Prima la politica

Come spesso accade per le cose del partito democratico, le primarie che avrebbero dovuto eleggere il nuovo segretario regionale in Calabria hanno registrato una coda inattesa. Neanche tanto, a dire il vero, considerato che già alla vigilia era data come altamente probabile l’eventualità che nessuno dei quattro candidati raggiungesse la maggioranza assoluta dei delegati. Cosa che puntualmente si è verificata. A norma di regolamento, la palla passa all’Assemblea. Non senza qualche coda polemica. Magorno contro Canale. Con il primo che si è fermato a soli due delegati dai 151 necessari per avere la maggioranza. E con il secondo che può a ragione ritenersi soddisfatto. Checché se ne dica, dall’altra parte c’era schierata la stragrande maggioranza dell’establishment dei vecchi democrats, politici di lungo corso ritrovatisi incidentalmente renziani a braccetto, anche fuori dalle insegne di partito, con coloro che più hanno da temere dall’affermazione di uomini e metodi nuovi: Sandro Principe, Marco Minniti, Mario Pirillo, Agazio Loiero, Luigi Incarnato, Peppe Bova, Antonio Borrello, truppe cammellate delle più svariate fogge. Avere impedito a Magorno una vittoria al primo turno, nonostante l’impari lotta contro questi vecchi volponi, per Canale è già una vittoria. L’altro dato a mio avviso confortante riguarda la provincia di Reggio Calabria, dove Canale (54%) ha stracciato l’avversario (45%) nonostante lo sforzo collettivo compiuto da tutti i big (esclusi Nino De Gaetano e Sebi Romeo) per contrastarne l’affermazione. Merito della novità della proposta, colta in particolare da quei giovani che hanno permesso gli exploit di Rosarno, Palmi, Bagnara, Siderno e, a leggere bene le situazioni, anche Gioia Tauro. Il futuro è segnato. Ritorni al passato, almeno in provincia di Reggio, non ce ne saranno. E questa è una prospettiva davvero interessante. Una prima, vera, vittoria.

Ora occorrerà ricomporre i cocci della campagna elettorale, stemperare i veleni di situazioni non limpidissime (Diamante e Belvedere Marittimo), ricercare un’unità di intenti che è indispensabile per affrontare con fiducia le prossime sfide: Europee, Comunali, Regionali.

Il 22 febbraio alle 16.30 Canale riunirà presso l’Hotel Euro Lido di Falerna i delegati, gli amministratori, i segretari di circolo e i sostenitori della sua lista per elaborare la proposta politica da presentare all’Assemblea. Un’altra storia deve necessariamente iniziare dai contenuti, non dalla conta congressuale. Da qui lo slogan #primalapolitica con il quale Canale ha lanciato l’evento.

Come circolo “Sandro Pertini” di Sant’Eufemia, cercheremo di dare il nostro piccolo contributo anche in questa occasione. L’abbiamo fatto giorno 16 con i 130 voti attribuiti a Canale, per i quali grande merito va ai compagni e amici Mario Surace, Enzo Fedele, Peppe Gentiluomo e Pasquale Napoli. E speriamo di continuare a farlo nelle sedi deputate, a partire dal coordinamento della Piana. Perché o la politica parte dal basso, o è altro.

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Quando Montalto in Aspromonte diventò un vulcano

Non è il racconto di un folle, né la bizzarra ipotesi di quei programmi televisivi che campano sulla credulità umana e spacciano per verità panzane clamorose, “ovviamente” occultate per ragioni oscure che solo la Cia conosce. Non è neppure uno scoop giornalistico pompato da farci prime pagine per giorni e giorni. È scritto nero su bianco; anzi nero su ocra, il colore dei telegrammi di fine Ottocento: in quel tempo, l’Aspromonte era un vulcano in attività.

Sono trascorsi appena due mesi dal terremoto che il 16 novembre 1894 sconquassò il circondario di Palmi, provocando rovine e morti. La Madonna del Carmine aveva fatto il miracolo, in seguito riconosciuto dalla Chiesa, e aveva limitato a otto le vittime (circa 300 i feriti) nel capoluogo del circondario, epicentro del sisma per sedici interminabili secondi alle 18.55. Tutt’attorno macerie e desolazione: abitazioni rase al suolo o rese inabitabili, 98 morti (48 soltanto a San Procopio), il terrore negli occhi dei sopravvissuti, molti dei quali avrebbero perso la vita quattordici anni più tardi. A Sant’Eufemia, tra le sette vittime la più anziana è la novantacinquenne Carmina Zagari; la più giovane Maria Antonia Cutrì, un fiore reciso a soli tre anni. Oltre 200 feriti, 212 abitazioni crollate, 326 pericolanti, 432 gravemente danneggiate e 188 lesionate in modo lieve. E la paura che potesse accadere nuovamente alimentata da scosse continue, per giorni, settimane, mesi.

I terremotati, alloggiati in baracche tirate su con il contributo dei comitati sorti in tutta Italia, hanno ormai orecchie sensibili. A ogni scossa si riversano sulla strada e, affidata l’anima a Dio, alla Madonna e ai Santi, si accalcano pericolosamente all’interno delle chiese, incuranti della tragedia che potrebbe provocare il crollo di strutture già danneggiate. A nulla valgono le raccomandazioni del prefetto, veicolate dal commissario per la gestione dell’emergenza Michele Fimmanò, dal prosindaco Luigi Bagnato e dal presidente della commissione per le cucine economiche, l’arciprete Rocco Cutrì.

Ancora un anno dopo il disastro, il maggiore del genio civile Angelo Chiarle, sulla scorta del parere espresso dal direttore dei lavori di ricostruzione, l’ingegnere Gaetano De Blasi, suggerisce al prefetto di mantenere l’ordine di chiusura delle chiese, perché forti scosse avrebbero potuto causare una “catastrofe mai vista”: “meglio affrontare impopolarità che accusa imprevidenza ed imprudenza”, la saggia conclusione del graduato.

Tensione, suggestione e ignoranza sono gli ingredienti perfetti per sfornare la bufala dell’anno. Che puntualmente arriva, per quanto inconsapevolmente, all’inizio del 1895. Il 24 gennaio tale Greco, da Sant’Eufemia, telegrafa al prefetto: “Contadini, reduci monti, esterrefatti riferiscono apertura cratere Montalto eruttante colonna fumo rosseggiante. Procederemo ispezione, riferirovvi. Avvisate Comitato”.

Il giorno dopo lo stesso Michele Fimmanò, non un cafone analfabeta bensì il colto borghese con tanto di laurea conseguita presso il prestigioso ateneo partenopeo, prende in considerazione l’ipotesi assurda che l’Aspromonte nascondesse nel proprio ventre un vulcano: “Seppi stamane via Delianuova che tre contadini colà arrivati narravano delle cime di monti prospettanti Montalto aver osservato che dalla sommità di esso monte veniva fuori un enorme colonna fumo rosseggiante simile ad un pino piegantesi a terra col vento, e che poi si raddrizzava. I tre contadini tornavano Delianuova esterrefatti. Non le ho telegrafato perché fenomeno fumo simile ad un pino, forma osservata Plinio anno 79 Cristo, Vesuvio, mi ha sorpreso ed ho disposto esplorazione domani facendola intesa risultati”.

Una voce incontrollata che innesca un tam-tam inarrestabile. Il rischio di una nuova Pompei tutt’altro che remoto. Esploratori vengono mandati a Montalto, ma la quantità di neve caduta è tale da rendere impraticabile un sopralluogo.

I fenomeni di psicosi collettiva svaniscono però con la stessa rapidità con la quale si manifestano. E così noi non sapremo mai cosa fosse il “rombo enorme mugghiante accompagnato vivo bagliore” annotato dai volontari inerpicatisi fino a Montalto, nel lontano gennaio del 1895.

*Articolo pubblicato su ZoomSud il 14 febbraio 2014: http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/63898-quando-l-aspromonte-divento-un-vulcano.html

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A cento anni dalla Grande Guerra: un’idea… se siete d’accordo

Ho assistito ieri pomeriggio alla conferenza “Il dovere della memoria. Fonti per la storia della Grande Guerra”, organizzata dall’Archivio di Stato di Reggio Calabria, che segna l’avvio di una serie di attività didattiche e formative promosse dalla Direzione generale per la valorizzazione del patrimonio culturale e dal Sed (Centro per i servizi educativi del museo e del territorio) – Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo.

Obiettivo del progetto è la scoperta e la valorizzazione di materiale di interesse storico (documenti, reperti, testimonianze sugli aspetti culturali, sociali, economici della prima guerra mondiale), utile per aggiungere tasselli di conoscenza alla “inutile strage”, secondo la celebre definizione di Benedetto XV.

All’esaustiva presentazione del progetto da parte del direttore dell’archivio, Mirella Marra, è seguito l’intervento di Giovanna Manganella, discendente del generale Aurelio Bondi, comandante del XVI Corpo d’Armata Artiglieria e Primo aiutante di Campo del Duca D’Aosta, che ha messo a disposizione dell’archivio e della collettività reperti di grande interesse: stampe, fotografie, frammenti di proiettili e bombe, il cannocchiale da campo e il bastone dell’avo, una mazza ferrata utilizzata dagli austriaci per finire i soldati italiani agonizzanti.

Subito dopo, lo storico reggino Agazio Trombetta ha espresso le sue prime considerazioni sullo studio del fondo documentario che qualche anno addietro i Vigili del Fuoco di Reggio Calabria versarono all’archivio di Stato.
Alla fine della conferenza ho scambiato qualche impressione con la dottoressa Marra e con il professore Franco Arillotta, presente e a al solito molto garbato e prodigo di consigli.

Che dire? Un pensierino mi è sorto e anche l’idea di come procedere. Tornerò nei prossimi giorni per capire meglio come articolare uno studio su ciò che potrebbe essere interessante per Sant’Eufemia d’Aspromonte. Sarebbe però molto bello se chi è in possesso di materiale storico relativo alla prima guerra mondiale (testimonianze, documenti o reperti) lo mettesse a disposizione della collettività e, ovviamente, a disposizione anche dello studio che ho in testa.

Insomma, io l’ho detto…

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Con Massimo il Pd cambia Canale

Alle primarie per l’elezione del segretario regionale del partito democratico, domenica 16 febbraio, voterò per Massimo Canale. Una decisione, va detto, non influenzata da logiche geografiche o di campanile. Voto Canale non perché dei quattro in lizza è l’unico candidato proveniente dalla provincia di Reggio Calabria. Se così fosse, una banale scelta di opportunità e non di merito, si ricadrebbe negli errori del passato, nel localismo e nel personalismo che hanno determinato quattro devastanti anni di commissariamento. La ragione fondamentale è un’altra ed è serissima, perché ha a che fare con il futuro del Pd in Calabria, con il progetto di una nuova visione del rapporto tra partito e società.

La candidatura di Canale archivia antichi steccati correntizi e di campanile, non soltanto perché sostenuta trasversalmente da renziani, cuperliani e civatiani. Ciò che la distingue dalle altre proposte è l’apertura a tutta un’area storicamente di sinistra ma non iscritta al Pd, spesso molto critica nei confronti dei democrats, che in Canale vede il riferimento alto e rappresentativo dei movimenti, dell’impegno civico, della contrapposizione frontale al “modello Reggio”. D’altro canto, Canale ha già ampiamente dimostrato di riuscire ad intercettare consensi fuori dal recinto partitico, come attesta quel 10% in più ottenuto rispetto alle liste che sostenevano la sua candidatura a sindaco contro Arena. Non un grigio burocrate di partito, bensì l’espressione più avanzata della lotta politica e culturale contro la gestione scopellitiana del potere, che nelle primarie “aperte” (alle quali, cioè, potranno partecipare anche i non iscritti al partito) può ritrovare una buona occasione per manifestarsi.

Canale rappresenta ciò che fino ad ora il Pd non è mai stato. L’entusiasmo e la spinta di una massiccia componente giovanile nascono proprio dall’aspettativa di un partito aperto a quanto di meglio offre il territorio. Nascono dalla sensazione di avere finalmente aperto le finestre delle segreterie per farvi entrare aria fresca. Nascono dalla promessa di un nuovo protagonismo agli amministratori locali, perché un partito che si ricorda di esistere solo quando c’è da racimolare qualche voto per questo o per quel candidato non ha ragione di esistere.

Infine, non va sottovalutato un aspetto solo apparentemente secondario. Il partito democratico calabrese, lacerato dai veti incrociati e dalle primarie fasulle del passato, umiliato dalla lotta fratricida per lo strapuntino personale a costo della mortificazione delle energie locali, per chiudere con quella stagione e rilanciarsi ha bisogno di un segretario a tempo pieno. Come Massimo Canale, che ha escluso una sua candidatura nei prossimi appuntamenti elettorali ed ha assicurato l’impegno esclusivo per la cura del rapporto con il territorio e l’ascolto delle sollecitazioni della base, nell’ottica di un partito che sia realmente cinghia di trasmissione tra società e istituzioni, periferie e centro.

Domenica 16 febbraio, dalle ore 8.00 alle ore 20.00, il circolo di Sant’Eufemia “Sandro Pertini” allestirà il seggio elettorale “Sant’Eufemia-Sinopoli-San Procopio” nella sala della biblioteca comunale, all’interno del palazzo municipale.

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Hooligans a cinque stelle

Non è moralismo condannare senza equivoche strizzatine d’occhio la violenza verbale dei grillini e il loro determinante e sistematico contributo all’imbarbarimento del dibattito politico. “Napolitano boia”, “boia chi molla”, tagliole e fischietti, il tentativo di aggredire fisicamente Laura Boldrini, “non torneremo in Aula pacificamente”, il Parlamento trasformato nella peggiore curva da stadio. Atteggiamenti irresponsabili e pericolosi. Perché nel “gioco” democratico, la forma diventa sostanza, specialmente nelle sedi istituzionali, luoghi “sacri” che non conoscono stanche liturgie, per usare una terminologia storicamente cara a chi, qui o altrove, ha sempre puntato a fare saltare il banco.

Nella House of Commons ai parlamentari inglesi non è consentito oltrepassare la linea tracciata sul tappeto di fronte ai propri banchi, né parlare direttamente ai colleghi, ai quali occorre invece rivolgersi in terza persona. Stranezze d’Oltremanica? No, regole della più antica democrazia parlamentare del mondo, solida anche per questi “dettagli” apparentemente formali.
Ancora: impedire di rilasciare dichiarazioni al capogruppo del partito democratico Roberto Speranza è squadrismo. Chi minimizza la violenza dell’azione dei cinquestelle si assume la responsabilità di avallare pericolosamente lo spostamento in avanti del limite oltre il quale la convivenza civile viene messa a repentaglio. E spostando spostando, per dirla alla Calamandrei, ci si ritrova senz’aria.
Sul piano concreto dell’azione politica, è bastato un anno di Parlamento per svelare il trucco della protesta grillina, che è essenzialmente una pratica onanistica.
Non è un caso che la tensione abbia raggiunto l’acme proprio nei giorni in cui si va profilando l’accordo su legge elettorale e riforma dello Stato. Che personalmente non apprezzo: ma il poco, alla fine, è meglio del niente, soprattutto quando la contrapposizione ha come esito la paralisi. All’ordine dato dall’approvazione di norme condivise dalla maggioranza delle forze politiche, i pentastellati contrappongo il disordine della bagarre. Perché sono stati costretti ad inseguire e perché sono in difficoltà quando gli altri “fanno”, pur con i limiti da molti evidenziati.
Respinto al mittente ogni invito a collaborare nella stesura delle riforme, per il movimento di Grillo e Casaleggio diventa strada obbligata il disco rotto “VE NE DOVETE ANDARE!”. Più che una linea politica, l’alibi per nascondere la propria inconcludenza.

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Piccoli comuni e rappresentanza nel ddl Delrio

L’atmosfera da guerra santa contro gli sprechi dei partiti e delle istituzioni rende impopolari considerazioni che non si concludano con il sacro richiamo alla cesoia. D’altronde, il vaso di Pandora scoperchiato da giornali e magistratura giustifica il crucifige urlato quotidianamente dalle Alpi alla Trinacria. La parola d’ordine è “tagliare i costi”. Un mantra, salvo poche eccezioni.

Massimo Acquaro osserva su Zoomsud che “l’assottigliamento della rappresentanza politica non è un bene in sé, al di là della facile demagogia contro la casta ed i suoi costi”. Il tema dell’articolo, spinosissimo, è quello della riduzione del numero dei consiglieri regionali in Calabria, che il governo Monti ha fissato a trenta e che il consiglio regionale, con un gesto di sfida, ha elevato a quaranta. Sulla questione, per l’11 febbraio è attesa la decisione della Corte Costituzionale.

Altra panacea di tutti i mali, l’abolizione delle province: per ragioni storico-politiche, preferirei l’abolizione delle regioni e il mantenimento delle province (ma questo è altro discorso). Sul disegno di legge “Delrio” (“Disposizioni sulle Città metropolitane, sulle Province, sulle Unioni e fusioni di Comuni”), approvato dalla Camera il 21 dicembre 2013 (AC 1542) e attualmente in corso di esame nella Commissione “Affari costituzionali” del Senato (AS 1212) pende il parere negativo della Corte dei Conti, in quanto la riforma non rispetterebbe i criteri della “spending review”. Un giudizio accolto con favore dai sostenitori del mantenimento dell’ente intermedio, che però non dovrebbe impedire l’approvazione di un provvedimento per la verità poco chiaro proprio per quanto riguarda abolizione delle province, istituzione delle città metropolitane e ripartizione delle funzioni. Il ddl approvato dalla Camera assorbe infatti tre distinti atti: l’AC 1408, “disposizioni concernenti la composizione dei consigli provinciali e disciplina dell’elezione del presidente della provincia e del consiglio provinciale”; l’AC 1737, “modifiche al testo delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (…) e altre disposizioni concernenti i comuni di minore dimensione demografica, l’esercizio associato delle loro funzioni, nonché le unioni di comuni e la funzione dei medesimi”; l’AC 1854, “disposizioni transitorie in materia di province e città metropolitane”.

A mio avviso è invece una buona notizia, non un cedimento a interessi di parte, l’accoglimento delle proposte avanzate dall’Uncem in ordine alla rappresentanza dei piccoli comuni sintetizzate dall’emendamento “ripristina democrazia” confluito nell’articolo 21 del ddl, che stabilisce l’ampliamento dei consigli comunali: oltre al sindaco, dodici consiglieri e quattro assessori nei comuni compresi tra 3.000 e 10.000 abitanti; dieci consiglieri e due assessori nei comuni fino a 3.000 abitanti. Una sconfessione della furia iconoclasta dei governi Berlusconi (legge 42 del 26 marzo 2010) e Monti (dl 138 del 13 agosto 2011) che produsse il taglio o l’eliminazione degli assessori (abolizione delle giunte comunali nei comuni inferiori a 1.000 abitanti) e profonde sforbiciate alla composizione dei consigli comunali. Per citare l’esempio che riguarda Sant’Eufemia e i comuni con popolazione compresa tra 3.000 e 5.000 abitanti, la riduzione (da sedici) prima a dodici, poi a sette, del numero dei consiglieri comunali.

Il sale della democrazia è la partecipazione. Il male, la compressione della rappresentanza di persone, interessi e territori. Compito della politica è impedire che nel lavandino finiscano il bambino (rappresentatività) e l’acqua sporca (sprechi e privilegi).

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Peppe, un buono

È morta una persona buona. Non servono giri di parole. Bastava leggere la commozione negli occhi di chi neanche respirava mentre il carro funebre faceva il suo ingresso nel camposanto.
Si fanno filosofie, sulla vita e sulla morte. E poi scopriamo, sempre, che è tutto molto più semplice dei nostri ragionamenti. Perché i sentimenti hanno una vita propria, erompono con la forza della verità. E la verità è che Peppe Panuccio era una persona semplice, che amava e che per questo era amata. La morte è una rivelazione, mette in chiaro tutto.

Non doveva finire così. Ma forse ha ragione uno dei suoi cinque figli quando dice che la montagna, che Peppe adorava, l’ha chiamato a sé. Incidente sul lavoro, ennesima “morte bianca” di questa guerra che quotidianamente miete vittime innocenti nei cantieri. E proviamo dolore autentico, amarezza per questa vita spezzata a 56 anni. Per questo lavoratore onesto e instancabile.
Non è una frase di circostanza: “era un grande lavoratore”. Non è retorica perché la sua vita “era” il lavoro. Madre natura aveva donato a Peppe la forza di un toro, due braccia possenti e un cuore d’oro. La sua lotta quotidiana e dignitosa per un pezzo di pane è il riscatto di chi non ha niente, ma non per questo si piange addosso. È l’esempio davanti al quale inchinarsi, riverenti.

Tra di noi abbiamo ricordato quando, prima dell’arrivo del muletto, scaricava i tir della concime portando sulle spalle fino a tre sacchi da mezzo quintale; quella volta che sollevò una Fiat 127 e la spinse in avanti come una carriola; quell’altra che sfondò il tavolino nello sforzo finale e vincente di un braccio di ferro; tutte le serate in piazza, alla fine della festa della Madonna del Carmine o di qualche manifestazione dell’associazione Sant’Ambrogio: attorno a una panchina, lui con l’organetto e Mimmo Comandè con il tamburello, e via di tarantella, la sua grande passione.

Ma Peppe non era solo questo. Peppe era la sensibilità di chi si commuove fino alle lacrime di fronte all’ingiustizia e alla sopraffazione, era la consapevolezza di chi sa che il rancore e la vendetta non portano da nessuna parte, anche se ti ammazzano il padre per un bicchiere di vino quando sei ancora in fasce, costringendoti a un’infanzia di stenti.
Era quella frase che ripeteva spesso e che ora, nella sua disarmante semplicità, diventa insegnamento: “ndamu a voliri beni”, dobbiamo volerci bene.

*Un ringraziamento a Filippo Lombardo per la gentile concessione della fotografia

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Reggio è un blues

Reggio, “per noi che stiamo in fondo alla campagna”, è il terminale di un cantiere sempiterno, il luogo in cui si arriva o dal quale si parte, ospedali, un gelato sul lungomare, le vetrine del corso, i film al cinema, l’impossibilità di trovare un parcheggio. Non riusciamo a definirla una volta per tutte, perché tende a sfuggirci e perché una diffidenza reciproca crea distanze e pregiudizi.

Soltanto l’epopea della Reggina in serie A è riuscita a farci sentire un unico popolo. Per il resto, noi della provincia siamo quelli che vengono a Reggio e fanno casino: il volume della radio anticipa il nostro arrivo, rimbomba talmente forte dentro gli abitacoli che ci impedisce di ascoltare l’anima più profonda della città. E se anche ci riuscissimo, non capiremmo. Perché noi siamo spremuntari. Voi invece avete la puzza sotto il naso e non ci date confidenza, però per una cassa di patate o una pezza di formaggio vendereste anche le vostre madri. Perché siete riggitani, che è cosa ben diversa dall’essere “reggini”. Stereotipi, naturalmente: durissimi da estirpare.
Per comprendere una città, bisogna farsela raccontare da chi la ama, anche quando è dispettosa o, addirittura, fedifraga.
Di Reggio “bella e dannata” è intrisa ogni parola di Antonio Calabrò, scrittore e punta di diamante del giornale online “ZoomSud”, sul quale negli ultimi due anni sono apparse le trenta storie di Reggio è un blues (Disoblio edizioni).

Amare non significa essere ciechi o nascondere la realtà. Amare significa non arrendersi al declino e al facile qualunquismo, grattare la storia per togliere la polvere dell’oblio da fatti, sentimenti, uomini e donne, trarre insegnamento da vicende minime ma emblematiche. Un lavoro che è una dichiarazione d’amore sia quando Calabrò, da “indagatore della storia”, riporta alla luce vicende dimenticate o sconosciute: il corteo antifascista in piena crisi Matteotti, alla diffusione della falsa notizia della caduta di Mussolini; l’episodio dell’affondamento dell’incrociatore “Pola” al largo di Capo Matapan, nel 1941; il racconto picaresco di Antonio “Gabba Dio” e l’irriverente aneddoto con protagonista Riccardo Cuor di Leone, il “re ladro di polli” . Sia quando usa l’arma dell’ironia per mettere in guardia del gorgo che ci sta risucchiando: siamo più soli e più arrabbiati, in un mondo dominato dall’egoismo e dall’edonismo. Sia quando la cronaca prende il sopravvento, con il dramma quotidiano della crisi economica, le vite stentate degli ultimi, l’orrore della morte.

Reggio è un blues è amore, nostalgia, delusione, dolore. Ma è anche un messaggio di speranza. Reggio non può essere “quella” che incendia il Museo dello strumento musicale (“lo stesso fuoco della biblioteca di Alessandria, lo stesso fuoco dei roghi nazisti”). Reggio è la fiumana di gente che reagisce riversandosi nelle strade, che suona, balla e canta per non darla vinta alla barbarie. Perché Reggio è un blues, la musica del riscatto.

*Articolo pubblicato su ZoomSud il 16 gennaio 2014: http://www.zoomsud.it/index.php/commenti/62543-recensione-reggio-e-un-blues-di-antonio-calabro.html

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Farewell, Vinny

Da sinistra: Ninello Parisi, Enzo Fedele,
Luis Forgione e Enzo Condina

A metà degli anni Ottanta le ginocchia dei ragazzi più grandi di cinque-dieci anni sono state, per me e per i miei fratelli, un posto in prima fila. Da quella prospettiva abbiamo visto scorrere molta vita dentro al bar Mario. Gambe di giovani che poi hanno preso il volo, volti familiari trasformati dallo scorrere inesorabile delle stagioni. Alcuni mai più rivisti, se non nel ricordo di un tempo “mitico”.
Così è per Enzo Condina, divorato dal cancro in faccia all’Atlantico qualche giorno fa, a neanche 46 anni.

Flash-back improvvisi restituiscono la smania di crescere di Enzo “u mericanu” (o “Loredana”), figlio unico di genitori anziani. Un’educazione quasi spartana che prevedeva, tutti i giorni, un’ora di solfeggio con il flauto dalle 15 alle 16. Per la gioia dei suoi coetanei, “costretti” ad assistere alla performance seduti sul divano, se passavano da casa sua con l’intenzione di trascinarlo in qualche scorribanda.
Un’ansia repressa quando, all’inizio sotto stretta osservazione del padre, cominciò a dare i primi colpi di stecca. Trattenuta sempre più a fatica se Ninuzzu “u micuneddu” gli faceva notare che era ora di fare ritorno a casa, subito dopo avere consultato sul giornale la quotazione del dollaro. Addio “bazzica”, addio “italiana”. Certo, quando marinava il liceo insieme a qualche compagno poteva stare tranquillo: la sala biliardi diventava il paradiso terreno.

Crescere ed essere uguale agli altri ragazzi. La morte del padre fu un evento devastante, perché gli procurò una libertà mai avuta prima e la sensazione di essere finalmente padrone della propria vita. Via il “caschetto” da collegiale, sostituito da una più matura “mascagna”. Via anche un po’ di vecchi amici. E telefonate della madre a casa di Mario nel cuore della notte, per sapere che fine avesse fatto il figlio a saracinesca del bar abbassata.
Tornare in America, ecco cosa bisognava fare. E così fu. Altro giro, altra puntata per “Vinny”. Come nei tanti casinò di Atlantic City (New Jersey), dove entrò da orchestrale (si era diplomato al Conservatorio di Reggio Calabria e, oltre al flauto, suonava pure il pianoforte) e che continuò a frequentare da giocatore professionista di poker.

Enzo e Louisa nel giorno del matrimonio
(fotografia fornita da Marcello Ragonese)

Il matrimonio con Louisa Governali e notizie sempre più frammentarie da un quarto di secolo, fino a quella scioccante di qualche mese fa: “Enzo u mericanu ha un tumore: gli resta poco da vivere”.
Ogni volta che qualcuno ci lascia, è un pezzo di noi che va via. Anche se sono state meteore che hanno tracciato il nostro cielo per poco tempo.
Perché la vita è così. Ci si perde. Ognuno imbocca una strada e chissà dove porterà. Ci ricordiamo della vita, delle vite, quando irrompe la morte. È come fare l’appello a scuola, ma ogni nome è un volto in meno, l’aula sempre più vuota.

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Le colpe dei figli ricadano sui padri

Vergogna, indignazione, amarezza. Sentimenti che esprimono rabbia per l’ennesimo atto di barbarie inferto, da noi stessi, alla nostra terra. Perché è comodo attribuire sempre al prossimo la responsabilità dei disservizi che quotidianamente tutti siamo in grado di constatare, con conseguente e sacrosanta irritazione. Dalle guerre puniche in poi, è sempre colpa degli altri. Sarebbe ora di smetterla con i piagnistei e cominciare a chiedere cosa facciamo noi per rendere migliore la terra in cui viviamo. Cosa fanno i nostri figli. E quanta responsabilità hanno famiglie e collettività per i comportamenti sbagliati di questi ragazzi.

Abbiamo trasporti da terzo mondo, su strada e su linea ferrata. D’accordissimo. Posti raggiungibili solo mettendo a rischio l’incolumità personale e con tempi biblici. Un’economia asfissiata dalla lentezza delle comunicazioni. Ci lamentiamo per le corse soppresse, per quelle che non ci sono e che andrebbero invece introdotte, per gli autobus che non funzionano. Giustamente.

Poi però, sempre a casa nostra, periodicamente i pullman vengono devastati: vetri sfondati, sedili divelti o, addirittura, qualche mezzo avvolto dalle fiamme, a rischiarare il cielo stellato. Ogni tanto, qualche conducente intimidito da chi non vuole pagare il biglietto o si è sentito offeso da un rimprovero “inopportuno”. Sempre omini sono, anche a quattordici o quindici anni: non è che il conducente può alzare la voce per cercare di ristabilire l’ordine, anche se quelli stanno smontando l’autobus o si divertono ad importunare i compagni di viaggio.

Non bisogna minimizzare quello che accade da troppo tempo su molti autobus di linea. Derubricare un atto vandalico a bravata commessa da ragazzini vivaci è intellettualmente disonesto. Bisogna chiamare le cose con il loro nome: delinquenti, inciviltà.
Ieri qualcuno ha pensato bene di tentare di incendiare l’auto di Antonio Melara, autista sugli autobus delle Ferrovie della Calabria nella tratta San Procopio-Sinopoli-Sant’Eufemia. Stamattina i pullman non sono partiti: servizio interrotto. La “colpa” dell’autista? Avere “preteso” che alcuni ragazzi pagassero il biglietto.

Altri studenti sono stati costretti a saltare le lezioni, i più fortunati sono stati accompagnati dai genitori. D’altronde, quando viene a mancare un servizio, a farne le spese è sempre chi non può ovviare a disfunzioni e inefficienze del settore pubblico. Si tratti di scuole, ospedali, trasporti. Se un giorno l’azienda dovesse malauguratamente decidere di sospendere la corsa, il danno maggiore lo patirebbe chi non ha altro modo per raggiungere Reggio.

In una società in cui nessuno è mai responsabile di niente (entrate in un qualsiasi ufficio pubblico e preparatevi al ping-pong da una stanza all’altra), sarebbe già una mezza rivoluzione inchiodare le famiglie alla responsabilità sull’educazione dei figli. Se un ragazzo allaga una scuola, taglia le gomme all’auto di un insegnante che gli ha dato un brutto voto, sfonda il vetro di un autobus, logica vuole che tocchi ai genitori risarcire materialmente il danno. E così deve essere.

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