutare un’opera di alta beneficienza, la costruzione di un Sanatorio per tubercolosi” nel luogo del ferimento: così Visalli presenta il volume. Che non deve avere avuto molta fortuna, se non viene citato neppure dal massimo storico reggino, Gaetano Cingari, a differenza delle altre due pubblicazioni. A recuperare il volume dall’oblio ha però provveduto, nel 1995, l’editore Barbaro di Oppido Mamertina, che ne ha curato la ristampa anastatica. I piccoli editori sono perennemente con l’acqua alla gola, pronti a chiudere da un momento all’altro, né hanno la possibilità di sostenere un elevato battage pubblicitario. Più appassionati di storia e di storie che imprenditori, cercano l’equilibrio tra la quadratura dei conti e l’offerta di un prodotto apprezzabile. Nel caso di Aspromonte, è stata compiuta un’operazione di recupero del patrimonio culturale locale davvero encomiabile.
L’autore segue passo dopo passo Garibaldi e i suoi volontari nella sfortunata impresa, che inizia – è noto – con il consueto giallo all’italiana. C’era, come due anni prima (spedizione dei Mille), un tacito accordo tra il Generale e il governo piemontese? Di certo, nessuno dei protagonisti fece molto per fugare l’ambiguità. Visalli condanna senza appello la “pusillanimità” del presidente del consiglio Urbano Rattazzi, ma dà anche conto dei tentativi bonari di arrestare la marcia delle camicie rosse, portati avanti da deputati della Sinistra parlamentare, amici e commilitoni di Garibaldi (Nicola Fabrizi, Antonio Mordini, Salvatore Calvino, Giovanni Cadolini). Per la ricostruzione degli avvenimenti, lo storico eufemiese non solo si affida a diverse fonti (biografie e autobiografiche, orali, documentarie), ma le mette anche a confronto, operando un controllo incrociato necessario per distinguere l’agiografia e la retorica risorgimentale dalla verità storica. Viene così sconfessata la tesi di Alberto Mario sul presunto tradimento del sindaco di Melito, accusato ingiustamente di avere indotto Garibaldi a dirigersi sull’Aspromonte perché lì attendevano “patriotti in arme fremebondi e vettovaglia copiosa”. Un falso smentito peraltro dallo stesso Garibaldi, quando ammette di avere egli peccato di “irresoluzione”.
Francesco Guardione, Giulio Adamoli, Piero Mattigana, Giuseppe Guerzoni, Francesco Bideschini, Giacomo Durando, Jessie White Mario, Francesco Bertolini, Celestino Bianchi, Enrico Albanese, Salvatore Calvino, Giuseppe Romano Catania, Alberto Mario: testimoni che hanno tramandato nelle rispettive memorie l’epopea garibaldina (non solo i fatti d’Aspromonte), essendone stati protagonisti diretti. E poi lettere e documenti ufficiali, riportati in appendice, ma anche testimonianze orali, come quella di Francesco Melari, ufficiale medico garibaldino. Il libro si chiude con la caduta del gabinetto Rattazzi e l’amnistia concessa da Vittorio Emanuele II in occasione delle nozze tra la principessa Maria Pia e Luigi I di Braganza, re del Portogallo. Sullo sfondo, un Garibaldi eroe romantico, al quale va la simpatia dell’autore, che si sta ristabilendo dalla ferita e, seppure sconfitto, “riconsacra nel sangue” l’ineluttabilità e “la necessità di Roma italiana”.

Le spoglie di Visalli riposano al cimitero di Gioia Tauro. Sul marmo, l’epigrafe scritta dal fratello Luigi: “Qui fra i suoi riposa/ Vittorio Visalli/ figlio e nepote di Patriotti/ educatore degli educatori/ di varie generazioni/ che il glorioso passato/ di fede di azione e di martirio/ del popolo calabrese/ sottrasse a le ombre dell’oblio/ affidandolo a luce dei secoli MDCCCLIX–MCMXXXI”.

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Gli occhi dei bimbi

Chiara ha quattro anni, quasi cinque, e ha deciso di fare il mio ritratto. Guardando con attenzione si capisce che sono io, soprattutto dai capelli. E comunque si è impegnata tantissimo, bastava vedere come mi osservava attentamente prima di tracciare sul foglio i segni che riproducevano i miei lineamenti. Chi era presente, sicuramente più ferrato di me in tema di cartoni animati (ah, i vecchi e cari Supereroi!), dice che il ritratto somiglia più a SpongeBob. Non è vero, sono io. Non ci sono dubbi.

La mia cuginetta francese Eva, cinque o sei anni fa, ha immortalato l’attimo in cui il calcio diventa poesia. Per un “tocco” del genere, riprodotto fedelmente nel disegno realizzato in occasione del mio compleanno, fior di giocatori farebbero carte false.

Molti anni fa, un’altra bimba, che aveva più o meno l’età di Chiara, mi ritrasse invece con le sembianze del mio segno zodiacale e sul retro scrisse il mio nome. Chissà, magari un giorno le farò vedere il disegno che da dodici d’anni custodisco come un portafortuna, piegato dentro la carta d’identità, e lei ricorderà.

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