Addio, campione

Ricordo il dito di Pietro Mennea puntato contro il cielo subito dopo avere tagliato il traguardo. L’osservavo ogni mattina, proprio di fronte al mio lettino.

Addio, campione

Pietro Mennea è una leggenda dell’atletica leggera italiana. Campione olimpico sui 200 a Mosca (1980), campione europeo sui 100 (Praga 1978) e sui 200 (Roma 1974 e Praga 1978), campione europeo indoor sui 400 (Milano 1978).
Ha partecipato a cinque Olimpiadi: 1972, 1976, 1980, 1984, 1988 (bronzo nel 1972 sui 200; bronzo nel 1980 nella staffetta 4×400).
Bronzo sui 200 e argento nella staffetta 4×100 ai mondiali di Helsinki del 1983. Argento nei 100 e nella staffetta 4×100 agli europei di Roma del 1974; bronzo nella staffetta 4×100 agli europei di Helsinki del 1971.
Cinque medaglie d’oro alle Universiadi, sette d’oro ai Giochi del Mediterraneo, 16 d’oro ai campionati italiani.
Il suo record mondiale sui 200 metri (19 secondi e 72 centesimi), stabilito a Città del Messico nel 1979, ha resistito fino al 1996 (battuto da Michael Johnson), risultando tra i più longevi della storia dell’atletica mondiale.

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Il Papa dei poveri

A pochi giorni dall’elezione di Jorge Mario Bergoglio al soglio di Pietro, la sensazione è da tramonto di un’epoca. Ciò non implica un giudizio negativo sul pontificato di Benedetto XVI. Anzi. Quando i fatti sedimenteranno e consentiranno agli storici una valutazione obiettiva, la statura morale, intellettuale e “politica” di Joseph Ratzinger avrà un giusto riconoscimento.

Ho ripensato spesso, in queste ultime settimane, alle parole rivolte da un minaccioso Napoleone Bonaparte al cardinale Consalvi, segretario di Stato di Pio VII – “Io distruggerò la vostra Chiesa” – e alla risposta del plenipotenziario pontificio: “Maestà, sono venti secoli che noi stessi cerchiamo di farlo, ma non ci siamo mai riusciti”.
C’è dell’inspiegabile – per chi crede, riconducibile ai piani insondabili di Dio – nella capacità della Chiesa di toccare il fondo per poi rialzarsi.

Dopo gli scandali del recente passato e la rinuncia di Benedetto XVI, urgeva un cambio di marcia. Ancora è troppo presto per azzardare se il volo ci sarà, ma la rincorsa è già visibile.
I primi passi di Francesco appaiono confortanti per tutti quei fedeli che vivono con ansia e smarrimento l’attuale situazione. L’attesa era grande ed è stato sufficiente poco (o molto: dipende dai punti di vista) per fare scoccare la scintilla: la rinuncia al crocifisso d’oro e alla mozzetta rossa; la richiesta di saldare il conto alla reception della Casa del Clero; il viaggio sulla navetta vaticana – preferita alla Mercedes nera targata SCV1 – e la scoperta che da cardinale Bergoglio era solito spostarsi in metropolitana, in autobus o addirittura in bicicletta. Nei suoi gesti, sobrietà, umiltà e calore: quanto basta per suscitare un istintivo moto di simpatia, che i continui strappi al protocollo (già diventati un tratto distintivo del suo pontificato) favoriscono ulteriormente: la ricerca del contatto fisico con i fedeli, i discorsi a braccio, le battute ironiche e le confidenze personali, come la rivelazione dell’invito rivoltogli del cardinale brasiliano Claudio Hummes nel corso dello scrutinio (“non dimenticarti dei poveri”), che ha determinato la scelta del nome: “l’uomo della povertà (“come vorrei una Chiesa povera e per i poveri”), l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il creato”; o il ricorso alle parole di un’anziana signora incontrata in Argentina per spiegare il vero significato della parola misericordia, tema centrale del suo primo Angelus. E poi quell’invocazione (“pregate per me”), ripetuta sin dal giorno dell’elezione, insieme alla raccomandazione di “parlarsi gli uni con gli altri”. Ascoltare e parlare. Una soluzione nuova e antica. Come la Chiesa che ha in mente Francesco.

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Contrada Peras

A Domenico Cutrì, prolifico poeta eufemiese trapiantato ad Ala di Trento, l’amministrazione comunale guidata da Giovanni Fedele ha dedicato, circa dieci anni fa, la biblioteca comunale.
Tra i versi ispirati a Sant’Eufemia d’Aspromonte, la poesia Contrada Peras del mio paese natio a mio avviso è tra le più significative della sua produzione, non a caso contenuta anche nella “prima parte” (Poesie della memoria) della raccolta L’ultimo volo, pubblicata postuma a cura della figlia Franca, nel 1985:

In questa contrada

il gallo batteva le ore


ed i contadini del tempo

– zappa a spalla –

si recavano al lavoro.

La sera,
seduti scalzi sull’acciottolato


davanti alla porta di casa,

farfugliavano nel vuoto,

aspettando pensierosi il domani,

per chi riusciva a vederlo.

La semplicità e la circolarità della quotidianità campestre, scandita dal canto del gallo; la “fatica” della vita, fatta di lavoro, lavoro e poi… ancora lavoro; la precarietà di esistenze condannate alla solitudine della sera, prive di sogni perché il sognare presuppone la capacità di guardare oltre il traguardo più immediato e urgente, alzarsi l’indomani per continuare a lasciare nei campi, giorno dopo giorno, vigore, gioventù, anima.

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Polito e il calo dei matrimoni

Ho letto la riflessione domenicale di Antonio Polito sulla prima pagina del Corriere della Sera: “Quelle leggi antimatrimonio”.

Una panoramica a trecentosessanta gradi sulle ragioni del calo inarrestabile dei matrimoni in Italia: quarantamila in meno negli ultimi tre anni. Uno pensa: la crisi economica. Macché. Quello è l’ultimo dei problemi per l’ex direttore de Il Riformista, che infatti neanche la inserisce tra le cause del declino dell’istituto matrimoniale.
Il motivo principale andrebbe invece ricercato nella selva legislativa della materia, “una pletora di leggi e regolamenti che in Italia disincentivano a sposarsi”. Un esempio? La recente circolare dell’Università di Genova che, estendendo le norme della legge Gelmini contro il nepotismo dei baroni, proibisce l’assunzione di docenti sposati con colleghi che già lavorano nell’ateneo della città della Lanterna. Tra le invettive scagliate contro la riforma Gelmini quella del giornalista campano, seppure “indiretta”, è la più singolare. Non ci aveva pensato proprio nessuno, bisogna ammetterlo.

Un caso di scuola, prosegue Polito, riguarda invece la regolamentazione delle assunzioni in Rai. Benedetto figliolo, è notorio che la Rai è ormai il bancomat di mogli, figlie, amanti di politici e vip di turno (collaborazioni, consulenze e chi più ne ha più ne metta). Per dire: per anni gli italiani hanno stipendiato il compagno di Antonella Clerici, un animatore di villaggi turistici diventato improvvisamente autore dei programmi della procace conduttrice televisiva, sparito l’indomani della fine della storia d’amore tra i due. E sarebbe sufficiente leggere le firme dei servizi dei telegiornali e dei membri delle redazioni giornalistiche (un velo pietoso sulla carta stampata), per farsi una semplicissima domanda (“sarà figlio/a di?”) e dedicare una sonora pernacchia a Polito.

Ma forse siamo noi accecati dalla furia anticasta e inebriati dal grillismo più sfrenato, mentre quello di Polito è un ragionamento ineccepibile, che scoperchia l’ingiustizia di norme discriminatorie e inaccettabili per qualsiasi paese civile. Se lo tolgano dunque dalla testa i 12 milioni di italiani conteggiati dall’editorialista del Corriere che vivono “al di fuori della famiglia tradizionale”: è vano sperare di regolarizzare la propria situazione sentimentale, pena la rinuncia alla cattedra universitaria o alla scrivania di un tg nazionale. Notoriamente, il sogno di tutti gli italiani.

Senza contare, incalza un incontenibile Polito, tutti quei furbastri ottuagenari che non si risposano per non perdere l’uso della casa o per non dovere rinunciare all’assegno di reversibilità della pensione del defunto coniuge. Anche se qua è più indulgente, concedendo e concludendo che l’istituto giuridico del matrimonio è diventato “troppo rigido per una società tanto flessibile”.

Sulla crisi economica, sulla precarizzazione del lavoro e sulla disoccupazione giovanile, sul disastro dell’edilizia sociale neanche un accenno. Coppie di giovani senza un lavoro dignitoso, senza un alloggio, senza la speranza di un futuro migliore e per Polito sembra che il problema sia la riforma Gelmini. Troppi salotti televisivi e poca strada. La sindrome dello scollamento dalla realtà evidentemente è una patologia che non colpisce soltanto i politici.

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E si torna sempre al “che fare”

A me sembra che il Pd si stia impantanando in un’eccessiva elaborazione del lutto. Non che non ci sia stata la sconfitta, o comunque una non vittoria: “siamo i primi, ma non abbiamo vinto”, l’analisi a caldo, onesta, del segretario Bersani. E però gli altri sono già in campagna elettorale, proiettati sul futuro: al risultato del 24 e 25 febbraio neanche ci pensano più. Berlusconi minaccia di chiamare a raccolta la piazza una volta al mese e da qui in avanti il motivo lo troverà sempre, visto che l’arma del legittimo impedimento è al momento parecchio spuntata e i suoi processi invece andranno avanti.

Grillo tifa spacciatamente per il “tanto peggio, tanto meglio” (cinico, ma ineccepibile dal suo punto di vista) per continuare a monetizzare lo scontento di larga parte dell’elettorato. Inutile attendersi che i richiami al senso di responsabilità producano effetti positivi, sponda M5S. Che fare (ah, vecchio Lenin), quindi? Fare i conti con la realtà sarebbe già un utile primo passo. E la realtà ci dice: a) che nessuno ha i numeri per fare un governo; b) che il centrosinistra, pur non avendo la maggioranza nel Paese, ha la maggioranza alla camera. L’iniziativa politica non può che spettare a Bersani.

E poi? E poi, come diceva un mio vecchio professore, “a mio modesto e subordinato parere” bisogna tirare fuori gli attributi.

Mi pare che Bersani sia su questa strada e me ne compiaccio, anche perché ultimamente l’ho parecchio criticato, tanto da avere disertato le urne nell’illusorio tentativo di lanciare il mio pezzettino di segnale di insofferenza nei confronti della gestione del partito in Calabria: commissariamento infinito, candidature calate dall’alto, solito sconcio di primarie dalla dubbia credibilità.
“Scurdammoce ’o passato”: è stato un errore non chiedere di andare al voto dopo la caduta di Berlusconi; è stato un altro errore farsi impiccare a quel “senso di responsabilità” dal quale il leader pidiellino, furbo e previgente, si è smarcato, tanto da far credere che il disastro sia stato provocato da altri e non da chi ha vinto le elezioni nel 2008, governato per tre anni e mezzo, sostenuto Monti per un altro anno; è stato un errore gustarsi dal divano la campagna elettorale degli altri, incapaci di prendere posizioni nette sia perché sicuri della vittoria, sia perché troppo attenti al mantenimento dell’equilibrio tra Monti (che invece ci è andato giù pesante) e Vendola.

Si guardi al futuro, senza cedimenti né paure. Occorre recuperare il feeling con la società, ma questo è un processo che richiederà tempo e una nuova classe politica. Per il Pd potrebbe essere positivo il dato di fatto che Grillo non rappresenta tutta la protesta: l’alto astensionismo, da questo punto di vista, è eloquente.
Il senso della proposta degli otto punti “irrinunciabili per qualsiasi governo” è condivisibile: presentarsi al Parlamento con un paio di cose da fare (e speriamo che sia finalmente la volta buona per la riforma elettorale) e su quelle chiedere la convergenza delle altre forze politiche. C’è poi la chiarezza del no ad un’alleanza Pd-Pdl che sarebbe un suicidio politico e il più grande favore a Grillo. In definitiva, un governo di minoranza o comunque qualcosa che gli somigli (l’ultima moda è il governo “di scopo”). A tempo: poi, di nuovo al voto. Se non dovessero esserci le condizioni per una soluzione del genere, però, meglio andare subito alle elezioni. Ma a quel punto il Pd dovrebbe avere la forza di cambiare tutto, a partire dalla premiership (non ero fan di Renzi, ma allo stato attuale non vedo altro all’orizzonte), per evitare di essere travolto dallo tsunami.

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Le elezioni politiche a Sant’Eufemia

Il primo dato significativo e probabilmente quello più rilevante è l’astensionismo. Tra i comuni della provincia di Reggio Calabria, l’affluenza per l’elezione del Senato registrata a Sant’Eufemia ha segnato il record negativo, con il 37,13% di votanti sul totale degli aventi diritto: in cifre, sono stati 1.010 su 2.720 gli elettori che si sono presentati alle urne. Il dato relativo alla Camera piazza invece Sant’Eufemia al secondo posto, dietro la maglia nera Platì (37,38%), con il 37,59% di votanti e 1.156 elettori su 3.075 aventi diritto.

Qualsiasi tipo di considerazione sull’esito della votazione deve quindi fare i conti con questo primo dato, indice di una fortissima disaffezione e di mancanza di fiducia nei confronti della politica e delle istituzioni. La raccolta delle tessere elettorali è stato il sintomo di una malattia ben più grave, perché accanto a coloro che hanno voluto così protestare contro le politiche scellerate che a livello nazionale e regionale stanno fortemente penalizzando il territorio eufemiese (vicenda dello svincolo e discarica su tutte) si è ritrovata la stragrande maggioranza della popolazione, spontaneamente e senza che vi sia stata alcuna forma di coordinamento.

Cosicché, domenica e lunedì, quasi sette elettori su dieci sono rimasti a casa. Nonostante le 887 tessere elettorali raccolte dal movimento Cittadinanza Attiva fossero state riconsegnate al Comune per essere restituite ai cittadini e nonostante l’appello al voto giunto in molte case tramite una lettera inviata dall’assessore regionale Luigi Fedele a due giorni dal voto.

Se a questo si aggiunge un ulteriore 10% di schede nulle (52, pari al 5,14%) e bianche (45, pari al 4,45%), siamo intorno a due elettori e mezzo su dieci. Troppo pochi per cercare di analizzare l’esito dello spoglio.
Ad ogni modo, il partito più votato è stato il Pdl (339 voti e 37,13% al Senato; 412 voti e 39,61% alla Camera): un risultato positivo per l’onorevole Fedele, nel bel mezzo dell’attuale bufera politica.

Non è tsunami, ma qualche onda del Movimento Cinque Stelle è arrivata anche a Sant’Eufemia, dove il partito di Grillo è secondo partito alla Camera con 185 voti (17,78%) grazie al voto degli under 25 (al Senato è invece terzo con 130 voti, pari al 14,23%).
Non ha nemmeno confermato i 202 voti delle primarie il Pd (15,44% al Senato, con 141 voti; 152 alla Camera, pari al 14,61%), mentre non ha sfigurato Grande Sud al Senato (effetto probabile della candidatura di Giovanni Bilardi): 114 voti (12,48%), a fronte dei 46 (4,42%) raccolti alla Camera. Soltanto 79 voti al Senato per la lista Monti (8,65%), confermati alla Camera sommando i voti di Scelta civica (64, pari al 6,15%) e Unione di centro (25, pari al 2,40%). Pochi anche i consensi dati all’estrema sinistra, con Ingroia leggermente davanti a Vendola: 21 i voti per Rivoluzione civile al Senato (2,30%) e 38 alla Camera (3,65%), mentre Sel si è fermata a 19 voti al Senato (2,08%) e 23 alla Camera (2,21%).
Il resto sono percentuali da prefisso telefonico, utili soltanto per fissare la vittoria del centrodestra a livello di coalizione: 46,73% alla Camera e 51,80% al Senato; per il centrosinistra, 17,30% al Senato 18,40% alla Camera; per il centro di Monti, 9,13% alla Camera e 8,65% al Senato.

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Per questo giro, passo

Se Berlusconi ha violato il silenzio elettorale lasciandosi andare alle sue consuete farneticanti esternazioni contro la magistratura, a margine di una conferenza stampa tenuta a Milanello, dove solitamente si parla di calcio (nello specifico, il derby meneghino), ritengo che anche a me possa essere consentito di dire qualcosa sul voto di domenica e lunedì. Credo di poterlo fare soprattutto perché il mio non è un tentativo di fare proselitismo, ma soltanto l’occasione tardiva di esprimere il mio pensiero.

In realtà la mia opinione l’ho già manifestata altre volte, però vorrei essere più preciso. Non voterò, ma vado in bestia se mi si dice che questa è antipolitica. Antipolitica è non riuscire, in cinque anni, a cambiare una legge elettorale vergognosa che toglie al cittadino la possibilità di votare il candidato che l’elettore reputa più idoneo a rappresentarne interessi e passioni. E ancor di più mi fanno perdere le staffe quelli che arrampicandosi sugli specchi se ne escono una motivazione vecchia di venti anni: dare il colpo di grazia a Berlusconi.
Si può cambiare disco o dobbiamo ancora farci dettare l’agenda da un personaggio screditato in tutto il mondo, che non gode di alcuna credibilità neppure tra i suoi stessi sostenitori e che è stato quasi costretto a ricandidarsi per non fare scomparire un’area politica allo sbando da due anni?

Vorrei sommessamente ricordare che i cittadini, la loro parte, l’hanno fatta per ben due volte mandando a Palazzo Chigi Romano Prodi: non è colpa loro se una volta al governo il centrosinistra non ha fatto una legge sul conflitto d’interessi che sarebbe stata una conquista di civiltà per il Paese e ha preferito invece dedicarsi all’autolesionismo più sfrenato e inspiegabile. O peggio all’inciucio: se penso al “patto della crostata” di casa Letta non ne mangio per il resto dei miei giorni.

Ora, mi sembra giunga fuori tempo massimo l’appello a serrare i ranghi. Anche perché, fino a qualche settimana fa, non era nemmeno ben chiaro lo scenario e poco decoroso il tentativo di equilibrismo del Pd stretto tra l’alleanza con Vendola e l’occhiolino strizzato a Monti.

La mia convinzione è che il leader del Pdl sia giunto al capolinea. Però ha fatto tutto da solo, i suoi avversari non ne hanno alcun merito. A questa considerazione si aggiunge quella pragmatica sull’inutilità del mio voto. Non “nel” voto in generale, me ne guarderei bene: libertà, democrazia e voto sono le più grandi conquiste dell’antifascismo. Cerco di spiegarmi meglio: alla Camera è praticamente certa la vittoria della coalizione di centrosinistra, che conquisterà quindi il premio di maggioranza e non avrà difficoltà di sorta. I problemi potrebbero sorgere al Senato, dato che la legge elettorale “stranamente” (perché mai si dovrebbero fare le cose semplici in Italia?) assegna il premio su base regionale, non nazionale. Per cui potrebbe verificarsi l’ipotesi che in quel ramo del Parlamento la coalizione vincente non riesca ad avere la maggioranza (soluzione per la quale tifano sia Monti che Berlusconi).
La partita vera, quindi, si gioca in quelle regioni che eleggono un elevato numero di senatori. Insomma, se risiedessi in Sicilia o in Lombardia (che vengono date come le regioni in bilico e decisive per l’elevato numero di senatori che esprimono) probabilmente andrei a votare, ma farlo qua non è proprio un esercizio inutile. Non condanno chi va a votare e non chiedo che altri seguano il mio esempio, che è quanto di più sofferto mi sia mai toccato fare da un punto di vista civico. Ma il ditino puntato contro l’antipolitica no, non l’accetto.

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Il gran rifiuto

Il pensiero è corso istintivamente a Pietro Angelerio da Morrone, passato alla storia con il nome di Celestino V, il Papa scovato da Dante tra la massa delle anime degli ignavi in uno dei passaggi più celebri della Divina Commedia: “Poscia ch’io vebbi alcun riconosciuto,/ vidi e conobbi l’ombra di colui/ che fece per viltade il gran rifiuto”. Ma, ora come allora, si tratta di viltà o la rinuncia al Soglio di Pietro, proprio perché quasi inconcepibile (“dalla croce non si scende”, l’esempio recente di Giovanni Paolo II, che la croce abbracciò fino all’ultima stazione del suo personalissimo calvario), è un atto rivoluzionario, finanche eroico?

Già Petrarca era stato più indulgente e, nel De vita solitaria, aveva sottolineato come il gesto di Pietro da Morrone fosse stato “utile a se stesso e al mondo”, epilogo quasi naturale per uno spirito libero, refrattario a imposizioni e giochi di potere: un asceta dedito allo studio e alla solitudine della preghiera, gli unici veri strumenti per arrivare a Dio.

Quasi settecento anni dopo (Celestino fu Papa per sei mesi, nel 1294), sarebbe toccato a Ignazio Silone fare giustizia con L’avventura d’un povero cristiano (1968), ultimo libro pubblicato dallo scrittore marsicano prima di morire. Pietro da Morrone appare nella sua dimensione storica, quella di un eremita di origini contadine con fama di guaritore e santo, eletto Papa per una questione politica: la necessità della ratifica pontificia sull’accordo che prevedeva il passaggio della Sicilia da Giacomo II d’Aragona a Carlo II d’Angiò, a fronte della perdurante incapacità, da parte del Conclave, di eleggere il nuovo pontefice, nonostante fossero trascorsi più di due anni dalla morte di Niccolò IV. Una soluzione di compromesso, considerata vantaggiosa per l’età (ottantacinque anni), ma soprattutto per l’estraneità di Pietro da Morrone agli ambienti della Curia, circostanza che avrebbe consentito agli alti prelati di continuare a coltivare i rispettivi orticelli e ad accrescere potere e ricchezza. Calcoli sbagliati, evidentemente. Quando infatti si accorse che i cardinali utilizzavano in maniera illegittima il suo nome e le pergamene papali in bianco, Celestino V abdicò per “non offendere la propria coscienza”. Dopo di che fu fatto rinchiudere dal suo successore (Bonifacio VIII) in un castello a Fumone, nei pressi di Anagni, e lì morì nel 1296.

In Celestino, ci dice Silone, la coscienza viene prima del potere. Considerazione che probabilmente oggi vale anche per Benedetto XVI, travolto da una delle più grandi crisi abbattutesi sul cattolicesimo in duemila anni di storia. Il carattere rivoluzionario del gesto pone il paradosso della “relativizzazione” della Chiesa per mano di colui che più di tutti si è scagliato contro la “dittatura del relativismo” (Missa pro eligendo romano Pontefice, 18 aprile 2005), ma non sorprende. Nella Via Crucis del 2005 l’allora cardinale Ratzinger aveva infatti denunciato con forza la “sporcizia” che c’è nella Chiesa, “una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti”.
La superficialità con cui ci si esercita nel confronto tra Benedetto XVI e Giovanni Paolo II non meriterebbe alcun commento. Senza volere qui esprimere giudizi di valore, si consideri soltanto quanto il corpus teologico del pontificato di Wojtyla debba alla riflessione del cardinale Ratzinger, sin dal 1981 prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede: un dato che aiuta a comprendere come tale contrapposizione sia illogica e banale.
Spesso la realtà è più semplice di quanto si creda. Vatileaks, scandali finanziari, vicenda dello Ior, corvi nel Vaticano, pedofilia nel clero: la barca è davvero sballottata dalle onde e solo un gesto dirompente poteva richiamare l’attenzione sulla drammaticità del momento che sta vivendo la Chiesa.
“Nascosto al mondo” Benedetto XVI dedicherà gli ultimi anni della sua esistenza alla preghiera e agli amatissimi studi che era stato costretto ad accantonare, con dichiarato rammarico, in un silenzio che fuori dal suo rifugio potrebbe risultare assordante.

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Le parole di don Italo

Sorprende l’attualità delle parole di don Italo Calabrò (26 settembre 1925 – 16 giugno 1990) nel video che riprende un incontro tenuto dal parroco di San Giovanni di Sambatello con gli studenti del liceo scientifico “Vinci”, più di venti anni fa.

Don Italo è stato tante cose: collaboratore dell’arcivescovo di Reggio Calabria Giovanni Ferro e del successore Aurelio Sorrentino, presidente della Caritas Diocesana, vicepresidente della Caritas Italiana, fondatore della Piccola Opera Papa Giovanni e del Centro Comunitario Agape. Prete antimafia, ma non “professionista” dell’antimafia, secondo la calzante definizione di Mimmo Nasone nella presentazione del saggio biografico edito da Rubbettino nel 2007 (Don Italo Calabrò. Un prete di fronte alla ’ndrangheta, a cura di Domenico Nasone e Mario Nasone, con una prefazione di don Luigi Ciotti).

Una vita dedicata alla lotta alla povertà e all’emarginazione: “i poveri sono i nostri padroni”, la stella polare del suo cammino; “amate tutti coloro che incontrate sulla vostra strada, nessuno escluso, mai!”, la raccomandazione finale contenuta nel suo testamento spirituale.

Don Italo è stato grande educatore e punto di riferimento dell’associazionismo cattolico reggino per diverse generazioni. Potrebbe suscitare stupore l’invito alla lotta rivolto agli studenti (L’obbedienza non è più una virtù, aveva scritto don Lorenzo Milani anni prima, suscitando scalpore prima di diventare autore di riferimento per il movimento del ’68 con Lettera a una professoressa), ma lotta e responsabilità dovrebbero rappresentare i cardini dell’impegno dei giovani (e non solo dei giovani) nella società.
Lotta non violenta, la più difficile da praticare perché comporta la formazione di una coscienza politica. E assunzione di responsabilità, fondata sul protagonismo di chi si espone in prima persona, senza attendere l’iniziativa altrui: “si può dare la delega per tutto… non esiste ancora l’istituto della delega perché un altro viva al posto tuo”.

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Segnali

Nei piani alti della politica dovrebbero preoccuparsi del fatto che in una domenica di febbraio – dopo un solo incontro pubblico e con la limitata propaganda assicurata da un manifesto affisso per le vie del paese – un movimento sorto dal nulla è riuscito a raccogliere circa 650 schede elettorali da consegnare al prefetto della provincia. Chi frequenta, ha frequentato, vorrebbe frequentare quelle stanze, farebbe bene a porsi qualche domanda, prima che sia troppo tardi. Prima che l’antipolitica trascini a valle tutto.

Il segnale lanciato da Sant’Eufemia ha una lettura elementare e seria. “Non ci fidiamo più di nessuno”, sembrano dire i tanti cittadini in fila davanti al gazebo di “Cittadinanza Attiva” con la tessera elettorale in mano. Tessere che saranno depositate presso un notaio fino al prossimo appuntamento (domenica 10 febbraio) e poi portate in prefettura.

Un grido di dolore composto ma durissimo. Condivisibile o meno, perché il diritto di voto è l’essenza della democrazia e rinunciarvi non è decisione che si assume a cuor leggero. Ma sbaglierebbero coloro che sottovalutassero un gesto tanto simbolico quanto drammatico. Che avviene in un preciso momento storico. A un paio di giorni, cioè, dai titoli roboanti di giornali e manifesti per la “vittoria” nella battaglia per “riavere” lo svincolo autostradale, e dopo il sequestro della discarica di contrada “La Zingara” effettuata dai carabinieri del Nucleo operativo ecologico.

Perché cos’altro può voler dire, se non che in pochi sono disposti a dare credito alle parole del presidente dell’Anas Pietro Ciucci (“lo svincolo si farà nei prossimi cinque anni, previa presentazione e finanziamento di un nuovo progetto”)? Cos’altro può voler dire, se non che a proposito della discarica si teme sempre il possibile colpo di mano del potere?

È tutto qua il nocciolo della questione: rabbia, delusione e ritiro di ogni tipo di delega. La politica è fuori, alla finestra, probabilmente spiazzata dall’exploit del movimento. Dato che conferma, se mai ce ne fosse bisogno, quanto sia ormai profondo il solco che divide i politici di professione dalla società civile e quanto sia inadeguato un sistema di rappresentanza politica che non rappresenta più nessuno e che è funzionale alla sopravvivenza di un ceto politico autoreferenziale.

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