Ambulanti e sognatori

Foto www.circo.it

Almeno una volta nella vita, a molti sarà capitato di essere svegliati dal nastro registrato che giunge fioco da lontano, squilla sotto la finestra e va via sfumando con il suo messaggio di speranza: la possibilità di risolvere in poche mosse un guasto ai fornelli della cucina.
Ripariamo cucine a gasse. Abbiamo tutti i pezzi di ricambio per le cucine a gasse. Se avete perdite di gasse, noi le aggiustiamo; se la vostra cucina fa fumo, noi togliamo il fumo dalla vostra cucina a gasse. Lavoro subito e immediato.
Ecco l’aggiustatore di cucine “a gasse”, riconoscibile dal passo di bradipo della vettura che si arresta per una manciata di secondi agli incroci delle vie, attende gli eventuali clienti e dagli altoparlanti innaffia l’aria di ottimismo.
Gli ambulanti fanno parte di una dimensione onirica, lì resistono al fluire del tempo animando una realtà autonoma che prescinde dal ruolo ricoperto all’interno della famiglia o nella città d’origine. Di loro si conoscono il jingle e la filastrocca che ne precedono l’arrivo, qualche episodio divertente, i tic e gli aspetti buffi del loro carattere o del look. Pochissimo si sa, invece, degli uomini e delle donne che vivono dentro i protagonisti dell’immaginario collettivo e della storia del costume di una comunità.
La mia generazione è cresciuta correndo dietro al camioncino della Palmisanella, una sorta di bazar di prodotti per la casa: pezzo forte era l’omonimo detersivo, “risultato” di una formula chimica la cui segretezza era equiparabile, forse, soltanto alla ricetta della coca-cola.
Scope, spugne, attaccapanni, carta igienica, lana d’acciaio, saponata… è la Palmisanella: l’unico prodotto che candeggia e non corrode la vostra biancheria. Avvicinatevi, donne.
Più indietro si risale nel tempo e più numerosi sono i “personaggi” – non sempre venditori ambulanti – rimasti impressi nella memoria di chi c’era, in epoche oggi percepite come lontanissime ere geologiche. Un po’ perché, avendo la modernità trasformato usi e abitudini, alcune figure sono scomparse o sopravvivono tra mille difficoltà; un po’ perché, altre, non hanno più ragione di esistere. Arrivavano dai paesi della provincia o anche da Messina, sebbene qualcuno fosse autoctono. I forestieri scendevano dalla corriera, in piazza, o dalla sbuffante Littorina a carbone, nella stazione, per aggiungere al quadro variegato dell’umanità cittadina la propria personale tonalità di colore.
Il contesto economico e sociale caratterizzato da una condizione di diffusa povertà favoriva il ricorso al baratto nelle compravendite. Se il cliente dell’umbrellaru non aveva denaro per pagare la riparazione, poteva saldare il debito offrendo prodotti alimentari, perlopiù uova e patate. Con il capiddaru i ruoli si invertivano. Era l’ambulante ad “acquistare” – per poi rivendere a qualche fabbricante di parrucche o di bambole – i capelli spiccicati con il pettine da nonne, mamme e bambine, le frangette accorciate o le trecce recise: “u capiddaru passa… i capiddi vi cangiu”, il grido che faceva affacciare dall’uscio le massaie pronte a scambiare con secchi, bidoni o fiori di plastica il sacchetto riempito con le ciocche raccolte.
Per le strade era un vandijari continuo. Il calderaio (“U caddararu conza e stagna”) portava con sé l’occorrente per rimettere in sesto padelle, pentole, tijelle e paioli di rame. Don Carluccio offriva dalla cassetta che gli pendeva davanti al petto (“don Carluccio passa!”) filo, aghi, elastici e ditali, utilissimi in tempi in cui tutte le donne erano artiste del ricamo e del rammendo. Il gelataio Gigi “Buttigghia” metteva le carte in tavola: “gelati, graniti… senza sordi non veniti”. Ma spesso regalava un piccolo cono ai bimbi che lo aiutavano a spingere nelle salite il carretto a pedali su cui trovavano sistemazione i contenitori del gelato e i blocchi di ghiaccio indispensabili per non farlo sciogliere.
Anche mastro Michele “u pettinareddu” appagava la golosità dei ragazzi con soli due gusti, limone e cioccolato, lui che – ad eccezione dei mesi estivi – in realtà girava le strade per vendere stoffe e articoli di merceria, prima di mettere su un genere alimentari dove era possibile trovare pure le figurine Panini. D’altronde, non era il solo ad esercitare più mestieri: il cristinoto radeva barbe, ma appena incastrava nell’occhio destro il monocolo che teneva in tasca si trasformava in apprezzato rrivogiaru.
Sulle due ruote si spostava anche l’arrotino, con a bordo la cassetta degli attrezzi e la mola affilatrice che veniva azionata dai pedali della bicicletta stessa.
Fòto-fìa è à-rrivà-t” era invece l’espressione sincopata del fotografo che attraversava lo Stretto prevalentemente in occasione delle feste di paese. Aria professionale dietro la macchina a soffietto montata sul treppiedi, infilava la testa sotto il mantello nero che lo copriva fino alle spalle, la mano sinistra a reggere in alto il lampeggiatore al magnesio, nella destra la pompetta di azionamento: “sorridere, sorridere”, l’invito rivolto ai soggetti in posa. Attorno a lui, nidiate di bambini che lo imploravano affinché consentisse loro di guardare dentro l’obiettivo per ammirare il portento dell’immagine capovolta degli estemporanei modelli.
Le voci degli ambulanti avevano un contraltare “istituzionale” nel banditore comunale, il quale in realtà si metteva a disposizione sia del pubblico che del privato. Annunciava infatti alla popolazione l’orario di sospensione del servizio idrico, ma anche la presenza di primizie nel mercato domenicale e nelle putighe del paese. Quando non specificava in quale dei “Paddechi” fosse arrivata la “novità”, la strada diventava teatro di un simpatico siparietto ad alto volume:
Arrivau u favi!
Nto Paddecu d’ammunti o nto Paddecu i gghiusu?
Ma la piazza non era soltanto la sede del mercato. Qui veniva sistemato il telone sul quale il proiettore, da un autocarro, lanciava le immagini dei documentari e dei cinegiornali dell’Istituto Luce, attese con ansia da un pubblico numerosissimo e curioso di sapere ciò che accadeva “fuori”, lontano dai campi dell’Aspromonte. Molto seguiti erano anche gli spettacoli dei cantastorie, che incantavano gli spettatori con il racconto delle vicissitudini della baronessa di Carini, del brigante Musolino o del bandito Giuliano, alternando la canzone alla recitazione, mentre con una bacchetta aiutavano il pubblico a seguire le scene dipinte sul telo srotolato che illustrava la sequenza degli avvenimenti narrati.
Un universo felliniano, nel quale trovavano una naturale collocazione giocolieri e saltimabanchi. Il circo di Fortunello (“Mi chiamo Fortunello, non son brutto e non son bello”) e poi quello mitico di Zavatta allestito al “mercato dei porci”. Protagonisti assoluti il titolare e clown Scarpacotta, con le sue enormi scarpe da scena, artista tuttofare che passava dalla rappresentazione del duello tra i compari Alfio e Turiddu agli esercizi acrobatici, e Rosina, miraggio inarrivabile per i ragazzi che incantati ne seguivano il volteggiare in costumino rosa sul trapezio o l’incedere da amazzone in groppa al cavallo. Un tacito accordo consentiva il pagamento del biglietto d’ingresso in prodotti dell’orto, quando non erano gli stessi circensi a richiedere espressamente un compenso in generi alimentari.
Sogni a basso costo, come la fortuna venduta da Rocco con la collaborazione di un pappagallo che “sceglieva” con il becco tra i biglietti arrotolati e sistemati in due piccoli cassetti: uno contenente i messaggi “per signorina”, l’altro quelli “per ragazzino”, sui quali veniva indirizzato a seconda delle richieste.
Sogni del passato che rivivono nel presente, nostalgia per un mondo scomparso e affidato al ricordo dei tempi andati.

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Compagni di scuola in una foto degli anni Cinquanta

Eccoli qua i nostri genitori, i nonni di molti che scruteranno la foto con la
curiosità del visitatore di una mostra sulla condizione delle famiglie povere
del secolo scorso. Non ci vuole molta fantasia per riconoscere i nostri
lineamenti in questi volti seppiati di metà anni ’50, nel lungo ciuffo di lato
che sembra ricordare la recente tragedia della guerra scatenata dal criminale nazista,
nelle maglie a righe lavorate ai ferri, spesso il prodotto di un’economia che
ancora era da baratto e che non riusciva a riempire la pancia di chi non aveva almeno
una striscia di terra da coltivare.

Non ride quasi nessuno tra gli alunni in posa per la foto di una terza classe
elementare di Sant’Eufemia, forse nel primo anno scolastico svolto nell’attuale
edificio della “Don Bosco”. Erano state da poco abbandonate le classi dislocate
in diverse baracche del paese, con i pennini che se non li sapevi trattare con
delicatezza finivano per allargare chiazze nere sui fogli e i calamai riempiti
ogni mattina a metà, all’origine delle punizioni più severe per i ragazzini che
anche soltanto fortuitamente ne avessero rovesciato sul banco l’inchiostro.   

Bambini e bambine di tutte le tutte le “taglie”, i regolari accanto ai ripetenti di
lungo corso, questi ultimi solitamente provenienti da famiglie poverissime per
le quali le priorità erano altre rispetto alla frequenza scolastica dei figli. 
Con loro il maestro Chiné, che arrivava tutti i giorni da Reggio Calabria percorrendo
la strada provinciale a bordo di una Vespa in compagnia del collega Errera. La costruzione dell’autostrada era ancora un lontano miraggio. Personaggi appartenenti agli anni mitici del servizio vissuto come una missione da svolgere nella trincea dell’Aspromonte. Con il caldo e con il
freddo, oppure sfidando Giove pluvio coperti alla meglio dalla cerata che molto,
tuttavia, lasciava al dominio della pioggia battente. Sia detto senza retorica:
due insegnanti eroici. Memorabile quella volta che la motoretta sbandò in un tornante tra Scilla e Bagnara, trascinando i due maestri a terra. Per lo stupore degli alunni che assistettero al loro sofferente ingresso in classe, lacerati
e con i pantaloni a brandelli.   
Non ridono Bazzicotto, Straccio e tutti gli altri figli del secondo dopoguerra, di lì a poco artefici del riscatto di una generazione che non aveva niente e che in paese, al Nord Italia o all’estero sarebbe riuscita a realizzare il miracolo: assicurare ai propri figli condizioni di vita neanche immaginabili
negli anni della grande miseria.   
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Fermata Z225

© foto di Sara Bonfiglio

Avessi ascoltato le parole di mia nonna, non mi ritroverei inzuppata sotto questa appiccicosa pioggia estiva. Pesante. Che non lava.
L’ombrello portatelo quando esci. Che ti costa? Guarda che il tempo ci mette niente a cambiare e tu sei quasi sempre a piedi.
La saggezza degli anziani, condensata nell’elenco di raccomandazioni per chi, come me, a neanche vent’anni si trasferisce in una grande città per inseguire il sogno della laurea in un’università che conta. Che forse dà qualche possibilità in più. Vai a vedere, poi, se davvero sarà così. Un sacrificio indossato da genitori eroici giorno dopo giorno, stessi vestiti per anni e anni, ché il poco che riescono a mettere da parte serve a mantenere gli studi di noi ragazzi in fuga. E poi la pensione dei nonni, le banconote che transitano furtivamente dalle loro alle nostre mani non appena le mamme voltano lo sguardo, nella scena clou di un numero preparato alla perfezione.
Questi soldi non li spendere. Tienili nascosti, per le emergenze.
Le scarpe che implorano di essere portate via, di là del vetro di una vetrina. O il giubbotto rosso che sì, con gli sconti è un affare da non lasciarsi scappare. Le “emergenze” di noi studenti fuori sede, al ritorno perennemente mancupati perché presi dallo studio e perché, in ogni caso, il mangiare di qua non può essere uguale a quello di casa.
Consigli che si dissolvono alla prima curva, insieme alle abitazioni dietro, ammassate una accanto all’altra, ai piani incompiuti e superflui nel loro orribile rosso mattone, alla testardaggine di chi resta in posti sempre più vuoti, dolenti.
I pericoli della strada, a quelli occorre prestare attenzione. La metropoli vive sotto l’assedio di macchine che sfrecciano negli incroci, di tram che spuntano all’improvviso da dietro le curve. In paese raccontano ancora del povero Peppe, morto un paio di giorni dopo il suo arrivo a Milano negli anni del boom economico, schiacciato in pieno centro da una bestia metallica su binari che dalle parti dell’Aspromonte nessuno aveva mai visto. Altri tempi, altri sogni da inseguire dopo avere scaraventato lontano la zappa per passare dallo sfruttamento all’aria aperta dei campi alla schiavitù del chiuso di una catena di montaggio. Il prezzo del benessere.
Quelli che ce l’hanno con te quando comprendono l’origine del canto antico di parole ora dure, ora aspirate, forti e scavate come le rocce della montagna che le ha partorite. Attenta anche a loro.
Le reazioni della psiche al cospetto del dolore sono spesso drammaticamente buffe. Rimandano a frasi recuperate nell’archivio dei ricordi, senza una logica evidente. Riproducono il tono austero del monito, ticchettando nella memoria come le gocce d’acqua sulla copertina plastificata del manuale di psicologia che difende dalla pioggia me e il lavoro scrupoloso della piastra sui miei capelli.
Adesso rimbomba nella mia testa una raccomandazione alla quale non ho mai dato eccessiva importanza.
Stai attenta ai borseggiatori. E se qualcuno cerca di scipparti, non opporre resistenza.
Guardo le lacrime miste a sangue della signora rannicchiata sotto la pensilina della fermata Z225 e ripenso al rosario di consigli snocciolato da mia nonna nelle ore che precedono ogni mia partenza.
La donna vorrebbe trattenersi. Lo capisco da come si morde le labbra e dai singhiozzi soffocati, dagli occhi bassi che non vogliono incontrare altri occhi, fissi sulla tela bianca delle Lacoste schizzate di fango. Smarrita dentro una canottiera nera, i jeans di una taglia che non può essere la sua. O forse sì, in un passato chissà quanto distante. La pelle penzolante dalle braccia ossute, stanca. I capelli raccolti in una lunga treccia, di un grigio che fa intuire il molto tempo trascorso dall’ultima tinta e aggiunge anni ai circa quaranta scolpiti nel viso cotto dal sole, che ricorda il crollo di una diga.
È da poco riuscita a sottrarsi alle botte del branco che cinquecento metri più in là l’ha inseguita nel sottopasso della metro e, dopo averla bloccata a metà scale, ha fatto di quel corpo esile il sacco da boxe per ragazzi delusi dal magro bottino contenuto nella sua borsetta da disoccupata cronica.
Non vuole essere aiutata, non vuole che io chiami la polizia. Più tardi andrà lei a sporgere denuncia, mi dice. Ma so che non lo farà. Risponde alle mie domande sussurrando monosillabi e sembra preferire il silenzio della ragazzina seduta accanto a lei, ipnotizzata dal display del telefonino, l’espressione assente. Indifferente come chi ha visto e non è intervenuto, come chi ha anzi accelerato il passo per guadagnare svelto il cielo grigio dell’uscita.
L’autobus in arrivo porterà altrove queste esistenze che il caso ha fatto incontrare in un mattino metropolitano proprio qui, dove una vita può valere cinque euro, tra altre vite che passano, distratte.

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Il 2014 del Csv dei Due Mari

C’è anche un pezzetto di Sant’Eufemia nel video che racconta le attività svolte nel 2014 dal Centro Servizi al Volontariato dei Due Mari con associazioni, scuole e terzo settore della provincia di Reggio Calabria. In particolare, ci sono i ragazzi del liceo scientifico “Enrico Fermi”, impegnati nel progetto “Per il nostro bene comune”, realizzato in collaborazione con l’amministrazione comunale e con le associazioni di volontariato “Agape” (Sant’Eufemia) e “Asproverde” (Sinopoli).
Circa un anno fa, avevo raccontato l’evento conclusivo di questa bella iniziativa nell’articolo Seminatori di bellezza (qui).

*Il video, realizzato da Lucia Griso, è tratto dal profilo Facebook “Scatti di Valore”.
Buona visione.


UN ANNO INSIEME!In questo video il racconto per immagini del cammino fatto dal CSV dei Due Mari con le Associazioni della provincia di Reggio, ma anche con le Scuole, il Terzo Settore e la comunità territoriale nel 2014
Posted by Scatti Di Valore on Venerdì 12 giugno 2015

  

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Umberto Eco e gli imbecilli del web

Ho assistito, ovviamente sui social media, alla polemica suscitata dalle parole di Umberto Eco a proposito degli effetti negativi di un certo utilizzo dei social stessi. Ho condiviso il suo pensiero, che credo abbia espresso in maniera volutamente provocatoria. Talmente provocatoria che tutti i siti d’informazione ci hanno dopo fatto il titolo: “Con i social parola a legioni di imbecilli” (La Stampa, versione digitale). La polemica, a ben vedere, è nata proprio sui titoli: assist formidabili per calarsi l’elmetto in testa e partire all’attacco dell’intellettuale spocchioso, arrogante e pieno di sé, che giudica la plebaglia incolta dall’alto della sua cattedra e delle sue innumerevoli lauree honoris causa, moderno marchese del Grillo in ermellino: “io so’ io e voi non siete un cazzo”.
Se in generale si riuscisse ad andare più in profondità, nel caso della lettura di un pezzo giornalistico a scorrere con gli occhi un paio di righe sotto i titoli dell’articolo o del suo “lancio” sul web, si scoprirebbe che spesso il pensiero è più articolato della sua sintesi, più complesso dell’esca che incoraggia gli internauti a cliccare sulla notizia. Una categoria nella quale abbondano i “pigri”, coloro che neanche aprono il link per collegarsi alla notizia e finiscono così per confondere l’iperbole con la realtà.
Tornando a Umberto Eco, il resoconto del suo intervento nell’articolo pubblicato dal giornale torinese dice altro, e precisamente che l’illustre semiologo invita i giornali “a filtrare con un’equipe di specialisti le informazioni di internet perché nessuno è in grado di capire oggi se un sito sia attendibile o meno. I giornali dovrebbero dedicare almeno due pagine all’analisi critica dei siti, così come i professori dovrebbero insegnare ai ragazzi a utilizzare i siti per fare i temi. Saper copiare è una virtù ma bisogna paragonare le informazioni per capire se sono attendibili o meno”.
Nell’epoca delle rivelazioni “sensazionali” sui “danni” provocati da quel vaccino o sulla “pericolosità” di determinati alimenti, del “nessun giornale ve lo racconta” e del terrorismo mediatico che alimenta psicosi collettive, il richiamo di Eco a un maggiore rigore nella selezione delle informazioni che galleggiano nell’oceano di internet andrebbe invece accolto come espressione di buon senso. Altro che spocchia.

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Parole nel comò

Accade spesso di ritrovarsi, come per incanto, dentro al set cinematografico allestito dai nostri genitori e nonni nelle strade e nelle piazze dei loro verdi anni. Chiudiamo gli occhi, ci lasciamo trasportare dalla nenia di parole lievi e il gioco è fatto. La macchina del tempo, lesta, ci riporta agli anni del secondo dopoguerra, tra i pargoli in pagliaccetto e la dignità di gente che si faceva bastare il poco di cui disponeva. Rileggiamo con occhi stupiti storie che abbiamo ascoltato un’infinità di volte, rivediamo “personaggi” amati da un’intera collettività, cortili chiassosi di vita bambina, eroi inconsapevoli che arrivavano in paese chissà da dove, mettevano in piedi un semplicissimo ma strabiliante spettacolo e poi andavano via.
Il racconto addolcisce la nostalgia, cancella le rughe e colora i capelli, sospende il rimpianto per ciò che poteva essere e non è stato mescolando i sentimenti nella centrifuga dei ricordi. Apre i cassetti e tira fuori tutto quello che c’è dentro, compresa quella vecchia e buffa camicia che a rifletterci ora pensi come diavolo ti è venuto in mente di conservarla.
Vittoria Saccà, insegnante, giornalista, scrittrice e pittrice nata a Seminara ma cresciuta a Sant’Eufemia d’Aspromonte prima di venire “rapita” da Tropea, ha infilato il naso nel “mare di cianfrusaglie” del primo cassetto del mobile dei nonni e ha tirato fuori i racconti “dall’Aspromonte al Tirreno” di Parole nel comò (Editore Meligrana, 2014). Ed è balsamo per l’anima riandare ai giochi di una stagione spensierata, rincorrere con la piccola Vittoria le farfalle dalle ali bianche o Coscimuzzu “u tamburinaru”, farsi trascinare nel sogno del circo Zavatta di stanza al “mercato dei porci” e riprodotto nella meraviglia domestica di pomeriggi infiniti. Luoghi e posti sui quali la penna dell’autrice si posa ora con ironia, ora con mestizia, ma sempre con la delicatezza della pittrice che accarezza la tela con un pennello imbevuto d’amore per la propria terra.
Nei racconti di Vittoria Saccà c’è l’Italia che a fatica tenta di uscire dalla povertà della guerra, popolata da protagonisti “minori” nella loro grandezza come Maria, che con la sua umile esistenza ci insegna quanta felicità possa procurare donarsi al prossimo. O come Rosa “la bella”, che vorrebbe andare a scuola e imparare a suonare il pianoforte, ma è costretta a ripiegare i suoi sogni insieme alle camicie stirate nella sua precoce vita di mamma cui la povertà la costringe.
Il mondo dell’eterna diatriba su chi fosse il più grande tra Claudio Villa e Domenico Modugno, il negozio “portabile” attaccato al collo di don Carluccio svaniscono nel presente iper-tecnologico, con una cesura netta: “ora vivo tra il cielo e il mare”, rivela l’autrice cresciuta ai piedi dell’Aspromonte e realizzatasi nella città che la mitologia vuole fondata da Ercole e dagli Argonauti alla ricerca del vello d’oro.
Parole nel comò non è “soltanto” un libro di ricordi. Qua e là emerge la giornalista che va alla ricerca di storie nascoste (di Luana che subisce violenza e vive “dentro una bolla di nero fumo”, dell’anziana signora che attende alla stazione il nipote morto da tempo); l’insegnante che si diverte con parole e numeri, o che mette al bando la punteggiatura e trascina il lettore nel gioco – che gioco non è – del flusso della coscienza. Mentre il lato onirico della scrittrice di fiabe per bambini può prendere “buzzatianamente” vita nel racconto “I mundizzi” o riprodurre in “Piccola ladra” la magia del “Canto di Natale” di Charles Dickens.
Un libro di vita e di vite, quindi anche di morte e di dolorose assenze, che tuttavia invita ad amare i giorni concessi a ciascuno di noi, “a prescindere”.

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Ruggiero Settimo e Ruggero VII, quando la storia diventa un optional

Il viandante che abbia fiato e gambe per percorrere a piedi la ripida salita di via Roma a Sant’Eufemia d’Aspromonte (nota come “u carvariu: il calvario”, dal monumento che quasi in cima al percorso riproduce le tre croci del Golgota) noterà senz’altro sulla sua sinistra, alla fine del primo tratto, la viuzza che taglia verso Largo Campanella e infine digrada nell’area adiacente al torrente Nucarabella.
Un viandante curioso, che si pone delle domande perché vuole conoscere l’origine e la motivazione storica dei nomi delle strade, resterà però interdetto nel leggere sul cartello toponomastico “via Ruggero VII”. Comincerà a ripassare la storia imparata sui libri di scuola, ma niente. Tutt’al più gli balzerà in mente Ruggero II d’Altavilla, re di Sicilia (“Ruggero il normanno”), passato alla storia per avere riunito sotto la propria corona i possedimenti normanni dell’Italia meridionale e per avere generato Costanza, futura mamma dello “stupor mundi” Federico II di Svevia. Al “settimo” non ci arriverà mai e poi mai, semplicemente perché non è mai esistito un Ruggero con un ordinale dinastico del genere. Settimo, nel caso in questione, è infatti un cognome.

La vicenda è paradigmatica, tipica di un Paese ignorante che non conosce il proprio passato o se ne ricorda ogni tanto, in circostanze solitamente traboccanti retorica, ma verso il quale ha in fondo un atteggiamento di fredda indifferenza.
Non è sempre stato così. Sul foglio di mappa redatto dall’Ufficio tecnico del Comune nel 1880, la via viene infatti segnalata correttamente come “Ruggero Settimo”, che fu il primo presidente del Senato nella storia dell’Italia unita, morto a Malta il 12 maggio 1863 senza essere in realtà riuscito nemmeno a recarsi a Torino per prestare giuramento, a causa delle sue malandate condizioni di salute.
Si trattò, allora, di una sorta di omaggio da parte di Cavour e dell’establishment sabaudo al politico leader della rivolta siciliana del 1848, capo del governo provvisorio che aveva dichiarato decaduto Ferdinando IV di Borbone e offerto la corona del regno di Sicilia al duca di Genova, Alberto Amedeo di Savoia (il quale tuttavia non accettò l’offerta). Ma fu anche una designazione dal profondo significato politico, perché Ruggero (o Ruggiero) Settimo “dei principi di Fitalia”, antico protagonista del movimento liberale che in Sicilia aveva ottenuto la costituzione del 1812 e poi guidato il moto separatista del 1820, rappresentava quei ceti dominanti della Sicilia, un tempo autonomisti e indipendentisti, che ora venivano recuperati alla causa nazionale e unitaria.
Ventitré anni più tardi, sul foglio di mappa del 1903, veniva invece già riportato lo strafalcione in seguito puntualmente reiterato, senza che nessuno lo rilevasse. Tutt’oggi impunito, campeggia sul muro di un’abitazione, superba e avvilente dimostrazione dell’importanza attribuita alla storia in questa società fatta di solo presente.

*Ringrazio per le fotografie Fausto Monterosso
** Il ritratto di Ruggiero Settimo, realizzato da Giuseppe Patania, è custodito presso il Museo del Risorgimento di Palermo

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La stampa inglese, noi e la Salerno-Reggio Calabria

Leggevo ieri sul “Quotidiano del Sud” la notizia della critica ironica e spietata del giornale inglese “The Indipendent” a proposito dei lavori eterni sulla Salerno-Reggio Calabria, tornati ancora una volta d’attualità dopo la rassicurazione del presidente del Consiglio Renzi circa il loro completamento entro il 2016. Ho chiesto la collaborazione di Mario “il londinese” per una traduzione ottimale del pezzo firmato da Michael Day il 20 maggio (“Ultimo sforzo per l’autostrada italiana ‘eterna incompiuta’, a 50 anni dall’inizio dei lavori”), che pubblico. Insomma, al netto di qualche scontato luogo comune, il dato è che non siamo ben visti e che l’ironia degli inglesi sui ritardi nei lavori della nostra autostrada è purtroppo giustificata.

Nel 1966 Lunar 9 fu la prima navetta spaziale ad atterrare sulla luna, l’Inghilterra vinse la coppa del mondo, l’Italia aprì il primo tratto dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria.
Nel successivo mezzo secolo, le missioni spaziali hanno raggiunto obiettivi più importanti e l’Inghilterra non ha più vinto, ma incredibilmente l’Italia sta ancora, lentamente, lavorando alla costruzione dell’autostrada A3, generalmente conosciuta come “l’eterna incompiuta”.
La costruzione di quest’autostrada, 443km di distanza da Salerno, sud di Napoli, giù sino a Reggio Calabria, la punta dello stivale italiano, è stata condizionata da lavori non regolari, ritardi e scandali. I sindacalisti affermano che l’autostrada rappresenta l’incarnazione di tutto ciò che va male nel Paese, azzoppato dalla corruzione e dalla cattiva amministrazione: “l’autostrada è il simbolo di come le opere pubbliche siano gestite in Italia”, dice Stefano Zerbi, portavoce del Codacons, l’organizzazione che tutela i consumatori italiani.
Non è un segreto che l’autostrada parte dalla Campania, la casa della Camorra, e poi scende giù fino alle aree malfamate della Ndrangheta, che includono città come Rosarno e Gioia Tauro.
Se da un lato i mafiosi guadagnano milioni grazie a contratti di lavoro con ditte a loro affiliate, dall’altro fanno anche in modo che l’autostrada non disturbi le altre loro attività. Infatti, a circa metà percorso, sembra che l’autostrada torni indietro curvando goffamente su se stessa. Si dice che questa deviazione sia stata fatta per soddisfare la richiesta di un boss locale che non voleva che l’autostrada passasse troppo vicino alla propria villa.
Questa settimana però il primo ministro Matteo Renzi, che sembra essersi imbarcato nella missione di modernizzazione dell’Italia, dopo l’approvazione della riforma elettorale in parlamento ha espresso ottimismo: “Tutto sarà finito nel 2016!”. “Finiremo la Salerno-Reggio Calabria”, ha dichiarato a RaiUno. “Entro la fine del 2015 tutti i cantieri affretteranno i lavori e, al massimo entro il prossimo anno, l’autostrada sarà completata”.
Sembra che 3.000 operai stiano lavorando notte e giorno, sette giorni alla settimana, per velocizzarne il completamento.
In tanti però diffidano dai toni trionfalistici di Renzi, visto che dopo cinquant’anni ancora non è sicura la data di ultimazione dei lavori.
“È chiaro a tutti che solo un miracolo permetterà che i lavori siano completati tra un anno” afferma La Repubblica. Il quotidiano afferma infatti che alcuni documenti del ministero dei Trasporti indicano nel novembre del 2017 l’apertura dei 20 km di autostrada tra Laino Borgo a Campotenese.
“Sono sorpreso dalle parole del Primo Ministro”, dichiara Gigi Verardi, sindacalista della sezione calabra della Fillea-Cgil: “a nostro avviso, sono solo dichiarazioni propagandistiche”.
E anche se fosse “finita” l’anno prossimo o l’altro ancora, è probabile che 43 km di autostrada non avranno la corsia d’emergenza.
“Crederemo alla fine dei lavori quando lo verificheremo”. “E ciò significa con tutte le misure di sicurezza che sono state previste nel progetto”, aggiunge Zerbi.
Nel frattempo, il contribuente italiano continuerà a pagare di tasca propria, anche se ancora non avrà l’autostrada che avrebbe dovuto avere diversi decenni fa.

(Michael Day, The Indipendent, 20 maggio 2015. Traduzione in collaborazione con Mario Forgione)

Articolo originale:
http://www.independent.co.uk/news/world/europe/italys-eternally-unfinished-highway-enters-final-stretch–50-years-after-construction-began-10261986.html

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Che succede alla Pro Loco?

Stamattina la Gazzetta del Sud titolava: “Caos alla Pro Loco, presidente pronto a gettare la spugna”. Ho letto l’articolo con interesse: di questa associazione sono stato socio fondatore nel 1997 e membro del consiglio direttivo per quasi un decennio, dopodiché ho ogni anno rinnovato la tessera, pur non partecipando da tempo all’organizzazione di alcun evento. Il mio è più un supporto morale, se vogliamo anche una manifestazione d’affetto per quel che è stato: tra le tante cose belle fatte, mi piace ricordare la realizzazione del documentario “Don Pepè”, che ricostruiva la vita del medico Giuseppe Chirico, uno dei figli più illustri e amati di Sant’Eufemia.
Parlo soprattutto da eufemiese che non può restare indifferente di fronte alla notizia della crisi di un’associazione del paese. Sono sempre stato dell’avviso che il mondo del volontariato costituisca una preziosa risorsa per i piccoli comuni. Esso va pertanto messo nelle condizioni di operare e svolgere al meglio la propria azione di valorizzazione del patrimonio umano e territoriale del quale è parte integrante. Se un’associazione chiude, siamo tutti più poveri. Da qui la preoccupazione per le dimissioni degli organi elettivi – presidente Rocco Luppino in testa – preannunciate nell’articolo, ma non ancora ufficiali.
Dispiace non aver letto nell’articolo il nome di Eufemia Costanzo. Molto di ciò che la Pro Loco ha fatto in 18 anni di attività porta la sua firma, la firma di una donna che ha sempre dato tutta se stessa per animare il paese, trascinando giovani e meno giovani nelle associazioni per le quali ha operato in 40 anni di encomiabile attività. Attività che è continuata anche in questi ultimi due anni, nonostante cioè la scarsa o nulla collaborazione della Pro Loco e la necessità di inventarsi esternamente ad essa il gruppo di supporto “Insieme per crescere”. La cito soltanto per questo, perché credo che la riconoscenza debba essere un valore e non un rimpianto. Tralascio ovviamente ogni considerazione di natura personale.
Che la Pro Loco abbia negli ultimi anni ridotto le proprie attività è un dato di fatto. Sagra della Patata e davvero pochissimo altro. Ma non sto qui a giudicare. L’esperienza nell’associazionismo mi insegna che ognuno dà quel che può, per come sa, quando ne ha tempo e voglia. Anche se ci sono dei doveri minimi nei confronti dell’associazione della quale si fa parte. Ma lo spirito è quello, altrimenti non sarebbe volontariato. Onestà intellettuale vorrebbe però che chiunque non sia nelle condizioni di “dare” un minimo di contributo si faccia da parte. Le medagliette sul petto non hanno nessun senso.
So che è antipatico parlare di sé, ma è quello che io ho fatto proprio con la Pro Loco otto anni fa, quando mi resi conto che l’associazione per me era diventata un peso. Mi dimisi da segretario, lasciai il campo e mi dedicai alle attività che tuttora svolgo con l’Agape. Perché questo mi rende felice (“e la felicità non è un fatto secondario”), non certo per questioni personali nei confronti di chicchessia.
Voglio sperare che da questa situazione si possa venire fuori. Me lo auguro soprattutto per il paese. Ma serve il coraggio di fare qualche passo indietro. L’attuale direttivo è stato eletto nel 2013, a neanche un anno dalle elezioni comunali. In quella circostanza furono riconfermati presidente Rocco Luppino e vicepresidente Eufemia Costanzo (più Pino Sobrio nel direttivo), mentre un nuovo gruppo – espressione del nuovo corso politico e amministrativo del paese – entrò a far parte del consiglio d’amministrazione. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è il fallimento di un’associazione attiva da quasi un ventennio.
Il peccato originale del direttivo eletto nel 2013, a mio avviso e senza farne una questione di nomi, sta proprio nel tentativo di dare una connotazione “politica” alla Pro Loco. Il corto circuito è scattato per la confusione dei ruoli e perché dovrebbe essere la politica a mettersi sempre al servizio delle associazioni. Non il contrario.

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Il triste centenario dell’Istituto antoniano delle Figlie del Divino Zelo

Il 29 giugno del 1915 le campagne di Sant’Eufemia erano distese gialle venate di verde, come se sopra la terra già brulla fosse passato il pennello di un pittore a dipingere le spighe di grano quasi del tutto mature e accarezzate dal vento. “Giugnu farci in pugnu”, confermava infatti la saggezza popolare per indicare l’inizio della mietitura, lavoro che poi avrebbe impegnato le giornate dei braccianti per tutto il mese di luglio: “a giugnu, u ’ranu c’u pugnu; a giugnettu, u ’ranu è nettu”.
Il mattino annunciato dal sole caldo e accecante sarebbe stato diverso dai precedenti, anche se i protagonisti di quella giornata memorabile non sapevano che si stavano apprestando a scrivere una pagina storica per quei mucchietti di case conficcate nella carne viva dell’Aspromonte, ancora sanguinante per le ferite del terremoto del 1908. L’inizio di storia d’amore giunta fino ai nostri giorni, appena in tempo – forse – per essere celebrata prima che ne venga decretata la fine, cent’anni dopo.
Quel lontano giorno Padre Annibale Maria di Francia, proclamato santo nel 2004, celebrò la messa e consacrò la Casa delle Figlie del Divino Zelo a San Giuseppe e al Cuore SS. di Gesù. Il religioso arrivava da Messina, città nella quale spese la sua vita (vi nacque il 5 luglio 1851, vi morì l’1 giugno 1927) al servizio dei bisognosi e dei derelitti del quartiere “Avignone”, il più degradato del capoluogo peloritano. Qui, tra i tuguri che erano stati proprietà dei marchesi Avignone (case di “Mignuni”, per il volgo), a partire dal 1878 Padre Annibale svolse la sua opera di redenzione morale e materiale degli ultimi (“cu vai a casa du Patri ’i Francia, trasi, si ’ssetta e mancia”), culminata con la fondazione di un orfanotrofio antoniano femminile (1882) e di uno maschile (1883). Nel 1887 fondò la Congregazione religiosa delle “Figlie del Divino Zelo” e nel 1897 la Congregazione dei Rogazionisti del Cuore di Gesù, entrambe dedite alla preghiera per le vocazioni e all’assistenza e all’educazione degli orfanelli e dei bambini abbandonati.
Padre Annibale giunse a Sant’Eufemia in compagnia della messinese Madre Maria Nazarena Majone (era nata a Graniti il 21 Giugno 1869, morì a Roma il 25 gennaio 1939), cofondatrice delle “Figlie del Divino Zelo”, con la quale condivise la fatica e l’amore del servizio per i poveri del quartiere “Avignone” e che fu la vera artefice della fondazione di nuove “Case”, oltre a quella di Sant’Eufemia: San Pier Niceto (Messina, 1909), Trani (Bari, 1910), Altamura (Bari, 1916), Roma (1924), Torregrotta (Messina, 1925), Novara di Sicilia (Messina, 1927).
Con loro una grande eufemiese, suor Maria Rosaria Ioculano, nata dal medico Antonino e da Caterina Versace il 27 agosto 1849, la quale aveva consacrato alla Congregazione la vita e donato a Padre Annibale tutti i suoi beni. Il 26 luglio fu quindi inaugurato il laboratorio per le ragazze del paese e, di lì a poco, l’asilo infantile.
Nel corso del Novecento l’Istituto antoniano di Sant’Eufemia ha accolto molte ragazze decise a prendere i voti, mentre ancora più numerosi sono stati gli orfanelli e i bambini in condizioni di degrado economico e sociale ospitati nella struttura di via delle Rose che il 3 novembre 1927 raccolse l’ultimo respiro di suor Ioculano.
Ora sembra che su questa storia si stia per scrivere la parola fine. Per una ragione “spirituale”: la crisi vocazionale che ha ridotto sensibilmente il numero delle suore presenti nell’Istituto. Per una prettamente economica: il progressivo calo degli iscritti alla scuola dell’Infanzia paritaria, le cui rette di fatto mantengono l’intera struttura, che è diventata “casa di accoglienza per minori” dopo la chiusura degli orfanotrofi decretata a partire dal 31 dicembre 2006 (legge n. 149 del 28 marzo 2001).
L’anno scolastico 2015-2016, che partirà regolarmente nonostante i pochi iscritti (40) potrebbe davvero essere l’ultimo.

*Foto tratta dalla pagina Facebook Scuola FDZ – Sant’Eufemia d’Aspromonte

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