Il mio incontro con Fabrizio De André è avvenuto intorno ai tredici anni. Merito del professore Saverio Garzo, che d’estate caricava di ragazzini la sua BMW 316 e li portava al mare. Tra le musicassette che facevano da colonna sonora durante il viaggio, una raccolta di canzoni di De André, che così entrò nella mia vita. Pochi anni dopo ricevetti come regalo per il mio compleanno il vinile di “Tutti morimmo a stento”, concept album del 1968 che parla della “morte psicologica, morale, mentale, che un uomo normale può incontrare durante la sua vita”. Sulla scena musicale italiana fanno il loro ingresso drogati, assassini, impiccati; per la prima volta un cantautore affronta il tema della pedofilia (“Leggenda di Natale”). Ritratti di personaggi derelitti, abbandonati ai margini della società, sui quali sin dall’inizio della carriera De André posa lo sguardo riconoscendo loro dignità e il diritto ad una possibilità: quella di “consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità” (“Smisurata preghiera”). In loro il cantautore genovese intravede l’altra faccia della luna, in loro trova il bagliore di una tragica grandezza. Siano essi ladri, prostitute, travestiti, criminali: se non proprio gigli, in fondo vittime di questo mondo (“La città vecchia”). Compresi i suicidi, ai quali al tempo era negata anche l’umana pietà: «Di un omicidio – scriverà – sono responsabili soltanto gli autori del crimine ed eventualmente i loro mandanti; di un suicidio, invece, è generalmente responsabile tutta la società o almeno quella microsocietà che lo ha reso possibile».
Subito dopo acquistai il doppio album del concerto del 1979 con i brani arrangiati dalla Premiata Forneria Marconi. Una contaminazione riuscitissima, che raggiunge l’acme nell’interpretazione chitarristica di “Amico fragile” proposta da Franco Mussida.
Dietro le canzoni di Fabrizio De André c’è uno studio gigantesco, una ricerca continua e originale tra le culture non soltanto musicali del suo tempo. Georges Brassens e l’anarco-individualismo nella primissima fase della sua carriera. I vangeli apocrifi studiati per raccontare nell’album “La buona novella” la vicenda del “più grande rivoluzionario di tutti i tempi” attraverso la voce degli esclusi dalla storia ufficiale, come il ladrone Tito, che in punto di morte “nella pietà che non cede al rancore” impara l’amore.
Genova e il Mediterraneo crocevia di culture e di sonorità sublimate nel capolavoro assoluto “Crêuza de mä”. E ancora: il ’68 e la contestazione in “Storia di un impiegato”, con la maturazione della convinzione che non esistono poteri buoni, l’esperienza collettiva del carcere e l’anatema “per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti”. Edgar Lee Masters e la sua “Antologia di Spoon River” tradotta da Fernanda Pivano in “Non al denaro, non all’amore né al cielo”: la dimostrazione che musica e letteratura possono fondersi senza perdere in bellezza, forza, profondità. E chissà se sulla collina De André ha finalmente incontrato il matto che nella penombra inventa parole. Il parallelismo tra popolo sardo e nativi americani nell’album dell’indiano, con l’esperienza autobiografica del sequestro di persona del quale fu vittima insieme a Dori Ghezzi, nella struggente “Hotel Supramonte”. Le collaborazioni con Giuseppe Bentivoglio, Francesco De Gregori, Massimo Bubola, la Premiata Forneria Marconi, Nicola Piovani, infine Ivano Fossati nell’ultimo straordinario lavoro, “Anime salve”. Ancora un viaggio – l’ultimo – denso di suggestioni, per dare voce a chi viaggia in direzione ostinata e contraria, ma anche la premonizione dell’imminente congedo nel sibillino “mi sono visto che ridevo/ mi sono visto di spalle che partivo”.
Come le nuvole di un altro suo fortunato brano, anche Fabrizio De André sta tra noi e il cielo, va, viene e ogni tanto si ferma, come per darci un riferimento, una chiave di lettura su ciò che nel mondo accade. Senza che, venticinque anni dopo, sia minimamente diminuita la voglia di pioggia che la sua scomparsa ci ha lasciato.
La sedia vuota
Ci sono assenze che non riusciamo ad accettare, ma abbiamo imparato a convivere con le sedie vuote, riempendo d’amore l’aria rarefatta e la nebbia del ricordo. Pazienza se fino ad un certo punto sembrava tutta discesa, una corsa senza freni verso un traguardo qualsiasi, reale o immaginario. Ma comunque a portata di mano. Così almeno credevamo. Come quando dai nostri pochi anni guardavamo al 2000, lontanissimo. Chissà cosa saremmo stati e dove. Cosa avrebbe portato. Poi di colpo il 2000 è arrivato e non ce ne siamo neanche accorti. Tanto che stiamo per planare sul 2024. Per certi aspetti senza averci capito molto, sballottati dalle onde del tempo. Impegnati a tenere la testa a pelo d’acqua. Per non affogare. Oppure, avendoci capito fin troppo. Su come gira e su quanto la vita sappia essere sorprendente, nel bene e nel male. Individuando la chiave di senso proprio in questa imprevedibilità, che richiede riflessi e spirito di adattamento. Che non è rassegnazione, ma consapevolezza che la vita è questa, e tocca viverla oggi. Alzando un altare agli attimi di felicità, abbracciando il dolore per addomesticarlo. Anche se l’ieri ha fatto di noi ciò che adesso siamo; anche se il domani è la tensione che dà linfa alle nostre idee, alle nostre azioni. Potremo essere migliori o peggiori, dipende da noi ma non soltanto da noi. Perché con gli altri e con le circostanze bisogna farci i conti: «È tutto un complesso di cose/ che fa sì che io mi fermi qui», suggerisce il poeta. Prendere atto dello scarto tra aspettative e realtà mi sembra già un buon punto di partenza. Un compromesso onorevole con la propria coscienza è il fondamento della pacificazione con sé stessi. E solo se si è in pace con sé stessi si può vivere in pace con il mondo, trovarci residenza. Qui e ora.
Buon anno a tutti
E non è forse questo sistema carcerario una pena di morte più lenta e ipocrita?
Secondo il dossier “Morire di carcere”, costantemente aggiornato da Ristretti Orizzonti, ad oggi sono 68 i suicidi registrati in carcere nel 2023: il secondo dato più alto dal 1992, dietro soltanto alla cifra monstre del 2022, quando furono 84 i detenuti che decisero di farla finita impiccandosi con le lenzuola o inalando il gas delle bombolette dei fornelli da campeggio che si utilizzano per cucinare. Un dato drammatico, al quale vanno aggiunti gli 87 decessi per “altre cause” di soggetti anziani, malati di tumore, cardiopatici, tossicodipendenti. In totale, 155 morti “di carcere”: uno ogni due giorni e qualcosa.
Il “custos” non sa custodire. Il sovraffollamento e la penuria di figure professionali (psicologi, educatori, personale sanitario) non aiutano, né solleva il morale dei detenuti più fragili la quotidiana offesa alla dignità umana, che può manifestarsi con la mancanza d’acqua, il caldo insopportabile d’estate e il freddo gelido d’inverno, la sospensione delle attività trattamentali nei periodi festivi, alcune sadiche assurdità regolamentari.
Sulla carta, in Italia la pena di morte è stata da tempo abolita. Ma la pena che si sconta nei penitenziari fino a quando non sopraggiunge la morte, è soltanto una versione più ipocrita della pena di morte tradizionale. La sostanza non cambia.
Tra il 25 febbraio e il 16 settembre 2020, ho scritto molto. Il brano che segue risale alla metà del mese di luglio, quando un detenuto si tolse la vita nel carcere di Santa Maria Capua Vetere:
«Appuntato! Appuntato!». Sono le 22.00, nelle celle molti detenuti già dormono. Si sentono rumori fortissimi, come di una battitura in corso nel reparto dei “comuni”, nel plesso di fronte alle nostre finestre. Già due giorni fa si era verificato un episodio del genere, in tarda mattinata, quando lo stesso detenuto aveva tentato di impiccarsi utilizzando come cappio un lenzuolo annodato alle sbarre della finestra. Questa volta pare abbia raggiunto il suo scopo.
«Vergogna! Vergogna!», il grido che squarcia il buio della notte. Le guardie tardano ad intervenire, ma la protesta è indirizzata contro la mancata adozione di precauzioni nei confronti di un povero cristo che aveva già tentato il suicidio: ad esempio, assegnandogli un “piantone” per la sorveglianza e per l’assistenza. Ma sono le voci di “radio carcere”, che non posso verificare. Quel che è certo è che lo sventurato è riuscito a concretizzare il proposito suicida.
Le urla e la battitura durano una ventina di minuti, poi tra i reparti cala un silenzio di piombo. La nostra è una rabbia impotente che non può superare la recinzione del carcere.
Nessuno ascolta, nessuno può ascoltare. Neanche se si è in mille a gridare, a percuotere le scodelle, a scaraventare le brande contro il “blindo”. I detenuti sono fantasmi invisibili, le loro voci sono destinate a spegnersi nel buio. D’altronde esiste una ragione ben precisa se la stragrande maggioranza delle strutture penitenziarie sono state costruite nelle periferie delle città, in luoghi isolati che dimostrano plasticamente la distanza tra il dentro e il fuori. Sottrarre il carcere alla vista della popolazione libera rassicura sul fatto che il “male” si può circoscrivere e isolare. Quello che vi accade dentro e la sofferenza gratuita che produce non oltrepassano la recinzione: «Occhio non vede, cuore non duole».
Il giorno dopo, nessuno dice niente: né i detenuti, né tantomeno gli agenti penitenziari. Forse nel carcere subentra davvero l’abitudine, l’assuefazione alla morte. E comunque, per l’amministrazione penitenziaria, meno se ne parla, meglio è.
«Lo avevan perciò condannato/ vent’anni in prigione a marcir/ però adesso che lui s’è impiccato/ la porta gli devono aprir». Ripenso inevitabilmente ai versi della “Ballata del Michè”, alle lenti speciali che consentivano a Fabrizio De André di guardare con pietà a quest’umanità derelitta.
Link: E non è forse questo sistema carcerario una pena di morte più lenta e ipocrita? (ildubbio.news)
Il Natale di solidarietà dell’Agape
Venerdì 29 dicembre, presso la sala ricevimenti “Cagnolino”, avrà luogo il tradizionale veglione di fine anno che conclude le iniziative del “Natale di solidarietà” dell’Agape.
Le attività dell’associazione presieduta da Iole Luppino hanno avuto inizio il 2 dicembre, con la consegna alla RSA “Prof. Mons. Antonino Messina” di un albero di Natale che dopo le festività sarà messo a dimora nel giardino. I volontari dell’associazione, insieme alle operatrici e agli ospiti della struttura, in un clima di partecipata condivisione hanno poi recitato il Santo Rosario in onore dell’Immacolata.
La realizzazione della seconda iniziativa è stata resa possibile grazie alla sensibilità del coro parrocchiale “Cosma Passalacqua”, con il quale da tempo l’Agape organizza presso la RSA “Messina” momenti di intrattenimento musicale. Con l’accompagnamento del coro, sono stati infatti intonati i canti della tradizione natalizia, eseguiti al ritmo del battito delle mani e con il coinvolgimento degli anziani della struttura, alcuni visibilmente emozionati.
Qualche giorno fa i volontari hanno invece fatto visita ai partecipanti alla colonia estiva per scambiare gli auguri e per consegnare un regalino da mettere sotto l’albero.
L’evento del 29 dicembre non è soltanto l’occasione per trascorrere una serata in allegria tra giochi, canti e balli. Tutte le attività dell’associazione, a cominciare dalla colonia estiva che è quella economicamente più dispendiosa, sono infatti finanziate con il ricavato della tombolata di fine anno. Per questo è importante partecipare. L’Agape è sostanzialmente uno strumento a disposizione del territorio (non l’unico, ovviamente), che consente alla nostra generosa comunità di dare un contributo concreto per la realizzazione di iniziative di solidarietà.
Vi aspettiamo!
La magia dell’albero di Natale all’uncinetto
Tra gli alberi di Natale che abbelliscono le piazze del nostro paese, molto particolare è quello collocato all’entrata della chiesa di Maria SS.ma delle Grazie. Se infatti il Natale simboleggia la vita, la solidarietà e la condivisione, ne ha colto pienamente il senso il gruppo che – ispirandosi a una tradizione diffusa in molti borghi della Calabria – ha realizzato un particolare albero all’uncinetto.
L’albero all’uncinetto non è soltanto bello da guardare, con le luci e le decorazioni che costringono il viandante a fare una sosta per ammirarlo da vicino. Osservarne la struttura e tutti i centrini installati invita inevitabilmente a riflettere su pazienza, attenzione, costanza e impegno certosino necessari per portare a compimento una vera e propria opera d’arte.
Un altro aspetto, non secondario, va rintracciato nella considerazione che è stata così concretizzata l’idea di realizzare addobbi creativi a zero impatto ambientale, riciclabili e soprattutto nati dalla collaborazione di tutti, grazie anche all’impegno dei più giovani del comitato Festa dell’Immacolata, i quali per una settimana si sono dedicati alla costruzione della base sulla quale l’albero è stato installato.
La collaborazione tra generazioni di diversa età incarna lo spirito di solidarietà che rende magica l’atmosfera natalizia. Una componente fondamentale per il coordinamento del lavoro delle tante donne che hanno materialmente cucito i centrini poi fissati ai cerchi realizzati con delle canne. Donne generose, “mani di fata” che hanno donato il proprio tempo per offrire bellezza al paese ridando vigore, tra l’altro, all’antica tradizione dell’arte dell’uncinetto. Un’attività molto diffusa fino a diversi decenni fa, quando le giovani eufemiesi avevano soltanto l’imbarazzo della scelta nel decidere a quale “maistra” affidarsi per imparare l’arte di cucire e di ricamare.
L’albero di Natale, quindi, come albero della vita: simbolo di luce e di pace cui tendere con rinnovata speranza in questi tempi bui, macchiati da troppo sangue innocente.
Generazione vintage
Ci sono oggetti che, a guardarli oggi, sembrano usciti dalla macchina del tempo del mitico “Doc” in “Ritorno al futuro”. Nella soffitta del passato ritroviamo la malinconica testimonianza degli anni volati via. Noi stessi ci sentiamo vintage, ed è forse questo il motivo per cui a volte ci assale un senso inspiegabile di inadeguatezza di fronte allo stravolgimento antropologico della società odierna.
Azzardo un’ideale graduatoria, rigorosamente in ordine alfabetico e ovviamente integrabile ad libitum.
CINGHIA LEGALIBRI. Prima dell’irruzione degli zaini, gli studenti portavano a scuola i libri stretti in cinture elastiche con la chiusura a gancio, in genere una fibbia di metallo. Andava benissimo per due-tre volumi più qualche quaderno, che venivano disposti in ordine di larghezza, dal basso verso l’alto. Oltre, o quando c’era in aggiunta un vocabolario, il trasporto diventava una prova di equilibrio, talmente faticosa da necessitare un continuo cambio di braccio. Penne e matite venivano agganciate all’elastico, solitamente personalizzato con la scritta del proprio nome, della squadra del cuore o della band musicale preferita.
ENCICLOPEDIA. Per intere generazioni il motore di ricerca più diffuso e consultato ha avuto forma cartacea. In ogni casa uno scaffale era occupato dai volumi che raccoglievano, in ordine alfabetico, le voci informative sullo scibile umano. Costituivano lo strumento di conoscenza dal quale gli studenti copiavano a mano il contenuto sul “quadernone delle ricerche”. I suoi pesantissimi tomi, in copertina rigida e dotati di spigoli appuntiti, se tirati in testa erano in grado di offendere.
FAZZOLETTO. Accessorio immancabile nelle tasche di uomini e donne, è stato soppiantato dai kleenex. A differenza dei fazzoletti in carta, quello in cotone era però lavabile e perciò riutilizzabile nei secoli. Oggi potrebbe diventare il simbolo delle battaglie ambientaliste, ma non se lo fila più nessuno. Eppure c’è stato un tempo in cui il “muccaturi” a fiori, a righe su fondo bianco o colorato, orlato, rendeva elegante e raffinato il soffio del naso.
FLIPPER. Il re delle sale da gioco si ergeva tra i videogiochi cabinati. Una specie di Luna Park che sprigionava luci e suoni, mentre l’indicatore di punteggio saliva fino ad impazzire quando raggiungeva il record. Centrare i bersagli con la biglia colpita dalle alette azionate dai pulsanti esterni era adrenalina pura. Alzi la mano chi non avrebbe voluto essere Carlo Verdone nel film “Troppo forte”, l’unico giocatore al mondo capace di strapazzare il flipper senza farlo andare in tilt.
GETTONE TELEFONICO. Oggetto vintage per antonomasia, sulle sue tre scanalature nascevano e morivano le storie d’amore, in anni obiettivamente difficilissimi. Mettersi in fila se non si trovava la cabina telefonica libera, attendere il proprio turno con la rabbia che montava quando la conversazione, che sembrava conclusa, riprendeva con maggiore pathos, comporre il numero dell’amata e incrociare le dita affinché fosse lei a prendere la cornetta e non il padre. In generale, rappresenta la preistoria della telecomunicazione. Tempi in cui si chiamava il 161 per conoscere l’ora esatta.
MAPPE STRADALI. Raramente le tasche degli sportelli delle auto non contenevano le mappe stradali della Michelin, che oggi è possibile consultare digitalmente. Prima dell’avvento di internet calcolare il percorso stradale necessitava diottrie e clima non ventoso quando la mappa veniva spiegata in tutta la sua estensione, sul cofano anteriore. E valla a ripiegare.
MUSICASSETTA. Abbiamo odiato il nastro che si inceppava e che andava srotolato aiutandosi con una matita. Indimenticabili le registrazioni dalla radio di personalissime compilation, scegliendo tra le canzoni proposte dalla voce impostata dei dj, tra una dedica e l’altra. Puntuale, nel corso dell’esecuzione, l’irruzione del messaggio pubblicitario che invitava a visitare il negozio di scarpe all’angolo.
PETTINE. Accessorio irrinunciabile per gli uomini di tutte le età, veniva custodito in astucci di similpelle e usciva fuori dalla mariola delle giacche al momento opportuno. Salvava situazioni, quando il calvo non andava di moda ed era possibile imbattersi in riporti che sfidavano qualsiasi legge della fisica. Sull’auto trovava collocazione nell’aletta parasole, pronto all’uso se il conducente aveva bisogno di una sistematina a capelli, basettoni e baffi.
Il santo e la bandiera
Più volte ho scritto del rapporto speciale che lega la comunità eufemiese alla città di Milano sin dai giorni immediatamente successivi al terremoto del 1908. Nella sua “Luttuosa narrazione del grande terremoto che il 28 dicembre 1908 distrusse tutta questa città”, l’arciprete Luigi Bagnato sottolineò la straordinaria prova di solidarietà dei volontari giunti in paese e la grande quantità di aiuti ricevuti: «Ci siamo tenuti in vita per qualche tempo con la pubblica carità e siamo maggiormente grati alla città di Milano che mandò a noi alcuni suoi egregi concittadini, cibi e casette di legno, o baracche, che furono erette in Pezzagrande per comune designazione».
In meno di tre mesi furono infatti costruite 759 baracche e realizzati l’acquedotto, le strade del nuovo quartiere, l’ospedale “Milano”, tre fontane pubbliche, un lavatoio coperto e una piccola chiesa. Un piccolo luogo di culto nel quale ebbe origine la devozione degli eufemiesi per il patrono di Milano Sant’Ambrogio, la cui statua fu donata dal cardinale meneghino Andrea Carlo Ferrari. Per tale ragione la chiesa di Maria Santissima del Carmine è dedicata anche al santo che si festeggia il 7 dicembre. Ma la riconoscenza degli eufemiesi andò oltre, poiché il 9 marzo 1909 l’allora commissario prefettizio deliberò di adottare quale bandiera del comune la croce rossa su sfondo bianco del municipio di Milano.
Ho già avuto modo di osservare (La bandiera che non c’è) che sarebbe opportuno rimediare all’errore compiuto il 25 febbraio del 2000, giorno in cui fu approvato lo statuto comunale attualmente in vigore, che all’articolo 6 menziona lo stemma e il gonfalone, ma inspiegabilmente non fa cenno alla bandiera. Per cui, nel ribadire l’auspicio che venga sanata la ferita inferta alla memoria storica collettiva della nostra comunità, pubblico la deliberazione n. 5/1909 del commissario prefettizio Consalvo Cappelli, avente ad oggetto “Bandiera del Comune”:
«L’anno millenovecentonove, addì nove marzo in S. Eufemia, nella Casa Comunale
Il Commissario Prefettizio Consalvo Cappelli per la provvisoria amministrazione del Comune, assistito dal Segretario infradescritto
Ritenuto che la generosa Città di Milano con uno slancio impareggiabile di fraterna carità accorse e soccorse con ogni mezzo questo paese distrutto dal terremoto, elargendo ogni specie di soccorso, costruendo un bellissimo Ospedale a vantaggio degli infermi poveri, ed un vastissimo rione di baracche per dare ricovero a moltissime famiglie rimaste senza tetto;
Attesoché i cittadini di ogni classe di questo Comune in segno di viva, imperitura riconoscenza vogliono che il nome della Città di Milano, oltreché scolpita nei cuori di tutti sia additata ai posteri come augurio di sublime carità;
Ritenuto che, essendosi dato al nuovo rione costruito dai Milanesi il nome della città di Milano e che Milano fu pure il nome dato all’Ospedale quivi costruito, è giusto ed è reputarsi a grande onore che i colori della bandiera propria della illustre Città, Croce Rossa in campo bianco, sia adottato e costituisca l’emblema di S. Eufemia;
Ritenuto che, chiesta a quella rappresentanza comunale l’autorizzazione perché il Comune di S. Eufemia adotti quella bandiera e la faccia sua, quel degnissimo Sig. Sindaco, Senatore Ponti, mercé dispaccio telegrafico N. 579 in data di ieri, con parole lusinghiere e gentilissime comunicò la piena adesione di quella rappresentanza comunale al desiderio da me espressogli.
Interprete degli unanimi sentimenti della cittadinanza,
DELIBERA
che la bandiera della Città di Milano, Croce Rossa in campo bianco, sia da oggi la bandiera del Comune di S. Eufemia.
Fatto, approvato e sottoscritto
Il Commissario prefettizio f.to C.[onsalvo] Cappelli
Il Segretario f.to [Francesco] Tropeano»
“Natale in carcere”. Non è un cinepanettone, ma un incubo reale
Il mio articolo per “Il Dubbio” di oggi
È arrivato di colpo l’inverno. Si sapeva che sarebbe successo, come ogni anno. E infatti, chi utilizza stufe o termo-camini per riscaldare la propria abitazione, generalmente già in estate provvede alla scorta di legna o di pellet. Per non farsi trovare impreparati, sorpresi dalle temperature che improvvisamente diventano rigide. Così come sono già pronti coloro che utilizzano il metano o il GPL. Al limite, una controllatina alla caldaia, ma niente di più. Non ti temiamo, generale inverno.
Poi, il 27 di novembre, mentre nel “mondo di fuori” già si è avanti con gli addobbi natalizi, capita di entrare in un carcere (Casa Circondariale di Lecce) e si sbatte forte con il muso contro la disumanità dei regimi carcerari.
Negli “Hotel a cinque stelle” ancora si soffre il gelo, a meno di un mese da Natale. Non nella sala colloqui, quella è riscaldata. Un familiare non nota niente di anomalo. Anzi, ha quasi caldo. Nelle celle invece non è così. I detenuti si arrangiano come possono. Insomma: indossano qualche maglia in più, tengono in testa il berretto di lana giorno e notte, cercano di stare sotto le coperte il più possibile, per evitare gli spifferi delle finestre e le correnti d’aria che attraversano i pochi metri quadrati tra i lettini. Raschiano il fondo del barile del loro proverbiale spirito di adattamento.
Però, quanta pena e quanta rabbia. Tenere tra le mani una mano gelida. Sentire all’abbraccio guance e orecchie freddissime. Fisime da garantisti, si dirà. Mica vorrebbero davvero un albergo i delinquenti che si trovano in regime di custodia carceraria. Anche quelli non ancora condannati in via definitiva, che poi anche questi sarebbero esseri umani. Colpa loro, se ne facciano una ragione. Giovani e vecchi. Se ce la fate, sopravviverete. Altrimenti, sono problemi vostri.
E invece è un problema di tutti noi e dello stato del diritto all’interno delle carceri. È il problema delle parole della “più bella costituzione del mondo” smentite dalla realtà: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità» (articolo 27, terzo comma).
È una questione che poco ha a che fare con la pena, che già si sta scontando o addirittura (per in non definitivi) si sta anticipando, in molti casi gratuitamente. È il sadismo delle troppe afflizioni aggiuntive perpetrate da uno Stato sulla carta democratico. Qualcosa di profondamente ingiusto. La vergogna di uno Stato che non “custodisce” e che si fa barbaro e tribale.
Non è vero che la tortura è stata abolita in Italia. Basta entrare in un carcere per capirlo.
Link: “Natale in carcere”. Non è un cinepanettone, ma un incubo reale
L’umanità dei luoghi
“L’umanità dei luoghi. Storie di volontariato dall’Aspromonte al mare” è un documentario, prodotto dal Centro Servizi per il Volontariato dei Due Mari – ETS e realizzato da MedMedia, che in circa un’ora racconta storie significative di volontariato della Provincia di Reggio Calabria. Si parla anche dell’Agape di Sant’Eufemia d’Aspromonte (al minuto 30:50): anzi, sono i volontari a raccontare e a raccontarsi mentre sono impegnati nella realizzazione della colonia estiva.
Di recente, “L’umanità dei luoghi” è stato selezionato per concorrere al 77° Festival Internazionale del Cinema di Salerno e, fino alle 23:55 del 1° dicembre, è possibile sostenerne la candidatura.
Per votare è sufficiente aprire il link https://show.festivaldelcinema.it/ e registrarsi, fare l’accesso (login) digitando il nome utente e la password, cliccare sulla sezione DOCUMENTARI, trovare “L’umanità dei luoghi” e votare scegliendo il numero di stelline (da 1 a 5).
Consiglio non soltanto di votare: l’intero documentario merita di essere guardato. In Calabria ci sono tante storie belle, che meritano di essere raccontate e conosciute.
La libertà è un colpo di tacco
Mancavano dieci giorni al compimento dei miei nove anni quando, il 5 luglio 1982, il capitano del Brasile Socrates beffò Dino Zoff con un rasoterra tra palo e gamba sinistra, nello stadio Sarrià di Barcellona che ospitava l’ultima partita del secondo turno eliminatorio del gruppo C, nel mondiale di Spagna. Ma il gol segnato dal Doutur (era laureato in medicina) non servì alla squadra allenata da Tele Santana, schiantata dalla tripletta di Paolo Rossi che ribaltò anche il secondo pareggio di Falcao e trascinò i ragazzi di Enzo Bearzot in semifinale e infine all’apoteosi del Bernabeu contro la Germania. Per i tifosi verdeoro fu “la tragedia del Sarrià”, seconda soltanto al Maracanazo contro l’Uruguay nel 1950. Troppo impegnati a contemplare il proprio ombelico, si disse dei vari Socrates, Falcao, Zico, Junior, Cerezo, Eder, interpreti della Seleção più talentuosa e meno vincente di tutti i tempi.
Non sapevo ancora niente di quello spilungone barbuto, proprio in quegli anni protagonista di una vicenda sportiva, umana e politica capace di cambiare la storia del Brasile.
Intingendo la penna nell’inchiostro della poesia e della malinconia, Riccardo Lorenzetti ha ricostruito in La libertà è un colpo di tacco (pubblicato nel 2014 da Armando Curcio Editore, con la prefazione di Federico Buffa) l’epopea culminata con i due campionati paulisti consecutivi (1982 e 1983) conquistati dal Corinthians di San Paolo.
Il contesto del romanzo è quello del Brasile del regime dei “Gorillas”, che governò il Paese tra il 1964 e il 1985. Una dittatura militare ormai ai titoli di coda, alla cui caduta contribuì in maniera decisiva il Corinthians dell’allenatore Mario Travaglini, del presidente Waldemar Pires e del sociologo direttore sportivo Adilson Monteiro Alves, del leader Socrates, elegante esteta del colpo di tacco, la giocata imprevedibile e spettacolare che fu il suo inconfondibile marchio di fabbrica. Il Corinthians di Wladimir, Casagrande, Zenon, Ataliba, Biro-Biro, Zé Maria: «Gente che avrebbe potuto indifferentemente vincere un campionato. O scatenare una rivoluzione. E infatti, fecero entrambe le cose».
Socrates fu l’ideatore della “democrazia corinthiana”, fondata sui principi dell’uguaglianza, della partecipazione e della libertà: «I calciatori devono votare. Quello che non avviene nel nostro Paese da vent’anni». Una sorta di comune caratterizzata dall’autogestione e dal ricorso al voto tra calciatori, dirigenti e magazzinieri per decidere sull’organizzazione dello spogliatoio, la scelta del ritiro, il menù del pranzo, la modalità degli allenamenti, la formazione da mandare in campo, la campagna acquisti e la composizione della rosa, oltre che per stabilire la strategia “politica” del club: lo striscione portato a centrocampo all’inizio delle partite (“Vincere o perdere, ma sempre con democrazia”) e le scritte sulle magliette: Democracia Corinthiana o Dia 15 vote, con la quale i brasiliani furono esortati a partecipare alle elezioni che si sarebbero tenute, per la prima volta dopo quattro lustri, nel novembre del 1982. Un modello di democrazia che incise profondamente nel clima asfittico degli anni della dittatura, con ripercussioni sociali e politiche sconvolgenti.
In un’intervista del 1983, Socrates aveva dichiarato: «Vorrei morire di domenica, nel giorno in cui il Corinthians vince il titolo». Morì di domenica, il 4 dicembre 2011, poche ore prima del derby Corinthians-Palmeiras. Da brividi, nel minuto di silenzio osservato a inizio partita nello stadio Pacaembu di San Paolo, il pugno chiuso alzato da tifosi e giocatori per dare l’addio al proprio idolo con il gesto che Socrates ripeteva dopo ogni suo gol. A fine gara il Corinthians si laureò campione nazionale, nel nome del Doutur.