Minita a Gerace Libro Aperto

La presentazione di “Minita” nella terza giornata di Gerace Libro Aperto, lo scorso 2 maggio, nello scenario incantevole della chiesa di San Francesco. Moderatrice Marisa Larosa, all’incontro sono intervenuti l’editore di Disoblio Salvatore Bellantone e il giornalista di Ciavula.it Giovanni Maiolo. Il servizio per FimminaTV è di Valentina Femia, il montaggio di Simona Schirripa.
 

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La “Primavera di libri” del Terzo Millennio

Saranno due gli appuntamenti di “Primavera di libri”, la kermesse culturale ideata dall’Associazione Terzo Millennio, che già nel 2014 ha visto succedersi nel “salottino” allestito all’interno dell’Aula consiliare del Palazzo municipale Francesco Idotta, Giuseppe Caridi ed Elisabetta Villaggio.
“Primavera di libri – ci dice il presidente del Terzo Millennio Francesco Luppino – rappresenta per me un regalo che voglio offrire a me stesso, ai soci e ai simpatizzanti dell’associazione: un’occasione per arricchire e stimolare la voglia di cultura consapevole che questa, e solo questa, è il segreto per poter fare la differenza”.
La seconda edizione si articolerà in due incontri. A rompere il ghiaccio, sabato 9 maggio alle ore 18, Eva Gerace e Francesco Idotta con la presentazione di Educare per crescere. Il viaggio del camaleonte (Città del Sole, 2015), l’esito cartaceo di un progetto “per l’educazione alla vita” avviato da un gruppo di studiosi italo-argentini al fine di consegnare ai giovani “uno strumento di apprendimento sull’amore e i vincoli con gli altri” che privilegi “l’etica delle differenze, la sola che possa generare amore e rispetto per la vita, quell’amore che trascende la smania di dominio e amplia la capacità di abitare il proprio spazio, il proprio tempo e la dimensione di ognuno”.
Francesco Idotta, docente di storia e filosofia presso il locale liceo scientifico “Enrico Fermi” e influente maitre a penser per generazioni di studenti eufemiesi, ha contribuito alla sezione narrativa del libro: tre gruppi di racconti, illustrati dalla pittrice Patricia Gerace. La parte scientifica è invece curata da Eva Gerace, specialista in psicologia clinica dalle molte suggestioni letterarie, come hanno potuto constatare gli eufemiesi che nell’agosto scorso ne ascoltarono l’intenso intervento in occasione del Premio “Merica” assegnatole dal gruppo “Insieme per crescere”.
Il secondo incontro (sabato 16 maggio, sempre alle ore 18) sarà invece dedicato a un incontro-dibattito sul tema “Perché restare?”. Questione sempre più attuale per giovani e meno giovani alle prese con il lacerante dubbio se valga la pena continuare a sperare di riuscire a realizzare qua il proprio futuro o se non sia il caso di arrendersi e seguire l’esempio dei tanti che quotidianamente abbandonano la nostra terra e cercano una possibilità al Nord o all’estero.
Chi scrive ne parlerà con Katia Colica, scrittrice e giornalista “senza anestesia”, autrice di racconti, poesie, sceneggiature teatrali. La più recente, edita ad aprile da Città del Sole e applauditissima alla prima presentazione, Un altro metro ancora, “monologo sul bordo della vita” che racconta un episodio realmente accaduto nel corso della seconda guerra mondiale: la storia di un gruppo di sfollati salvati da un eroe “per caso” che si offre di essere il primo della colonna di uomini e donne in procinto di attraversare un campo minato. Pagine intrise di impegno civile e lirismo, il marchio di fabbrica dei suoi due romanzi-inchiesta di successo (mentre il terzo è di prossima pubblicazione): Il tacco di Dio. Arghillà e la politica dei ghetti (Cdse, 2009) e Ancora una scusa per restare. Storie di ordinaria invisibilità in una notte metropolitana (Cdse, 2012).

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Un altro metro ancora

Che fine ha fatto la Resistenza? Se lo chiedeva già Luigi Longo nell’omonimo pamphlet pubblicato per il trentennale del 25 aprile. Che fine ha fatto la Resistenza, oggi? Ha senso parlarne ancora?
La risposta è: sì. Sì, fino a quando ci sarà qualcuno pronto a difendere la Costituzione repubblicana, che rappresenta il respiro di una storia comune e la sintesi di tutto ciò che la Resistenza voleva essere. Sì, ha senso celebrare il 25 aprile, l’esito finale del processo di Liberazione che consentì ai figli e alle figlie migliori del Paese di difenderne l’onore infangato dal fascismo, riconquistando la libertà per se stessi e la dignità per un popolo intero. Giovani senza nome, eroi spesso involontari dei quali vanno recuperate le biografie e vivificati gli ideali.
La conservazione della memoria è essa stessa atto di resistenza: distinguere i buoni dai cattivi, il bene dal male, chi lottava per la libertà e l’indipendenza da coloro che combattevano per il nazifascismo. Verità un tempo scontate, oggi insidiate da un revisionismo indulgente e sovente strumentale.
L’ultimo lavoro di Katia Colica, Un altro metro ancora (edito da Città del Sole) è impegno civile e “politico”, perché l’arte e la cultura diventano atti politici quando scandagliano la realtà e dichiarano una scelta di campo. Un “monologo sul bordo della vita” – come recita il sottotitolo – destinato al teatro, che racconta l’eroismo inconsapevole del protagonista Aitano: un canto vigoroso da dedicare a coloro che hanno resistito, resistono e resisteranno “a tutto l’orrore del mondo”.
Capita che pagine di intensa umanità siano scritte dagli Aitano della società, anonimi viandanti che con un gesto salvano se stessi e il mondo. Il protagonista di Un altro metro ancora non aspira a diventare eroe. Lacero e sporco decide di disertare dopo avere mescolato assieme paura e coraggio, spinto dal desiderio di riabbracciare la madre sfollata. Si ritrova però nel crocevia della Storia, accanto a un’umanità in fuga dall’orrore della guerra e bloccata davanti a un campo minato: “è stato lì che ho deciso”. Ed eccolo allora mettersi in testa al “millepiedi umano” che ha nei polmoni un unico soffio di vita e nelle orecchie il suo mantra, la raccomandazione ai compagni di calpestare le sue impronte (“questi sono i miei passi, e questi saranno i vostri passi”) per non rischiare di saltare in aria.
Lì, sul bordo della vita. Tra le voci e gli sguardi di un gruppo di sfollati calabresi decisi a tornare a casa ad ogni costo. Una storia di famiglia, ascoltata dalla voce della bimba fuori campo diventata molti anni dopo la mamma dell’autrice, in pagine marchiate dall’inchiostro dell’impegno civile e del lirismo (l’addio a Mina, che ospita Aitano accogliendolo come fosse il figlio che la guerra le aveva sottratto; la fine tragica della mamma del protagonista): il tratto distintivo della scrittura di Katia Colica.
Un altro metro ancora è la storia universale di Peppino Impastato e di tutti coloro che in ogni tempo e luogo contano e camminano, lottando per regalare all’umanità “cento passi ancora” di speranza. Ma è soprattutto una storia di “fedeltà”, che parla ai ragazzi di oggi di amore nei confronti della propria terra: un “amore potente, delicato, ostinato, amore testardo” al quale aggrapparsi per rinascere dopo ogni fallimento, rimettendo assieme i cocci dei sogni andati in frantumi. Per provare a ricostruire.
Per restare.

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Una vita in piega

I ricordi sono anarchici, indisciplinati, irridono le regole del fair play. Colpiscono a tradimento, quando meno te l’aspetti. Stai facendo le tue cose, ti si parano davanti e non si spostano neanche a sgomberarli con gli idranti. Non si scappa dai ricordi, conoscono scorciatoie che li fanno arrivare sempre prima di te al prossimo incrocio. E lì ti aspettano. La fuga è una scelta che non paga. Mai. Perché fuggire dai ricordi è fuggire da se stessi. Impossibile. Meglio rassegnarsi, inspirare forte e affrontarli, anche se il nodo in gola punge nostalgia. Prenderli in braccio e cullarli. Cullarsi con essi. Con quel groppo che forse, alla fine, verrà in qualche modo schiacciato giù.
Sono trascorse quasi due settimane e Pino Condello è ancora all’ingresso del municipio. Si gira e ride dentro il gilet nero di pelle, con il sorriso che ho rivisto – o mi è sembrato di vedere – anche il giorno successivo, su un viso che ormai non era più il suo, eppure in posa per salutarci con il caratteristico riccio delle sue labbra. Un ghigno simpatico. L’espressione di chi sa che alla vita bisogna sempre sorridere, anche se a volte l’allegria è una maschera esibita per tenere lontane le domande indiscrete. Quelle imbarazzanti, capaci di farci mostrare agli altri senza veli e che richiedono in chi ascolta uno sforzo di comprensione. Mentre il suonatore Jones non ha di questi impicci: continua a suonare “per tutta la vita”, perché la gente ha stabilito che è quello che sa fare, e va bene così.
È tra la porta di vetro e la scalinata, il braccio ancora alzato a salutare senza guardare, girato di spalle e in cammino. Mentre va via, come un titolo di coda che sfuma. Come la sua vita, in un pomeriggio che nessuno avrebbe immaginato. Che ha finito per cristallizzare aneddoti e imprese, ai quali ognuno si è aggrappato per farsi forza tra occhi rossi, increduli.
“Pinuccio” era l’amico di tutti. Chiunque l’abbia conosciuto ha almeno un episodio da raccontare, incorniciato dal suo sorriso: “ricordiamolo – ha raccomandato il fratello Natale – nella sua voglia di vivere e condividere la buona compagnia; nella sua leggerezza e nella sua allegria”.
Originale, a volte bizzarro, non certo “pazzo”, anche se a quel soprannome ci teneva perché se l’era guadagnato sul campo. A suon di imprese impossibili su una delle sue numerose moto: scavalcando macchine o domando le due ruote con una gamba ingessata, dritta come la lancia di un soldato medievale in sella a un cavallo; sulla Ducati 998 trasformata ogni mattina in un proiettile rosso per giungere in orario sul posto di lavoro. Con la strafottenza dello studente impenitente. Con gli occhi puri del bimbo della fiaba di Andersen, l’unico in grado di accorgersi che il re è senza vestiti. Perché spesso occorre una buona dose di pazzia per vedere e rivelare la verità, per dipingere la gente con aggettivi azzeccati e locuzioni affilate. Per prenderci sempre. Vivere al di fuori degli schemi imposti dalla società, che costringono gli individui a comportarsi come gli altri vogliono, mortificandone l’autenticità.
A un “pazzo” – che comunque “può avere un attimo di lucidità, mentre lo stupido è senza speranza” – è consentito giocare con la vita e farsi beffe del prossimo, usare la battuta irriverente come la penna di un moderno Cirano: con questa spada vi uccido quando voglio.
Sfrontato, mai volgare o maleducato. Libero. Tra i pochi in paese ad avere il coraggio di dire ciò che pensava di questo “circo” di quattromila anime, un posto in cui “manca soltanto il serial killer”. Un solitario amante della compagnia, perché il tempo della sua vita l’ha sempre scandito lui.
A modo “suo”, avrebbe cantato Frank Sinatra.
Con quel buco nero che forse ogni tanto lo inghiottiva, chissà. Il ricordo della morte al suo fianco durante i lunghissimi giorni del coma, la lotteria della vita che estrae il suo numero, salvandolo, e condanna il compagno in un incidente con la moto, ancora ragazzi.
Di questa storia vissuta di corsa, in piega, rimane l’oro dei capelli di Walter scompigliati dal vento, come nelle pedalate di padre e figlio in mountain bike per le strade del paese. Le note del jazz e del blues della colonna sonora di un film finito troppo presto. Allegria e leggerezza.

*Entrambe le fotografie sono tratte dal profilo Facebook di Pasquale Pellizzeri, nella seconda alla guida del Sidecar

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Minita a Calabria d’Autore

Venerdì 3 aprile ho presentato “Minita” all’interno della prestigiosa rassegna “Calabria d’Autore”, organizzata dall’Associazione Incontriamoci Sempre presso la sede della Stazione FS Reggio Calabria “Santa Caterina”. Di seguito, il resoconto della serata, realizzato da Stefania Valente per la testata giornalistica online ZoomSud.
(http://www.zoomsud.it/index.php/cultura/79497-domenico-forgione-a-calabria-d-autore.html)

Di Stefania Valente  Calabria d’autore ospita Domenico Forgione, dottore di ricerca in Storia dell’Europa mediterranea, giornalista pubblicista, scrittore e autore, tra gli altri, del libro “Minita”, edito da Disoblio.
Sul palco Antonio Calabró, che ha curato la prefazione del libro, affiancato da Daniela Mazzeo, agitatrice culturale ormai nota al pubblico affezionato di Calabria d’Autore e Vanessa Schiavone, collaboratrice fissa della rassegna, per colloquiare con lo scrittore e cercare di carpire le armoniche fondamentali della sua scrittura.
Domenico Forgione è un ragazzo di Sant’Eufemia d’Aspromonte nato per caso in Australia che ispira una fiducia immediata. Il suo ingresso sul palco, accompagnato dalle note di Chuck Berry, infonde l’impressione di una persona equilibrata e rassicurante, positiva, che sorride sempre alla vita, nonostante la vita gli abbia chiesto fatica e pazienza, come traspare dietro il suo sorriso e come lui stesso ci confermerà nel corso della serata.
Antonio Calabró apre il colloquio indagando sulle motivazioni che hanno portato alla stesura di questo libro. Forgione risponde che la motivazione alla scrittura è difficilmente circoscrivibile, ma che senz’altro in questo libro c’è la voglia di denunciare atteggiamenti distorti delle piccole società della Calabria che portano ad una omologazione spersonalizzante, che mortifica l’individuo. C’è il conseguente desiderio di dare un volto, un nome ed un posto ad alcuni personaggi del paese meritevoli di nota, che altrimenti sarebbero rimasti in ombra.
Le domande si susseguono numerose e interessanti. Daniela Mazzeo è incuriosita dal rapporto (tenero) che lo scrittore ha con le donne. Vanessa Schiavone invece dal suo pensiero sull’istituzione scolastica e sulle riforme che essa sta subendo. Forgione risponde con la serenità che gli è propria e che gli abbiamo riconosciuto al primo sguardo. Le donne sono per lui “angeli” e la scuola andrebbe riformata ricostruendo il prestigio della classe insegnante col ripristino della passione e soprattutto del rispetto.
“La scrittura è un atto politico?” provoca Calabró quasi a sorpresa. “Sì” risponde lo scrittore “è un atto politico. Esprimere opinioni e assumersi le responsabilità delle proprie affermazioni è sempre un atto politico”.
La discussione si sposta al titolo del libro e alle radici della malavita organizzata in Calabria. Il titolo? Semplicemente il nome “Domenico” distorto da lui stesso bambino. La ’ndrangheta? Poggia le sue radici sul disagio economico e sociale, ma il suo diffondersi e incancrenirsi negli strati sociali è favorito anche dalla solita mentalità “del favore” che innanzitutto andrebbe corretta.
Così, sulla solita questione senza soluzione, la serata volge al termine, con un ultimo pensiero da parte del nostro ospite sulle giovani generazioni. È un pensiero di fiducia più che di speranza, di esortazione a non cadere nelle grinfie e nei meccanismi del nepotismo e della raccomandazione, ma di difendere la cultura e il merito.
Una scelta che lui stesso ha fatto e che, nel tempo, lo ha ripagato dandogli la possibilità di diventare la persona di qualità che abbiamo conosciuto, lo scrittore che abbiamo apprezzato leggendo le sue opere, il ragazzo di Sant’Eufemia che non ha tradito il suo modo di essere.
Domenico Forgione lascia il palco tra gli applausi. Il pubblico ha conciliato gli impegni del venerdì santo per essere presente e tutti sono soddisfatti per l’atmosfera briosa, tra libri, musica, brani di film; la solita miscela che caratterizza ormai la rassegna.
La serata si chiude con la solita freschezza: un piatto di spaghetti, un bicchiere di vino.
Qualcuno va via con “Minita” sotto il braccio, qualcuno con l’uovo di sei chili vinto alla lotteria di beneficenza organizzata dall’Associazione, qualcuno sotto il braccio della moglie e qualcuno da solo, ma tutti accomunati dalla sensazione che qualcosa per questa nostra terra devastata si possa fare, non miracoli, ma qualcosa che funzioni sì.
Alla prossima, venerdì 10 con Mimmo Cavallaro che racconterà la sua storia.

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Come a scuola tanti anni fa: le parole del professore Aldo Coloprisco su Minita

Non me l’aspettavo e proprio per questo mi ha fatto ancora più piacere ritrovare tra la posta elettronica l’email del mio professore di Lettere alla scuola media, Aldo Coloprisco. Sono trascorsi quasi trent’anni, ma per me rimane sempre il mio caro professore. E quindi sono contento che mi abbia dato un bel voto. (D. F.)

Carissimo Domenic, sono lento per natura, ma la vista ultimamente mi crea non pochi problemi che grazie alla mia caparbietà cerco di superare. Questo incipit mi serve per spiegare il lungo tempo che ho impiegato per leggere il tuo Minita.
Ti dico subito che mi è piaciuto tantissimo, che mi ha commosso per l’umanità che hai saputo spargere in tutte le tue pagine. I tuoi personaggi balzano vivi e veri, anche se molti hanno fatto il lungo viaggio e ora ti sorridono dall’alto della loro raggiunta serenità.
Minita è il canto di un giovane uomo che ama il suo paese e che sa guardare gli uomini e i fatti che lo riguardano con bonaria ironia e con la consapevolezza che le cose buone e belle esistono e sono accanto a noi.
Sarà perché anch’io ho voluto molto bene a mia nonna, o forse perché anch’io sono nonno, le pagine di “Una regina di nome Ciccia” mi hanno particolarmente preso, non solo per il titolo straordinario che sarebbe bastato da solo a esaltare la figura di questa donna d’altri tempi che tu hai reso immortale, ma anche perché attraverso il ricordo della nonna riporti a vita il passato che balza presente e vero dalle tue pagine. Questo mi conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che in realtà non esiste il passato, ma tutto è presente e vive dentro di noi.
Mi piace ciò che descrivi. Parti dal paese ma poi abbracci il mondo. Grazie a te diventano personaggi per sempre anche i poveri cristi. Salvatore, Ceu Galera, mastru Nino, Frank il mongolo, Peppe e tantissimi altri sono tratteggiati con lo spirito di chi, pur sottolineando la particolarità di quelle esistenze, abbia voluto abbassar loro le palpebre e accarezzare con dolcezza le guance.
Minita è una preziosa miniera o, con una immagine più leggera, una pista da ballo dove i danzatori volteggiano su una musica ora allegra ora triste e malinconica che tu scegli con oculato discernimento: vedo personaggi che conosco, altri di cui ho sentito parlare, altri ancora a me ignoti.
Mi commuovono per la delicatezza dei toni e per la sincerità dei sentimenti che esprimono le pagine dedicate alla cara maestra, signora Rina De Leo, mia paesana e amica.
E che dire de “L’ultima lezione” con cui ricordi con l’affetto devoto di un discepolo il maestro divenuto anche un grande amico? Tu, caro Domenic, sei stato fortunato a incontrare sulla tua strada il prof. Rosario Monterosso, ma anche lui lo è stato e sicuramente sorride soddisfatto dall’angolo del suo paradiso nel constatare che i suoi consigli e i suoi insegnamenti continuino a vivere nella tua mente.
Io, purtroppo, non ho avuto il piacere e l’onore di godere della sua amicizia. Era una conoscenza superficiale, un saluto, una stretta di mano e basta. Me ne dolgo nel profondo, perché avrebbe potuto dare anche a me le sue lezioni di vita.
La penna di Minita è come la zappa del contadino, che rivolta la terra per renderla fertile e pronta alla semina. La raccolta alla fine sarà generosa e si chiama “lo stupore di Mico”, l’esempio e il coraggio dei bambini e del campione Lorenzo Genovese, le analisi critiche sempre originali e puntuali delle opere di scrittori contemporanei, i commenti ai testi di canzoni che hanno scandito e accompagnato i momenti dolcissimi e quelli tristi di una giovane e inquieta esistenza.
Finisco questa mia chiacchierata ringraziandoti per aver dato spazio al mio “Libraio di Meladoro “. Lo so, hai usato un occhio di riguardo per questo tuo vecchio professore bizzarro: bellissima definizione, che mi riporta alla mente il favoloso mondo dei miei verdi anni e delle innumerevoli ore trascorse in mezzo agli studenti meladoresi nella speranza o nella illusione di farli partecipi della mia pazzia.
Un forte abbraccio e buona Pasqua.

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Abbasso le bombe, viva la bellezza

Una reazione istantanea come un riflesso condizionato. Come il piede che scalcia non appena il martello colpisce il ginocchio. Come il sorriso che scatta naturale davanti alla bellezza di questi ragazzi colorati e con gli occhi pieni di speranza. Occhi che non si arrendono, che non possono arrendersi perché se lo fanno loro c’è davvero da abbassare la saracinesca e sparire. Lasciare il campo ai bruti che sabato notte, ma neanche tanto (alle 21.40 circa), hanno tentato di colpire al cuore l’avamposto più alto della cultura eufemiese, quel liceo scientifico che rappresenta la speranza e l’argine. La speranza di un futuro migliore; l’argine alla barbarie che pure resiste e rilancia. Per questo motivo non occorre abbassare la guardia e insistere, tenere i riflettori accesi perché anche se non sono stati rilevanti i danni materiali dell’esplosione nei locali che ospiteranno il liceo “Fermi”, è grave l’azione subita da tutta la città. Non è stato colpito il liceo, attentati del genere feriscono il futuro di un’intera comunità, che per questo è chiamata a reagire. A schierarsi. A metterci la faccia. Accanto ai ragazzi e ai loro bellissimi striscioni di vita, contro la morte della violenza e della sopraffazione.

Farlo con ancora più forza di quella espressa stamattina nel corteo partito dalla sede attuale del liceo e che, percorrendo le vie del paese, ha fatto tappa nei locali dell’ex scuola elementare “Purgatorio” e da lì è poi approdato nella sala consiliare del Palazzo municipale, dove due portavoce degli studenti hanno rivolto al sindaco di Sant’Eufemia Mimmo Creazzo l’invito a non indietreggiare nell’impegno a favore della legalità e della civiltà:

“Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, 
e fui contento, perché rubacchiavano. 
Poi vennero a prendere gli ebrei, 
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. 
Poi vennero a prendere gli omosessuali, 
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. 
Poi vennero a prendere i comunisti, 
e io non dissi niente, perché non ero comunista. 
Un giorno vennero a prendere me, 
e non c’era rimasto nessuno a protestare”. (Martin Niemöller) 
Iniziamo con la citazione di questo testo, perché pensiamo che un episodio come quello avvenuto sabato sera, un ordigno esploso dentro la nuova scuola, non possa (e non deve!!!) passare sotto silenzio. 
Il silenzio delle persone genera l’indifferenza: l’indifferenza uccide! 
Noi non possiamo tacere sull’uso di metodi che generano violenza e paura. 
Sogniamo un luogo, e Sant’Eufemia può essere quel luogo, dove non abbiamo più paura e dove pensiamo che lavorare per il Bene Comune sia un valore irrinunciabile. Perseguire il Bene Comune vuol dire, soprattutto, tutelare i diritti dei più deboli, di quelli che stanno ai margini della società, di chi non ha voce. 
Sogniamo un luogo in cui possiamo vivere relazioni basate su collaborazione e concordia, perché pensiamo che la Pace sia una delle condizioni fondamentali per vivere felici e vivere una vita autentica. 
Per questo scendiamo in piazza e ci mettiamo la faccia, perché il nostro futuro sia possibile e non venga precluso da chi crede di opprimere e prevaricare sugli altri. 
Chiediamo a chi gestisce la cosa pubblica di testimoniare in modo più responsabile la tutela dei diritti dell’uomo e la promozione della bellezza della condizione umana. 

Un inno alla partecipazione contro il disimpegno, l’indifferenza e l’apatia, per una battaglia che è di tutti. Che ognuno di noi deve sentire propria. Perché, come ha sottolineato nel suo intervento la dirigente scolastica del “Fermi” Graziella Ramondino, “la scuola è da sempre stata il tempio della cultura e della civiltà: la profanazione di una sua istituzione, quale che sia la matrice, simboleggia comunque un attentato alla civiltà e al progresso degli uomini e va respinta con ogni forza ed energia per evitare che conquiste millenarie dell’occidente civilizzato regrediscano d’un colpo nella barbarie”.
In una comunità che deve essere solidale, il momento dello scontro e delle divisioni non può sussistere quando viene colpito il futuro delle nuove generazioni. L’auspicio è che siano organizzate altre iniziative, oltre a questa spontanea e “improvvisata” dalla sera alla mattina attraverso il tam-tam dei social sulla spinta emotiva dell’indignazione, alla quale non tutti coloro che avrebbero voluto hanno potuto partecipare. Un consiglio comunale aperto darebbe una dimensione ufficiale e un taglio istituzionale, com’è giusto che sia quando episodi così gravi colpiscono la cittadinanza.
Questo è il momento dell’unità, l’ora in cui la comunità diventa testuggine. L’ora in cui tutti devono dare un contributo di civiltà, la goccia che insieme ad altre gocce diventa mare. L’ora in cui l’I care di don Milani diventa azione.
Perché quel “me ne importa, mi sta a cuore” contiene la forza rivoluzionaria del cambiamento reale, quello delle coscienze che la scuola è chiamata a formare. Delle donne e degli uomini che verranno e che vogliamo migliori di noi.

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Ti seguirò fuori dall’acqua

Dario Fani è un sociologo esperto in progettazione socio-sanitaria e formatore. Un uomo di successo abituato a vivere di corsa, costantemente concentrato sugli obiettivi da raggiungere sul lavoro. Ha il rimpianto di non essere ancora diventato padre mentre gli anni scorrono inesorabili, la moglie sulla soglia dei quaranta, lui già oltre, quando inaspettata arriva la gravidanza tanto desiderata. Il bimbo che si faceva attendere da quattro anni nasce però con tre mesi di anticipo e con un cromosoma di troppo, 47 invece di 46. E qua comincia un’altra storia, che niente ha a che vedere con la gelida paginetta delle istruzioni consegnata dalla dottoressa al genitore per illustrare le caratteristiche della trisomia 21, o sindrome di Down, o mongoloidismo: le tre definizioni che indicano la presenza di un cromosoma in più, o di una sua parte, nella coppia cromosomica 21.
Ti seguirò fuori dall’acqua (Salani Editore, 2015) è il racconto di un percorso di salvezza che inizia con il “dialogo” tra un papà al di qua del vetro e il “pesciolino” di trentadue settimane costretto alla vita intrauterina riprodotta dall’incubatrice-acquario del reparto di neonatologia. È una storia d’amore travagliata come le più belle storie d’amore lette su pagine ingiallite o sospirate in sale buie. Solo che non è finzione, ma racconto reale, fatto di lacrime di disperazione e di gioia, la sostanza stessa della vita. Una catarsi che attraversa tre stadi: rifiuto, accettazione razionale, amore.
Il rifiuto iniziale è quello di un padre che ha la sensazione di essere entrato in una fiaba scura, una favola non sua, che sospetta addirittura l’eventualità di uno scambio tra neonati. Reazione non inconsueta per il genitore di un bimbo affetto da disabilità, riflesso inconscio della fatica di accettare la realtà e riconoscere come proprio un dolore così grande, che non può appartenergli. Una sorta di tradimento delle aspettative che porta ad accuse feroci nei confronti del neonato “assassino” del figlio sognato e “ladro” di una vita non sua: “tu non sei nato, ieri; ieri sei morto”.
Il punto di svolta si ha al primo vero contatto, perché – come sottolinea l’autore – “la vera esperienza passa tra le mani”. Passa dal dito del padre, al quale il piccolo si aggrappa con la forza di un leone e dal quale non vuole più staccarsi, mentre agita la gambetta appena alle labbra viene avvicinato il biberon.
Il pesciolino si chiamerà Francesco, perché è stupido pensare di non dovere “sprecare” il nome buono per un bimbo disabile che è invece riuscito a trasformare “l’orrendo in meraviglioso”. Una creatura che è la cura, non la malattia. Che è nato per guarire, non per essere guarito. Un “supereroe” vincente per nascita, se si considera che 78 casi di sindrome Down su cento diventano aborti naturali. E che salva il padre insegnandogli il coraggio e l’amore che non ha paura: quello che rende liberi anche da se stessi.
Perché quello che importa – rivela a Dario il padre di un “pesciolino” che invece non ce la farà ad uscire dall’acquario – non è fin dove potrà arrivare un figlio disabile, quali competenze e abilità riuscirà ad acquisire, se sarà in parte autosufficiente o se non lo sarà affatto. Importerà ciò che i genitori e chi gli vorrà bene saranno “capaci di fare”, ciò che saranno “disposti a diventare”: “conta se noi saremo capaci di arrivare alla sua altezza”.
Se ciò accadrà, anche soltanto “una smorfia non sarà qualcosa o poco, l’avanzo di un tutto”: sarà “il Tutto”.

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Mariuzza

Ci aveva aspettati nel letto. Non in cucina, dove anche dalla sedia a rotelle fino all’anno scorso riusciva a cucinare per figli e nipoti. Come le altre volte aveva baciato il ricordino dell’Agape e l’aveva fatto sistemare sulla specchiera antica, accanto a quelli più vecchi e alle foto in bianco e nero della sua vita. Il nostro modo di celebrare Natale, Pasqua o la “Giornata Mondiale del Malato” istituita nel 1992 da Giovanni Paolo II, che l’11 febbraio di ogni anno impegna i volontari dell’associazione nelle visite domiciliari e presso la residenza sanitaria assistenziale “Mons. Prof. Antonino Messina” di Sant’Eufemia. Una lunga fila di presepi, madonnine, rosari, immaginette sacre. L’essenza dei suoi giorni, comprensibile forse solo da chi ha la fortuna del dono di una fede incrollabile.
Mariuzza aveva avuto questo regalo. Almeno questo. La sua vita non è stata affatto rassegnazione, un calare la testa davanti ai colpi implacabili del fato. Se era una prova, l’ha superata brillantemente. E non perché abbia affrontato con dignità gli schiaffi che il destino non le ha risparmiato, ma perché delle avversità ha fatto la ragione della sua vita. Ergendosi a modello di mamma e di donna. Mostrando agli altri, a tutti noi, quanta forza può sprigionare l’amore per la propria famiglia.
Una lotta quotidiana e infinita contro malattie e disabilità, condotta col sorriso e senza mai un lamento. Alzandosi alle tre di notte per fare il bucato, perché di giorno c’era da mandare avanti il negozio di alimentari e un fratello, due figli e infine un marito bisognosi d’assistenza.
I veri eroi di questi nostri tempi sciagurati sono le donne e gli uomini come Mariuzza. Eroi silenziosi e forti, capaci di salvare il mondo con l’umanità dell’esempio, con l’umiltà che solo i grandi possiedono.
Non abbiamo saputo fare altro che abbracciare quel bambinone che singhiozzava il dolore di una solitudine che siamo certi la famiglia non permetterà. Eppure in quelle lacrime c’era l’amore più limpido e puro, che spesso non riusciamo a vedere perché lo cerchiamo dove ce l’aspettiamo, nella banalità delle nostre vite “normali”.

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La salita

Conosco metro per metro la salita che da piazza del Popolo porta all’Eremo. La percorrevo aggrappato al collo di mia mamma ed era come guardare il mondo da sopra una giostra, con l’orizzonte che si abbassa e sale. Ora più lontano, ora più vicino. Sentivo il suo cuore premere sulla mia pancia, il respiro sempre più affaticato nonostante il sorriso. Ogni tanto si fermava per riprendere fiato, mi faceva sedere su un gradino o mi appoggiava al cofano di un’auto parcheggiata sul marciapiedi. Si asciugava il sudore con un enorme fazzoletto di cotone, mi timbrava la fronte con un bacio e ripartivamo. Osservavo la sua sofferenza e il mondo attorno a lei, quel mondo che non riuscivo ad ascoltare, né a calpestare.
Dicono che le sventure non arrivano mai da sole, preferiscono la compagnia. Anche se la mia non era una disgrazia vera e propria: io non l’ho mai percepita così. Soltanto, è successo a me. Siamo percentuali di statistiche che altri più in gamba di noi spiegano e io sono l’uno su mille al quale è capitato di nascere sordo. I miei genitori se ne accorsero poco prima che compissi tre anni, insospettiti dal mio farfugliare senza senso e dai movimenti scoordinati. Accadde quando già era evidente che non era la pigrizia la causa delle mie difficoltà motorie, della posizione innaturale degli arti. Al Gaslini di Genova stabilirono che il tono muscolare dei miei muscoli era troppo basso: ipotonia. Ma con la fisioterapia avrei recuperato. Occorreva pazienza, mia mamma ne aveva. Tutte le mattine prendevamo il pullman dalla provincia al capoluogo, il mare cangiante sembrava scivolare alla nostra destra tra noi e la Sicilia. Un tempo sospeso che passavo incollato al vetro per guardare barche e onde, gabbiani e adorni prima dell’ingresso a Reggio.
Le braccia di mia mamma erano un riparo sicuro, una corazza impenetrabile dalla fermata dell’autobus all’Ortopedico. Ce l’avrei fatta a camminare e un giorno sarei stato io a sorreggerla, ad aiutarla a portare le buste della spesa, a sistemare la legna per la stufa. Sarebbe stata fiera di me e a mano a mano che facevo progressi immaginava la scena di lei orgogliosa davanti a suo padre, che non aveva voluto dare neanche un soldo per i nostri viaggi a Genova. Non valeva la pena sprecare denaro per tentare di dare forza alle gambe di un bambino nato sordo. Rimanevo pur sempre un handicappato, una vergogna da nascondere nell’angolo più buio della casa, da non mostrare in pubblico. Tantomeno da spenderci soldi per offrirgli la possibilità di frequentare bimbi “normali”, giocare e crescere insieme a loro.
– Questo è il mio campione, papà.
Mamma gli avrebbe detto proprio così: il mio campione.
Non sono figlio di un dio minore. Sono figlio di mia mamma e di mio padre. Sono figlio di mani sporche di terra e calce, di schiene piegate a raccogliere olive e a impastare cemento. Sono figlio dell’amore di chi ha infilato anche soltanto mille lire nella fessura del salvadanaio che il salumiere per anni ha tenuto accanto alla cassa. Perché Genova può essere un miraggio per chi a stento ha da mangiare.
Ogni mio passo ha avuto il sostegno di mani misericordiose e silenziose. Le “parole” e i gesti imparati dall’altra parte di un mare che non divide contengono il calore che spande da case sgarrupate. Di quello vivo, con quello riscaldo i miei giorni ora che riesco a farmi comprendere. Ora che mia madre non deve più togliere la giacca per difendere il mio viso dal freddo e dalla pioggia sferzante, su per quel cammino infinito.

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