REGGIO: l’Archivio di Stato ha presentato il libro “Minita” di Domenico Forgione

*Dal blog Disoblio Edizioni:

“Una costellazione di storie in cui si avverte la nostra identità calabrese”. È con queste parole di Mirella Marra che venerdì 25 settembre, presso l’Archivio di Stato di Reggio Calabria, si è aperta la presentazione del libro “Minita” di Domenico Forgione (Disoblio Edizioni). È un libro che trasuda il profumo di una ricchissima vita interiore – ha continuato la direttrice dell’Archivio di Stato – che sta qui ma che sta anche altrove, nella Calabria vera di oggi e in quella trasognata di domani. “Minita” desta curiosità fin dalle prime pagine. Il piacere di una lettura del genere sta nella bellezza narrativa e nel fascino dei bozzetti di vita quotidiana, che l’autore racconta in maniera versatile, senza dimenticare nulla: biografia, personaggi, storia e microstoria s’intersecano con la musica, il cinema, i libri e i tanti altri punti di riferimento di una generazione cresciuta prima della rivoluzione digitale segnata dall’avvento di nuove tecnologie, prima fra tutte internet. È un canovaccio per tante altre storie e tante altre creazioni artistiche. Penso al cinema o al teatro ai quali i racconti di “Minita” si prestano molto, dal momento che narrano le vicende nelle quali molti calabresi possono riconoscere se stessi, il proprio passato e i valori, imparati dai nostri antenati, che oggi spesso dimentichiamo. L’Archivio di Stato – ha concluso Mirella Marra – è felice di presentare questo libro perché rappresenta un ulteriore piccolo passo, un ulteriore contributo nel cammino della riscoperta della nostra identità.
Dedico questa presentazione – ha chiarito Domenico Forgione conversando con l’editore Salvatore Bellantone – all’amico Totò Ligato, che ci ha lasciato troppo presto e con il quale abbiamo condiviso diverse battaglie nel racconto e nella difesa della nostra terra. “Minita” nasce dalla blogosfera ma lo diventa veramente una volta diventato un libro. Qui troviamo un percorso di citazioni che ha il senso di proporre al lettore un sentiero per recuperare la propria identità. Tale ritrovamento non può non passare innanzitutto dalla memoria: i ricordi della giovinezza, i personaggi umili e semplici che abitano nei nostri paesini, le briciole di storia legate al nostro territorio sono il punto di partenza per riappropriarsi di quell’identità, di quei valori e di quelle consuetudini in cui riposa il nostro essere calabresi, contro quel volto anonimo che la società del benessere, dei consumi e della massificazione globale ci impone. Poi bisogna sempre tenere a mente la musica ascoltata, i film che abbiamo visto e i libri che abbiamo letto. Lì ci sono gli indicatori di quello che siamo, di quello che pensiamo e di quello per cui lottiamo quotidianamente, e servono nei momenti di maggiore spaesamento. In quello che altri hanno fatto, nelle melodie, nelle immagini e nelle parole degli altri troviamo anche le nostre e queste ultime ci servono per comprendere il nostro tempo. Ma questa comprensione passa per il dovere dell’informazione. Bisogna conoscere quello che accade vicino a noi e anche quello accade nel mondo. Questo ci dà la possibilità di trovare radicamento nel presente e di affrontarlo con le risorse del nostro passato. Infine – ha concluso l’autore di “Minita”, leggendo il racconto “La promessa” – bisogna darsi da fare, ognuno con quello che sa fare e come lo sa fare. Ci sono tanti problemi nella nostra terra ma se nessuno trova innanzitutto dentro di sé gli strumenti per affrontarli assieme agli altri, resteranno sempre insoluti.

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Ciao, Totò

Ci si affeziona ai quotidiani, compagni irrinunciabili delle giornate dei lettori attenti a ciò che accade nei microcosmi e nel mondo più grande. Soprattutto, ci si affeziona ai corrispondenti locali, la voce di posti sperduti dei quali spesso, se non ci fossero loro a scriverne, non si saprebbe niente. Le loro firme in calce agli articoli diventano familiari, tanto che si finisce per collegare un paese a un nome e cognome, o alle sue iniziali. Sinopoli, San Procopio, Seminara e Melicuccà sono stati per decenni Antonio Ligato (a.l.): Totòligato – tutto attaccato – per chi lo conosceva e gli voleva bene. Ho saputo che non è più mentre passeggiavo sul lungomare di Reggio Calabria baciato dal sole, quando a tutto si pensa tranne che alla morte.
Lo rivedo con il suo caratteristico cappello e le sue immancabili sigarette, riesco anche a sentirne la voce bassa ma limpida, la frase che pronunciava scendendo dalla sua “Punto”, mentre si avvicinava a me se mi vedeva davanti al bar di mio padre: “ti ho visto e mi sono fermato per fare una chiacchierata”.
Amava la conversazione e la cercava. Il discorso finiva spesso oltre lo Stretto, all’Università di Messina (dove, ai tempi mitici del preside Antonio Mazzarino, aveva collaborato con la facoltà di Magistero e, in anni più recenti, con quella di Scienze dell’Educazione), a dinamiche che entrambi conoscevamo, agli incredibili strafalcioni grammaticali di certi laureandi. Si parlava delle contraddizioni di questi nostri posti, di cultura e di giornalismo, di quanto la professione sia degradata, tanto da doversi ritrovare – alcune mattine – a leggere articoli scritti “con i piedi”.
L’avevo conosciuto 15 anni fa, lui corrispondente per la «Gazzetta del Sud», io per «Il Quotidiano della Calabria». Da allora non abbiamo mai smesso di “frequentarci”, di scandagliare quelle piccole storie che affascinavano entrambi, che io ho finito per raccontare sul blog e nei libri, lui sulle pagine della Gazzetta, in un esercizio appassionante di custodia della memoria dei nostri luoghi.
Aveva voluto recensire i due libri che ho scritto sulla storia politica e amministrativa di Sant’Eufemia e sulla sua toponomastica. Neanche due mesi fa ero rimasto piacevolmente sorpreso di leggere del mio Il cavallo di Chiuminatto in un suo pezzo sulla vicenda della demolizione del ponte della ferrovia di Sant’Eufemia.
Totò era un giornalista romantico, al quale la dimensione di corrispondente locale andava bene, nonostante avesse una solidità culturale e uno stile di scrittura da giornalista di razza. Mi mancheranno le sue osservazioni mai banali e la sua capacità di analisi, il suo amore per i nostri territori e per le storie delle umili genti, che soltanto nella penna di chi ha una sensibilità particolare trovano riscatto.

*Foto tratta dal profilo Facebok Antonio Ligato

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Bondì, bondì, bondannu

Tra i personaggi che emergono dalle pagine dell’ultimo lavoro di Vito Teti, Terra inquieta. Per un’antropologia dell’erranza meridionale (Rubbettino, 2015), gli “strinari” e i mascherati rimandano a storie che, in forme più o meno analoghe, appartengono anche alla tradizione etnografica di Sant’Eufemia, a racconti ascoltati dalla viva voce dei nostri genitori e dei nostri nonni.
Gli “strinari” erano gruppi di quattro-cinque individui che percorrevano le strade dei paesi durante il periodo natalizio, qualcuno dei quali suonava l’organetto che accompagnava i canti augurali, contenenti la richiesta di cibo e bevande. “Il cibo rituale [osserva Teti] costituisce in molti paesi il veicolo dell’incontro reale e simbolico tra vivi e defunti”. I questuanti non sono altro che “vicari” dei defunti e il cibo loro offerto viene considerato un’offerta fatta ai defunti. Tale identificazione vale per gli “strinari”, ma vale anche per i protagonisti di quelli che Teti definisce “viaggi rituali e vicari dei morti”: ad esempio, i “mascherati” che escono dopo il tramonto durante il periodo di Carnevale.
Nelle zone delle Serre vibonesi la formula augurale, recitata dai bambini che bussavano alle porte delle case era: «Bonu Capudannu, facitimi la strina ca si no mi dannu». Il Vocabolario del dialetto calabrese compilato da Giovanni Battista Marzano (1928) alla voce “strina” conferma: “dono che i genitori sogliono fare ai figliuoli e i padroni ai domestici e dipendenti; mancia, strenna” e riporta alcuni versi dialettali: Curriti tutti, vi dugnu pe strina/ castagni, nuci, ficu, meli e pira (Lu gattu, di I. Donati). Ed erano proprio espressione della frugalità, se non della povertà dei tempi, i doni che i partecipanti consumavano o dividevano alla fine della questua. Il richiamo alla dannazione, nell’ipotesi improbabile di diniego dell’offerta, rivela appunto che questuanti e anime dei defunti, nella percezione popolare, coincidono.
Ma non ovunque era così. A Sant’Eufemia i bambini degli anni Cinquanta del secolo scorso recitavano una formula leggermente diversa, più giocosa e nella quale non vi era riferimento ai morti, anche se probabilmente da quella tradizione traeva origine: «Bondì, bondì, bondannu, boni festi i Capudannu/ se m’ati e se non m’ati, cent’anni mi campati/ ma se non m’ati nenti, mi vi cadinu moli e denti!». Subito dopo veniva fatta esplodere una mistura di zolfo e polvere pirica,
nel tempo sostituita con le capocchie dei fiammiferi e, infine, con le
munizioni (tubetti) delle pistole
giocattolo inserite nell’asta delle grandi chiavi di qualche vecchia porta
, alla cui bocca veniva legato un chiodo che fungeva da percussore e che veniva azionato facendo sbattere la chiave contro il muro. Gli inquilini si affacciavano quindi sull’uscio e offrivano il poco che avevano: noci, castagne, fichi secchi, pittapie, sussumelle, torrone.
Più o meno simile era l’esito delle questue effettuate durante le festività dei “morti” («m’i dati i morti?») o a Carnevale, quando i “mascherati” – che, a differenza di oggi, non indossavano ovviamente costumi costosi – si presentavano vestiti in maniera buffa: una giacca infilata al rovescio, una gobba finta realizzata con un cuscino e sistemata dietro le spalle, un cappello calato sul viso o un bastone a simulare un’accentuata zoppia. In questa occasione vi era l’esplicita richiesta di avere una polpetta, che in molti riuscivano ad assaggiare solo a Carnevale, della quale si mimava il gesto di preparazione facendo sfregare una mano sull’altra, senza proferire parola per non farsi “riconoscere”. Le polpette arrivavano infilate sulla forchetta, che a turno passava di bocca in bocca, in tempi non certo caratterizzati da eccessive fisime di natura igienica.

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La panchina

Quando non so che fare mi siedo su una panchina della piazza e osservo il bocciolo di rosa rossa che di solito infilo nell’asola della mia giacca decisamente fuori moda. Mi sta un po’ stretta, ma non fa niente.
Sono molte le cose che mi stanno strette. Questo paese. Strettissimo. E non soltanto perché tutti mi credono pazzo. Sono pazzo, ovvio. Lo sono quanto le persone normali che mi scrutano, si danno di gomito e sghignazzano mentre a falcate distese faccio avanti e indietro sul marciapiede imprecando contro i mali del mondo, fino a quando i troppi passi sconclusionati non bucano le suole delle scarpe. Mastro Nino ci mette poco a sostituirle, non è caro e, in fondo, mi vuole bene. Come tutti qui, nonostante gli sfottò.
Li capisco. Loro non vedono quello che vedo io, per questo ridono quando tento di salvarli. Per questo ripetono canzonando le mie parole: «Schiaccia la testa del serpente! Maledetto!». Un giorno o l’altro, nello sforzo di tendere le mani il più in avanti possibile, finirò per perdere l’equilibrio e mi ritroverò faccia a terra. Poi sì che avranno un buon motivo per sganasciarsi e non pensare alla loro follia.
Perché siamo tutti pazzi, è davvero da pazzi non crederlo. Per un’idea, un sentimento, qualcuno o qualcosa. Pazzi d’amore, d’odio, di solitudine, di angoscia, di morte. Basta che un pensiero s’incastoni nella nostra mente e non ne usciamo più. Per quello viviamo e per quello, spesso, moriamo. Non esiste alcuna differenza, credetemi, tra la mia vita e la normalità della vostra faticosa quotidianità. Ci rende comodo mettere di qua i matti e di là i sani. E fanculo a chi ognuno di noi davvero è, al fuoco che brucia sotto due occhi stanchi fissi nel vuoto.
Ci soffro in questo ambiente. Mi sento in gabbia, come nella clausura della mia adolescenza da aspirante prete nel seminario, unico momento d’aria la partita di calcio settimanale nel cortile disadorno. Senza neanche le porte, segnate a terra da due mattoni.
Riuscivo a trovare un po’ di serenità nella biblioteca, anche quando leggevo Ugo Foscolo, che odio. Aveva ragione Carlo, alla cui interrogazione sui Sepolcri la classe esplose, tra lo stupore sconfortato del professore immobile con le mani tra i radi capelli: «Dopo la morte, restano le ossa». Per qualche tempo. Dopo, nemmeno quelle. Altro che eternità e romanticherie varie.
Mi ci aveva spedito il parroco, più che altro per accorciare di un giro il turno che io e i miei fratelli ogni giorno rispettavamo per accaparrarci i pezzettini di crosta che si staccavano dal pane mentre nostra madre lo divideva in parti uguali.
Se proprio dovevo indossare una tunica, mi sarebbe piaciuto diventare vescovo. La gente mi avrebbe baciato l’anello, genuflettendosi davanti al figlio del pecoraro diventato Pastore. Scoprii però i metodi insoliti che venivano utilizzati per togliere il demonio dal corpo delle persone e, allora, cambiai idea. Approfittai del buio senza luna, saltai dalla finestra e tornai qui.
Ritrovai Melo con il suo trotterellare leggero, il pallone incollato al piede e i calzettoni abbassati come Omar Sivori. Gianni e i suoi pantaloni impregnati di piscio, la barba ispida e muta da vecchio Giobbe senza alcuna scommessa da vincere. Spalle a terra, in vestaglia e ciabatte a fissare stelle lontane, inseguite dalle boccate delle sue nazionali senza filtro. Una casa di pazzi, sentenziò la voce del popolo. Per la credenza scaraventata dal primo piano giù, in mezzo alla strada. Per la nostra vecchia madre fatta rotolare dalle scale, una notte che sarebbe stata la sua ultima.
Entro ed esco da strutture inutili, dove mi vengono somministrati farmaci inutili. So che tra qualche anno ci resterò per sempre. Troverò un divanetto sul quale accomodarmi con il mio fiore all’occhiello e la mia storia passata in fretta, defilata e confusa. Umana.
Sussurrerò come in preghiera versi di poesie e aspetterò. Sulla lapide non avrò foto. Qualcuno ricorderà le mie labbra protese nell’atto di inspirare la sigaretta, altri i fogli di bloc-notes fitti di riflessioni disseminati sui tavolini del bar, altri ancora lo scoppio improvviso e allegro della mia risata.
Solo noi sappiamo essere felici. Solo noi sappiamo attraversare il tempo, anonimi, senza crederci migliori di quello che siamo.

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Aylan e noi

Mio nipote ha quasi tre anni. L’età di Aylan accarezzato dall’onda sulla battigia. La stessa t-shirt, gli stessi pantaloni “a pinocchietto”, le stesse scarpette da tennis. Spesso si addormenta sul divano a faccia in giù, proprio come Aylan nella fotografia che ha fatto il giro del mondo, con le braccia lungo i fianchi e i palmi delle mani rivolti verso l’alto.
A differenza di mio nipote e di tanti altri suoi coetanei, Aylan non sta però dormendo. Quanti ce ne sono come lui nel mondo? Bambini che dovrebbero avere l’età del gioco, non quella della fuga disperata dalla guerra. Di quanti Aylan non sappiamo niente, fino a quando il dolore non ci viene sbattuto in faccia, con una violenza che ci lascia senza fiato, sgomenti? Infine, era necessario diffondere quella immagine?
Giro attorno a questo interrogativo dal momento in cui la fotografia ha avuto diffusione nel web ed è finita sui giornali, nella versione più cruda o in quella pietosa che ritrae il corpo senza vita di Aylan in braccio a un poliziotto turco. Come in una moderna Deposizione, ha fatto notare Adriano Sofri.
Non ho la risposta. Ascolto. Leggo riflessioni legittime. Tutte: quelle a favore della pubblicazione della tragedia angosciante di un bimbo che affonda il viso nell’acqua, così come quelle contrarie. E non so cos’è giusto. Non so dove tracciare il confine tra diritto di cronaca e spettacolarizzazione del dolore.
È pur vero che oggi esiste soltanto ciò che si vede, per cui i fotogrammi della morte e dell’orrore possono rivelarsi utili per scuotere coscienze intorpidite, che non riescono a percepire la dimensione biblica del dramma delle guerre e dell’esodo di migliaia e migliaia di essere umani. Essere umani – purtroppo occorre sottolineare anche questo, in tempi di strumentale e becero razzismo – che in assenza di immagini vengono percepiti come i numeri di una fredda contabilità, non come fratelli disperati da soccorrere.
La famiglia di Aylan scappava da Kobane, città curdo-siriana simbolo della resistenza contro la violenza distruttrice delle milizie dell’Isis. Marito, moglie e due figli che speravano di raggiungere la Grecia e da lì prendere il volo per il Canada, dove la sorella parrucchiera del padre di Aylan era riuscita a farsi rilasciare i visti per i quattro congiunti. A Kobane, ha assicurato il padre di Aylan, saranno seppelliti la moglie Rehan e i due figli, Aylan e Galip, cinque anni, morti con altre otto persone in seguito al ribaltamento dell’imbarcazione che avrebbe dovuto trasportare i profughi dalla Turchia all’isola greca di Kos.
La fotoreporter Nilufer Demir ha rivelato al “Corriere della Sera” la ragione di quegli scatti: «Ho subito capito che era morto. Non c’era nient’altro da fare. Era l’unico modo per far sentire l’urlo di quel corpo». Aylan come Kim Phúc, la bimba che con la sua corsa verso il teleobiettivo, nuda e bruciata dal napalm, assurge a denuncia degli orrori della guerra del Vietnam. O come Tsvi Nussbaum, il bimbo polacco con berretto, cappotto e pantaloni corti, a braccia alzate durante il rastrellamento del ghetto di Varsavia, emblema della tragedia dell’Olocausto.
Non so schierarmi. Perché è vero che siamo talmente assuefatti che l’immagine rischia di essere fine a se stessa, di alimentare il circo mediatico del dolore e di calpestare dignità e pietà, deontologia e buon senso, nella squallida gara per la conquista di qualche “like” in più. Ma forse è anche vero che soltanto la visione dell’orrore riesce a destarci dal torpore e può fare comprendere alla comunità internazionale la gravità delle emergenze umanitarie di alcuni Paesi flagellati da guerre e fame, convincere Stati nazionali e sovranazionali della necessità di un cambio di registro in tema di politiche di accoglienza e gestione di flussi migratori divenuti ormai inarrestabili.

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Alzami tu

«Alzami tu» è una frase che, da sola, basta per riempire di senso la giornata della persona alla quale è rivolta. «Alzami tu»: dichiarazione di fiducia incondizionata e consegna della propria vita alle braccia altrui, nella certezza che tutto andrà bene. Che i passi solitamente incerti, sorretti da quattro gambe, condurranno a destinazione e scacceranno lontano l’immagine triste del bimbo che di colpo si affloscia a terra, come un sacco vuoto.
Le colonie estive dell’Agape di Sant’Eufemia sono uguali e diverse da quasi vent’anni. Nella gioia che si ripete, rinnovando ogni estate una storia sempre viva. Nei volti dei volontari baciati dal sole, quelli che non ricordano più quando hanno iniziato e quelli alla loro prima esperienza. Negli occhi emozionati dei “ragazzi” che attendono il pulmino o si guardano attorno mentre si viaggia verso la spiaggia di Bagnara. Nelle loro parole spiazzanti, che dicono di sentimenti semplici e proprio per questo autentici, non filtrati dalla rappresentazione quotidiana che altera le vite “normali”.
Verrebbe voglia di appartarsi in un angolo e lasciarsi andare, una volta tanto. Asciugarsi le lacrime e ripetersi quella frase («Alzami tu») per sentirsi vivi e consapevoli della reale dimensione dell’uomo. Ma non si può, c’è sempre qualcosa da fare, anche quando si sta seduti all’ombra, sotto gli ombrelloni ad ascoltare musica o a perdersi dietro racconti assurdi, apparentemente senza capo né coda. Ad improvvisarsi improbabili ballerini di funky al seguito di Mark Ronson e Bruno Mars nel video musicale Uptown funk, hit che ha conteso a Roma – Bangkok di Baby K e Giusy Ferreri il primo posto nella speciale classifica “canzone della colonia 2015”. A chiedersi chi sia il fantastico Michele estratto dal cilindro all’ultimo secondo, tormentone surreale della giornata conclusiva: «Tu lo conosci Michele?».
Una settimana volata via leggera che ha regalato bei ricordi, ma anche le lacrime di M. prima di salutarci. Lei che avrebbe voluto altri giorni da passare insieme a tutti gli altri, con le sue pose da diva davanti all’obiettivo e il suo serafico apoi (“dopo”) ad esprimere garbato dissenso. La danza di D. alla vista del pulmino, il ritorno di R. con il suo inconfondibile cappellino e i suoi pochissimi chili addosso, le domande ossessive di C. e la disarmante tenerezza di G., che vuole camminare e giocare come tutti gli altri bambini. Che vince anche se la boccia lanciata cade mezzo metro davanti alle sue gambe. Dieci ragazzi speciali, maestri d’amore nella genuinità delle loro esistenze.
Si ride e si scherza, certo, ma la responsabilità nei confronti delle famiglie che affidano ai volontari i propri ragazzi si fa sentire. Per questo ci siamo ripetuti l’ormai consueto “anche questa è andata”, prima di spegnere il motore per l’ultima volta. Prima di lasciarci prendere dalla nostalgia, stupiti dalla sensazione di vuoto che sempre prende allo stomaco, un po’ come – mi è stato fatto notare – con un esame che non ti fa pensare a nient’altro e assorbe tutte le tue energie nei giorni che lo precedono.
Alla fine sei felice perché lo hai superato, ma subito dopo ti manca già qualcosa.

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Notti disobliate: Partire e tornare a Sud

NOTTI DISOBLIATE: Oggi PARTIRE E TORNARE A SUD con Domenico Forgione e Lou Palanca
(di Saso Bellantone, tratto da: https://www.messagginellabottiglia.it/2015/08/notti-disobliate-oggi-partire-e-tornare.html)

Si svolgerà oggi, alle ore 21:30, all’incrocio del Corso Vittorio Emanuele II adiacente alla Cartolibreria Demaio di Bagnara Calabra, il sesto e ultimo appuntamento delle Notti Disobliate 2015 – I concetti del Sud, intitolato “Partire e tornare a Sud”, riguardante la narrazione di storie di emigrazione e di immigrazione, antiche e nuove, che parlano dei grandi benefici apportati alla nostra terra dalle popolazioni giunte da oltremare, dei successi raggiunti dai meridionali in tutto il mondo, ma anche della fuga attuale dei giovani dalla nostra terra perché senza futuro e del ritorno di molti di essi perché impossibilitati, strutturalmente e economicamente, ad andare avanti; è il racconto di storie di gente che torna da vincente e di storie di gente che non vuole più tornare, e anche di storie, naturalmente, di persone costrette ad andare via dal proprio paese a bordo di un barcone con la speranza di vivere, e tuttavia trovate senza vita sulle coste calabresi.
A parlare di “Partire e tornare a Sud” saranno Domenico Forgione, autore di “Minita” (Disoblio Edizioni) e Fabio Cuzzola / Lou Palanca 2 e Monica Sperabene / Lou Palanca 8, autori di “Ti ho vista che ridevi” (Rubbettino). Al salotto d’autore, condotto dall’editore Salvatore Bellantone, interverrà Mirella Marra (Direttrice “Archivio di Stato” di Reggio Calabria). Gli intermezzi musicali saranno a cura del cantante Josè Fazari dei NeroSud.
MINITA è un sentiero di citazioni tratte da ricordi, storie, libri, film, musica, grandi e piccoli avvenimenti storici, esperienze vissute e racconti con i quali l’autore indaga il proprio tempo, critica i meccanismi principali che provocano la degenerazione omologante e spersonalizzante delle masse e propone la difesa dell’unicità del singolo individuo, mediante il recupero di quei personaggi, di quegli eventi, di quei momenti epocali e di quei valori locali e comunitari che hanno caratterizzato la società di soli alcuni decenni fa.
DOMENICO FORGIONE (1973) è nato a Carlton, in Australia, dove ha vissuto fino all’età di quattro anni. Laureato in Scienze politiche e Dottore in Storia dell’Europa mediterranea, per oltre un decennio è stato cultore della materia in Storia delle Istituzioni politiche e assistente universitario presso la facoltà di Scienze politiche dell’Università di Messina. Giornalista pubblicista, dal 1997 al 2004 ha collaborato con “Il Quotidiano della Calabria”. Dal 2010 amministra il blog “Messaggi nella bottiglia”, una finestra sull’attualità e una scatola di ricordi, di storie vissute e ascoltate, di storie inventate. Ha pubblicato: Il ’68 a Messina (Edizioni Trisform 1999); Fascismo e prefetti a Catanzaro (1922-1943) (REM 2005); Sant’Eufemia d’Aspromonte. Politica e amministrazione nei documenti dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria. 1861-1922 (Città del sole 2008); saggi di storia contemporanea in volumi miscellanei e recensioni su riviste specializzate; Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte (Nuove Edizioni Barbaro 2013). Vive a Sant’Eufemia d’Aspromonte e, come la cofondatrice di Emergency Teresa Sarti, è convinto che “se ciascuno di noi facesse il suo pezzettino, ci troveremmo in un mondo più bello senza neanche accorgercene”.
TI HO VISTA CHE RIDEVI Negli anni ‘60 un’emigrazione individuale femminile raggiunge dal Sud il territorio delle Langhe, che le contadine stanno abbandonando per trovare la propria emancipazione nelle città. È un’emigrazione matrimoniale, che porta le “calabrotte” all’impatto con una lingua e un sistema di relazioni sociali differenti da quelli dei paesi d’origine. Ti ho vista che ridevi racconta una di queste storie. Dora è costretta ad emigrare da Riace per sposare un contadino delle Langhe e lascia alle cure della sorella il figlio che non doveva nascere. Quando scoprirà la verità, Luigi si metterà alla ricerca delle origini, della propria madre, dell’autenticità della propria biografia. Sarà un bacialé, un ruffiano che combinava questi matrimoni, il mediatore narrativo tra le pagine calabresi e i capitoli ambientati in Piemonte, dove Luigi cerca la propria madre naturale e incrocia una catena di figure femminili che da Dora conduce alla figlia, alla nipote militante No Tav e quindi ad una profuga siriana. Un romanzo corale, nel quale ciascun personaggio attraversa la propria solitudine scoprendo il senso della sua vicenda nella relazione con l’altro. Come scrive Carlo Petrini nella Prefazione: sono sempre gli altri che ci salvano.
Il collettivo di scrittura LOU PALANCA nasce nel 2010 aggregando precedenti esperienze di collaborazione tra intellettuali calabresi, per poi coagularsi intorno al gruppo di cinque persone che ha pubblicato a fine 2012 con Rubbettino Editore il romanzo “Blocco 52. Una storia scomparsa, una città perduta”. Il libro ha avuto più di 40 presentazioni, tra cui quella con Ida Dominijanni a Catanzaro, a Firenze con Goffredo Fofi, a Bologna con i Wu Ming, quelle al Salone del Libro di Torino e al festival Caffeina Cultura di Viterbo. Il collettivo opera a “geometria variabile”, coinvolgendo nella sua esperienza nuovi apporti rispetto al nucleo iniziale. Così nel maggio 2015 ha pubblicato, sempre con Rubbettino, il nuovo romanzo Ti ho vista che ridevi, che in appena due mesi è già alla prima ristampa. Lou Palanca vive come un progetto culturale più complesso della semplice scrittura collettiva, come testimoniano anche gli interventi e i racconti ispirati ad esperienze specifiche, tra i quali: la partecipazione al progetto collettivo dei Wu Ming Tifiamo Scaramouche con il racconto “Vuoi ballare il fandango?”, pubblicato nel 4° volume (‘900 Notte fugge – quinquennio 1975/1979); “El Soldatin Bepin, prima che la terra tremi” scritto per il parco Ecolandia di Arghillà (Reggio Calabria); “Mistero al cubo” pensato per il lancio del sito di scrittura 20lines.
Saso Bellantone

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Sant’Eufemia e la sua gente nel tempo, attraverso la voce dei suoi figli

Chi vive lontano dal paese d’origine avverte forse con maggiore sensibilità il bisogno di riannodare il filo rosso delle proprie radici, recuperando luoghi e volti che gli accadimenti della vita relegano nel cassetto dei ricordi. Nino Crea, ingegnere eufemiese trapiantato a Fiuggi, ha nel tempo rafforzato questo sentimento: l’idea di un convegno su Sant’Eufemia “raccontata” dai suoi figli è sua, postata sul suo profilo Facebook il 25 maggio scorso e subito fatta propria dall’amministrazione comunale, che l’ha realizzata ieri avvalendosi della collaborazione della Consulta comunale.
La memoria è imperativo morale e dovere civico, una pianta da innaffiare per mantenere viva la propria stessa identità. Ci siamo così ritrovati in tanti a discutere del nostro paese, ciascuno presentando una prospettiva particolare e passando dalla storia alle storie, alle storielle; affrontando questioni più o meno serie, ma necessarie per conoscere a fondo l’essenza della nostra comunità.
Gli intermezzi musicali di Angela Luppino hanno scandito i tempi della manifestazione, introdotta dal saluto del sindaco Domenico Creazzo e moderata da Nino Giunta, protagonista per lunghi decenni della vita culturale di Sant’Eufemia, da qualche anno di stanza a Roma.
Ho avuto l’onore di aprire il convegno con una riflessione sulla storia di Sant’Eufemia, a lungo ignorata dagli stessi eufemiesi, i quali non sapevano dove poterne leggere, se si fa esclusione della Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte di Vincenzo Tripodi (1945), di sparuti saggi biografici e di datate memorie di illustri eufemiesi, opere pressoché introvabili. Grande merito va pertanto riconosciuto all’Associazione culturale “Sant’Ambrogio”, promotrice nel 1990 di un convegno sul bicentenario dell’Autonomia di Sant’Eufemia i cui atti, editi nel 1997, hanno ispirato una feconda stagione di pubblicazioni ancora non conclusa la quale, per poter essere più proficua, necessiterebbe però di condizioni di ricerca più “comode”, che potrebbe senz’altro garantire la realizzazione di un Archivio storico comunale.
Aldo Coloprisco ha ripercorso la poetica eufemiese, proponendo la lettura dei componimenti più significativi di Domenico Cutrì, Vincenzo Fedele, Luigi Forgione, Bruno Gioffré, Mimì Occhilaudi, Giuseppe Cannizzaro, fino ad arrivare ai giorni nostri con i versi di Maria Rosa Luppino e della stessa Vittoria Saccà, applaudita relatrice che ha fatto emozionare l’uditorio con i ricordi della sua adolescenza, di recente raccolti in Parole nel comò. Personaggi e storie assurti a “tipi” universali, rintracciabili nel più generale contesto storico e sociale degli anni Cinquanta e Sessanta. Giuseppe Pentimalli ha sottolineato la struttura morfologica e sintattica sostanzialmente greca del femijotu, sul piano lessicale arricchitosi nel corso dei secoli grazie ai contributi della lingua latina, araba, francese, spagnola e inglese. A Rossella Morabito, infine, il compito di chiudere il convegno puntando lo sguardo sul presente, che va affrontato senza piangersi troppo addosso. Sant’Eufemia ha un tessuto sociale vivace, costituito dal protagonismo di singoli operatori culturali, dalla ricchezza di associazioni molto attive nel campo sociale e del volontariato, dall’altissimo spessore culturale e umano del liceo scientifico “E. Fermi”. Un patrimonio fatto di giovani che occorre mettere in condizione di esprimere a Sant’Eufemia le proprie potenzialità, al termine del percorso di studi o di formazione.

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La battaglia non è solo per il ponte… ed è appena iniziata

A dieci giorni dall’inizio della mobilitazione che ha visto il coinvolgimento di istituzioni, partiti, associazioni e cittadini nella lotta per scongiurare la demolizione del ponte storico della ferrovia a Sant’Eufemia, si intravede già un primo risultato. Anche se non vi è l’ufficialità, l’ipotesi più funesta – la demolizione, appunto – dovrebbe essere stata allontanata. Alcuni indizi convergono inequivocabilmente verso questa direzione. Il tono delle risposte rilasciate dal direttore generale della società Ferrovie della Calabria, Giuseppe Lo Feudo, nel corso della trasmissione radiofonica di Radio Radicale “Fatto in Italia” (19 luglio), nel corso della quale sono intervenuti un esterrefatto Oliviero Toscani e Roberto Galati, presidente di Associazione Ferrovie di Calabria – che, con Italia Nostra, ha segnalato l’emissione del bando di demolizione, facendo di fatto esplodere il caso. Per Lo Feudo, Ferrovie della Calabria non poteva procedere diversamente dopo le segnalazioni dell’amministrazione comunale di Sant’Eufemia e della Prefettura di Reggio Calabria circa “il grave stato di pericolo” in cui versa il ponte, non disponendo essa delle risorse finanziarie necessarie per mettere in sicurezza la struttura. Non vi era alternativa, ma qualora si trovasse una soluzione diversa (leggi: disponibilità finanziaria per eseguire i lavori di messa in sicurezza), la società di servizi di trasporto pubblico in Calabria sarebbe “la più contenta di tutti”. Posizione ribadita con la nota del 21 luglio: il bando di gara non può essere annullato, ma Ferrovie della Calabria non è obbligata a far eseguire i lavori di smantellamento anche in caso di aggiudicazione. Il bando come extrema ratio, addirittura come strumento per lanciare l’allarme. Un po’ forzata come interpretazione, ma il risultato, in effetti, è quello di avere scatenato un putiferio mediatico inarrestabile, che in poco tempo ha smosso acque stagnanti da lungo tempo e che, tanto per fare due nomi autorevoli, ha spinto il consigliere regionale Giuseppe Giudiceandrea a presentare un’interrogazione con richiesta di risposta scritta e l’ex ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo nel governo Letta, Massimo Bray, a esprimersi pubblicamente contro la demolizione del ponte.
Secondo indizio, la nota del 17 luglio, resa pubblica in un secondo momento, con cui la Soprintendenza per le Belle Arti e il Paesaggio della Calabria diffida Ferrovie della Calabria dall’eseguire la demolizione poiché il D.lgs 42/2004 dispone di tutelare “le cose immobili appartenenti allo stato, alle regioni, agli enti pubblici territoriali, nonché ad ogni altro ente ed istituto pubblico e a persone giuridiche private, qualora siano opera di autore non più vivente e la loro esecuzione risalga ad oltre settanta anni”. Il ponte in ferro, di anni, ne ha quasi 90, per cui necessiterebbe della verifica di “interesse culturale e storico” del Mibac prima di subire alcun intervento.
Il ponte non si tocca, almeno per ora. Occorre approfittare di questa contingenza per esercitare la maggiore pressione possibile, continuando ancora con la raccolta firme, la petizione online, gli aggiornamenti della pagina Facebook “SOSteniamo il ponte”, affinché si ponga mano alla grave situazione di dissesto idrogeologico che interessa tutta l’area in questione. I riflettori puntati da giorni sulle campate di ferro della struttura realizzata nel 1928 dalla ditta Chiuminatto di Genova potrebbero realizzare il miracolo di porre all’attenzione della politica una situazione più volte segnalata dalle amministrazioni comunali degli ultimi 20 anni e sistematicamente ignorata dalle autorità sollecitate. Le briglie del Torbido distrutte, il ponte di Pendano crollato, un costone del paese scivolato a valle e una situazione di pericolo incombente su una parte della città.
Ecco perché, una volta salvato il ponte, non bisognerà fermarsi, né allentare la presa. Questa può diventare l’occasione propizia per riuscire finalmente a mettere in sicurezza una vasta area e, nello stesso tempo, un’ipotesi concreta di valorizzazione del patrimonio naturalistico e paesaggistico del territorio eufemiese attraverso il coinvolgimento di quei soggetti attivi nel campo dell’innovazione, che hanno già avanzato diverse idee di sviluppo con al centro il ponte e il tracciato della vecchia linea taurense Gioia Tauro – Sinopoli/San Procopio.

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Giù le mani dal ponte della ferrovia

La notizia della pubblicazione del bando di demolizione del ponte della ferrovia che ricade nel tratto eufemiese della vecchia linea Gioia Tauro – Sinopoli/San Procopio ha creato tra la popolazione turbamento e rabbia. Quel ponte rappresenta un po’ la storia di Sant’Eufemia nel Novecento. La “littorina” ha portato centinaia e centinaia di studenti del nostro paese a Palmi e a Gioia Tauro, e altrettanti giovani e meno giovani in cerca di un futuro migliore lontano da Sant’Eufemia. I nostri padri, i nostri nonni, da Sant’Eufemia andavano a Gioia Tauro e da lì verso Nord, nelle regioni dell’Alta Italia o al di là delle Alpi. Dentro la galleria si rifugiavano le famiglie di Sant’Eufemia nel corso dei bombardamenti della Seconda guerra mondiale. E non è un caso che ponte e galleria siano gli elementi caratterizzanti il logo dell’Associazione Turistica Pro Loco di Sant’Eufemia.
Ci sono storie e sentimenti che non hanno prezzo. Men che meno possono valere 3.000 euro, il profitto che Ferrovie della Calabria ricaverebbe dalla demolizione del ponte e dalla vendita del materiale ferroso ricavato. Non si può pertanto che condividere la denuncia di Italia Nostra e dell’Associazione Ferrovie in Calabria Gruppo Ferrovie Storiche: siamo di fronte a una “svendita”, che occorre impedire. Possibilmente con un’azione sinergica che, per una volta, metta da parte inutili calcoli di bottega.
Oltretutto, già Italia Nostra aveva presentato un progetto di recupero della tratta dismessa che prevede la realizzazione di una pista ciclabile lungo il suo tracciato. Un’operazione che avrebbe tre positivi risvolti: salvaguardia della memoria storica; conservazione di un’opera di “archeologia industriale”, valorizzazione del patrimonio paesaggistico e naturalistico dei comuni dell’entroterra aspromontano, già da tempo penalizzati da politiche che hanno favorito il loro lento e inesorabile spopolamento e isolamento.
Nel mio Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte (Nuove Edizioni Barbaro, 2013), tratto della ferrovia e del suo ponte in due voci. Ne riporto di seguito alcuni brani.


Via Chiuminatto
Giacomo Chiuminatto nacque a Bolzaneto (Ge) il 15 aprile 1884 e morì a Roma il 12 maggio 1951. Titolare della ditta che costruì il ponte in ferro e la galleria nel tratto ferroviario Gioia Tauro-Sinopoli ricadente nel territorio di Sant’Eufemia, a lui l’amministrazione comunale, tra le due guerre, dedicò la strada che ora è denominata via XXV luglio. […] Nella tradizione popolare, il nome di Chiuminatto è legato ad una massima tramandata fino ai giorni nostri: pari u cavaddu i Chiuminatti (oppure: poti quantu o cavaddu i Chiuminatti). “Sembra il cavallo di Chiuminatto”, con riferimento alla prestanza e alla forza fisica di una persona. Che deve essere tanta, se il termine di paragone sono i cavalli da tiro utilizzati, negli anni in cui fu costruita la ferrovia, per il traino dei carrelli carichi di 5-6 quintali di pietre e breccio. […]
(Pagina 44)

Via Stazione
Come la denominazione stessa suggerisce, è la strada che porta alla stazione ferroviaria, ma segna anche il confine tra corso Vittorio Veneto e corso Umberto I. Chiusa ufficialmente nel 1997, la stazione di Sant’Eufemia era la seconda fermata della tratta “a scartamento ridotto” Sinopoli/San Procopio – Gioia Tauro (le altre, comprese tra i due capolinea: Valli, Malicuccà, Sant’Anna, Seminara, Palmi, San Fantino), lunga 26,283 chilometri e aperta in due tronchi: il 18 gennaio 1917 fu infatti inaugurata la linea tra Gioia Tauro e Seminara, mentre il 21 aprile 1928 fu completato il tratto fino a Sinopoli. Nota anche come “Aspromontana”, fu realizzata (in esecuzione del decreto regio n. 1450 del 29 luglio 1926) in sostituzione del tronco Cinquefrondi-Mammola e della Sinopoli-Varapodio-Radicena, che rientravano nel più ampio progetto (rimasto sulla carta) della Trasversale reggina tra Gioia Tauro e Gioiosa Ionica. Con la Gioia Tauro-Cinquefrondi (completata, tra Gioia Tauro e Cittanova, nel 1924; tra Cittanova e Cinquefrondi, nel 1929), costituiva le “linee taurensi” […]. Il trasporto delle merci e dei passeggeri […] avveniva su “carrozze automotrici” (definite, più semplicemente, “automotrici”) per le quali, all’inizio degli anni Trenta, fu coniato il termine “Littorina”, un omaggio alla simbologia del Ventennio fascista che perpetuava, nel fascio littorio, il mito di Roma antica.
(pagina 141)

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