Venuto da un freddo lontano

Photo @SaraBonfiglio

Se penso alla mia infanzia, ne avverto subito il freddo. Assoluto. Non le folate del vento in inverno, picchiettate di gelo sulla pelle e gli occhi che faticano a restare aperti. Fastidi tutto sommato accettabili, tanto sai bene che dopo ci penserà il calore di un qualche caminetto a ritemprarti, o la buona sorte di una tazza di cioccolata calda. Densa, non la roba liquida bollente che servono in certi bar. Bisogna prestare attenzione e mescolare con cura il cacao sul fuoco, aggiungendo poco a poco il latte. Piano piano. Mica è una pizza, che l’inforni e quando è pronta la tiri fuori.
Il freddo dell’abbandono si incunea nelle ossa e le lavora come un tarlo. Per sempre. Anche se poi le fiammate di un amore sovrumano tempereranno l’anima e mitigheranno il dolore. Anche quando il senso di solitudine trova il conforto della favola di una famiglia che ti accoglie e ti proclama imperatore. Il sole attorno al quale tutti ruotano, premurosi.
I miei primi otto anni sono tramontana mulinante brandelli di vita, che il tempo tenta di sospingere oltre il confine della memoria. Eppure ritornano, come onde che risalendo mi travolgono. Eccomi di nuovo accovacciato con la schiena attaccata al muro, le ginocchia strette tra le braccia esili. Le lacrime e a farmi compagnia un lento dondolare, avanti e indietro. Per ore e giorni infiniti. Fino a quel pomeriggio di passi svelti nel corridoio, l’arrivo di un uomo e di una donna accompagnati dall’interprete, il loro parlare a bassa voce, fatto di frasi pronunciate in un idioma per me incomprensibile: «Guarda quanto sono belli e tristi. Come si fa a scegliere? Come si fa a salvarne uno e a condannarne venti?».
Li vidi scegliere singhiozzando. Scegliere me, dentro la mia felpa troppo grande, le dita timorose che spuntavano fuori dalle maniche. Scegliere me, che non capivo e che correvo come un matto. Me che ancora un po’ matto mi credete, voi che mai avete assaggiato il brodino insapore di un orfanotrofio e vi chiedete perché oggi tolgo il filo di grasso dai bordi del prosciutto crudo affettato.
Non ero mai salito su di una macchina e ora avevo un sedile tutto mio, una specie di divano sul quale stare seduto, sdraiato, in piedi con le mani e il viso incollati al finestrino per osservare il mondo di fuori. Per guardare gli alberi e le case che correvano veloci, la neve alta sui marciapiedi, il respiro fumante delle persone intabarrate. Un viaggio di tremila chilometri verso sud, a ogni stazione la temperatura più mite e cioccolatini, patatine, caramelle, merendine. Ci parlavamo con gli occhi e per la prima volta in vita mia non avevo paura. Mi addormentai sul ventre accogliente di una sconosciuta: mia madre. Era ebbra di gioia, dopo anni di tentativi vani. Felice, ma tesa. Sempre meno, però, di quando il giudice dovette pronunciarsi sull’adozione dopo il periodo di affidamento preadottivo, gli incontri con l’assistente sociale e le sue domande per me. Io neanche immaginavo l’esistenza di un amore così forte: cosa avrei potuto rispondere di grave, per giustificare la sua incredibile ansia?
Non ho mai fatto i conti con quel pezzo di vita mancante, una mutilazione che sento violenta. Mi mancano i giochi che non ho fatto, i banchi che non ho scarabocchiato, le storie dei vecchi che non ho ascoltato. Le strade che non ho vissuto. Sono rimasto indietro e cerco aiuto, ma nessuno può restituirmi ciò che non ho mai posseduto. Il mio passato è una gabbia vuota, contro le sue sbarre ha trovato sfogo la rabbia di uno che, in fondo, è stato per tutti soltanto uno straniero. Che non ha mai capito i doppi sensi e che dietro ogni battuta spiritosa ha intuito l’offesa dello schiaffo, l’umiliazione dello sputo. Che ha sofferto per i sorrisini e per il darsi di gomito complice dei suoi compagni di scuola. Preferivo restare a casa, a interpretare il ruolo del protagonista nella fiaba che mi era stata cucita addosso.
L’ho capito molti anni dopo che troppo amore può asfissiare. Dopo troppe partite perse e davanti a guerre che non ero attrezzato a combattere, io che non avevo mai dovuto lottare per ottenere ciò che volevo. E così mi perdo nella mia vita bastarda, un piede piantato in una storia che a malapena ricordo, l’altro bloccato dalla confusione di un presente che non mi appartiene.

Condividi

I versi del poeta Pietro Milone per il matrimonio della nipote di Michele Fimmanò

Dura la vita dei poeti, quando gli amici “pretendono” un paio di versi o addirittura la dedica di un intero componimento per le occasioni “meritevoli” di essere celebrate. Lo sapeva bene Pietro Milone (1867-1933), popolare e amatissimo poeta-libraru di Palmi, molto apprezzato dai frequentatori della sua legatoria, i quali potevano deliziarsi ascoltando le satire composte per raccontare la vita quotidiana di Palmi. Personaggi e avvenimenti di un’epoca ormai lontana, il cui ricordo – fatto anche di dolore e di miseria – sopravvive anche grazie ai versi di Milone: E quandu m’arricordu/ la fami c’assaggiai/ mi fazzu meravigghia/ comu ancora campai! 
Milone fu un artigiano di rime rimaste per lo più inedite, fino a quando, su insistenza di amici ed estimatori, non furono pubblicate nella raccolta Picci e Zannelli (1922). Un’opera, ricordò il professore Angelino Trimboli nel discorso ufficiale pronunciato nella Casa della Cultura di Palmi l’8 novembre 1981, in occasione della “solenne cerimonia” organizzata per presentare l’edizione fuori commercio della ristampa del volume, che «non dovrebbe mancare nella biblioteca di chi ha studiato, anzi dovrebbe essere il libro di tutti quelli che rappresentano il mondo del lavoro: gli agricoltori, gli artigiani, i muratori, i popolani, perché a loro è rivolta la poesia di Milone».
Nel medaglione biografico scritto per il volume Uomini da ricordare. Vita e opere di Palmesi illustri (2000), Bruno Zappone sottolinea il carattere autodidattico della formazione letteraria di Milone e il piccolo miracolo realizzato nella sua bottega: «Fu così che essa diventò un vero laboratorio d’arte, non a caso chiamata la Zanichelli di Palmi, tanto che poi diventò il ritrovo abituale di artigiani, medici, avvocati e gente di qualsivoglia rango, dove si trascorrevano piacevolmente intere giornate ad ascoltare battute, versi e poesie in vernacolo composte ed improvvisate dal giovane Milone».
Osservatore attento di ciò che succedeva nella sua Palmi, della quale conosceva vizi e virtù, Milone amava sferzare senza essere mai volgare, né rancoroso: Scrivu pe’ m’arridimu/ dicendu a veritati; zanniu cu ‘’ncarchidunu/ senza malignitati.
C’era poi un aspetto gioviale, che aveva una derivazione caratteriale e che si riversava nei versi composti per alcuni eventi particolari. Non poche erano ad esempio le giovani coppie che si rivolgevano a lui per avere il privilegio di una sorta di epitalamio da declamare nel corso del ricevimento nuziale. La ristampa di Picci e Zannelli ne contiene due: Spusarizziu Badolati-Suriano, del 1926; Pe lu matrimoniu Cardone-Palermo, del 1928. Praticamente sconosciuto è invece l’opuscoletto Pe lu matrimoniu Perelli-Fimmanò, che contiene i versi composti da Milone per il matrimonio tra l’ingegnere Giuseppe Raffaele Francesco Perelli – trentaquattrenne nato a Cittanova da Vittorio Emanuele Perelli e Rosa Zampogna – e la “gentildonna” (come riporta, alla voce professione, l’atto del matrimonio officiato dal podestà, il maggiore e cavaliere Annibale Rechichi) Giuseppina Carmela Fimmanò, figlia ventiduenne del medico di Sant’Eufemia d’Aspromonte Vincenzo Fimmanò e di Fiorina Rositani, nonché nipote di quel Michele Fimmanò (1830-1913) che fu per oltre sessant’anni politico influentissimo in tutto il circondario di Palmi.


L’iniziale “rimbrotto” per il disagio che arrecavano a Milone gli inviti ai matrimoni (Stu ’mbitu mi lu fannu,/ dinnu, p’ ‘a simpatia,/ ma je’ lu sacciu, ’u fannu/ ca vonnu ’a poesia!), è seguito dalla consapevolezza di non potersi sottrarre (Lu fattu è ca su’ tutti/ amici vecchi, cari;/ ndi pozzu fari a menu,/ mi pozzu dinegari?/ Eccu, potiva siri/ pe’ mm’ nci dicu no/ a l’amicu Perelli,/ a figghia ’i Fimmanò?), ma anche da un pizzico di dispiacere per l’amica “Pina”, che avrebbe seguito lo sposo a Milano (Sulu mi dispiaci,/ ca si ndi vai luntanu,/ luntanu assai di cca:/ Nentimenu a Milanu!). Ma se le cose erano andate così, evidentemente quella era la “via pe jiddha destinata”.
Al poeta palmese non resta quindi che augurare ai due giovani il meglio: Pecchì su’ boni, affabbuli,/ gentili, affezzionati;/ du’ animi, du’ cori/ nta unu, ’ncatinati./ Mi l’unisci nu sulu/ penseru ’nta la vita;/ anfina c’ànnu hjatu/ mi sunnu sempri anita./ No mmi sapi lu cori/ nuddha amarizza mai;/ mi sunnu sempri leti…/ no mmi cianginu mai/. Pe’ m’ànnu – ora e sempri –/ ogni grazia di Deu,/ tuttu quantu disia/ lu loru e… ’u cori meu!

*La fotografia che ritrae il poeta palmese è tratta da: Pietro Milone, L’uomo il poeta, Tipografia Zappia, Reggio Calabria 1983.

Condividi

Don Pepè

Nel 2001 l’Associazione Turistica Pro-Loco di Sant’Eufemia d’Aspromonte decise di assegnare al dottore Giuseppe Chirico, ad memoriam, il tradizionale “Premio Solidarietà – Ginestra”. In quell’occasione ebbi l’onore di contribuire, come autore del testo per la voce narrante, alla realizzazione di un documentario che ripercorreva la vita di “Don Pepè”, amatissimo medico condotto venuto a mancare il 3 maggio 1995: l’infanzia negli anni della ricostruzione dopo il terremoto del 1908, gli studi universitari, la partecipazione alla seconda guerra mondiale, i decenni di “missione” al servizio dei suoi concittadini eufemiesi e i dolorosissimi settantasette giorni di sequestro di persona patiti nel 1976.
Di quel lavoro, fino ad oggi, esistevano poche copie in VHS: per questa ragione ho ritenuto utile convertire il video in un formato adatto alla visione con i moderni supporti tecnologici, che offrono inoltre la possibilità di una sua più ampia diffusione.
La qualità delle immagini in alcuni tratti non è eccellente, tuttavia spero di fare cosa gradita agli appassionati di storia locale e a coloro che hanno conosciuto e amato “Don Pepè”, personalità illustre da annoverare tra i figli migliori di Sant’Eufemia d’Aspromonte.

Condividi

Vicenzinu u’ Signuri

Il 9 febbraio Vincenzo Fedele, elegante come sempre, ha festeggiato i suoi novant’anni. Per chi, come me, ha mosso i primi passi nello straordinario mondo dell’associazionismo prendendo parte alle molteplici iniziative promosse dall’associazione culturale “Sant’Ambrogio”, Vicenzinu u’ Signuri è stato un solidissimo punto di riferimento. Un esempio di impegno civile per la crescita della nostra comunità che già alla fine degli Ottanta, quando la mia generazione stava per diventare adulta, aveva scritto pagine indelebili nella storia del folclore, della tradizione e del costume di Sant’Eufemia.
Vicenzinu, come viene da tutti affettuosamente chiamato, appartiene alla rara schiera degli uomini “d’altri tempi”. Di un’educazione disarmante nei confronti di qualsiasi interlocutore, sorridente, aperto alla discussione e amante del bello. L’aspetto caratteriale che più mi ha sempre colpito è proprio questa sua instancabile ricerca della bellezza. Che non è stata soltanto quella di confezionare il vestito più grazioso e il cappotto o la giacca perfetti, da eccellente sarto “iniziato” nella bottega di famiglia e perfezionatosi a Milano, quando ancora le macerie della guerra occupavano le strade. Certo: il carattere deve per forza avere “risentito” della sua naturale predilezione per l’armonia dei colori e per la delicatezza delle stoffe. Ma Vicenzinu alla bellezza è spesso arrivato lasciandosi guidare dall’amore per il suo paese, che non ha mai smesso di considerare uno scrigno di tesori da scoprire, valorizzare, salvare dall’oblio e consegnare a “quelli che verranno”. Un po’ come ha fatto per decenni con le fotografie, i documenti e quei ritagli di giornale che solo lui può riuscire a scovare tra le carte del suo immenso e prezioso archivio personale.
Il suo impegno nasce da questo convincimento e si realizza concretamente con le attività religiose e culturali dell’Azione Cattolica negli anni Cinquanta, periodo in cui si guadagnò il soprannome u’ Signuri, dal ruolo di Gesù Cristo interpretato nella prima e per svariate edizioni dell’ormai tradizionale “Processione del Misteri” del Sabato Santo.
Risale invece agli anni Sessanta il suo protagonismo all’interno dell’associazione regionale dei sarti calabresi, con le sfilate di moda e il “Premio Nefertiti” assegnato alla miss più elegante in una piazza Libertà sempre troppo piccola per contenere il pubblico presente. Quindi, la lunghissima presidenza della “Sant’Ambrogio” (costituita nel 1975), che ha segnato un’era caratterizzata da iniziative sviluppate su più fronti. Gli anni d’oro del gruppo folcloristico, della valorizzazione della tradizione culinaria con la sagra delle pannocchie e delle crespelle, del turismo religioso. Gli anni della riscoperta della memoria collettiva, grazie all’impulso che sul finire degli anni Settanta portò al gemellaggio tra i comuni di Sant’Eufemia e Milano, in ricordo dell’eccezionale contributo fornito alla comunità eufemiese dal Comitato milanese di soccorso per i danneggiati del terremoto del 1908: più volte “ospite d’onore”, nelle celebrazioni ambrosiane del 2001 l’associazione è stata infine insignita del prestigioso “Ambrogino d’Oro”.
L’azione dell’associazione Sant’Ambrogio nel tessuto sociale e culturale è stata molto incisiva (da ricordare, ancora, i giochi di piazza e i “Minifestival”, i carri allegorici del Carnevale e il teatro, la Festa delle Famiglie) e per certi versi anticipatrice di tutta una serie di attività che oggi, direttamente o indirettamente, hanno un debito nei confronti di quella esperienza.
Il periodico “Incontri” – edito dall’associazione per quasi due decenni – ha raccontato la storia delle generazioni protagoniste della ricostruzione materiale e morale del dopoguerra, alle prese sul finire degli anni Novanta con lo smarrimento causato dalla disillusione politica e dalla crisi economica: un orizzonte di valori sempre più confuso, che caratterizza anche il nostro presente. Ma la “Sant’Ambrogio” ha anche tentato di “ricucire” i brani di un passato conosciuto a frammenti, quando non addirittura ignorato dagli stessi eufemiesi. Sforzo encomiabile, il cui esito più alto si è avuto con l’organizzazione del Convegno di studi per il bicentenario dell’autonomia del comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte (14/16 dicembre 1990), i cui atti sono stati successivamente editi da Rubbettino (1997), a cura di Sandro Leanza: una data che segna l’avvio di una feconda stagione di studi sulla storia di Sant’Eufemia, che è arrivata ai nostri giorni e che ha prodotto diverse pubblicazioni ispirate a quel lavoro.

Bene ha fatto l’amministrazione comunale di Sant’Eufemia, nel 2012, a premiare Vincenzo Fedele “per la tenacia, la passione e l’altruismo che lo ha sempre contraddistinto in tutti questi anni di instancabile impegno socio-culturale nel proprio territorio e nel proprio paese”.

Condividi

Sosteniamo il nostro liceo

Non ho difficoltà a confessare la mia assoluta e volontaria mancanza di neutralità in tutte le questioni che riguardano il liceo scientifico “E. Fermi” di Sant’Eufemia. Questione di cuore, probabilmente. Ma non è solo questo. Certo, la circostanza che là dentro io vi abbia trascorso anni formidabili – dal punto di vista della formazione, ma anche sotto il profilo della crescita personale – ha indubbiamente il suo peso. È, insomma, qualcosa che ha molto a che fare con il sentimento della gratitudine. Proprio per questo, ogni qual volta me ne viene data l’opportunità, sono lieto di poter “restituire” qualcosa del tanto che mi è stato dato: si tratti di incontrare gli studenti per parlare di libri o di volontariato, oppure collaborare per l’organizzazione di iniziative culturali.
Sono fermamente convinto che il liceo “Fermi” rappresenti un baluardo di civiltà e la speranza di un futuro migliore per i ragazzi del nostro territorio. Pertanto occorre difenderlo con tutte le forze e spendersi per far sì che sia messo nelle condizioni di crescere sempre di più.
Nella sua storia quarantennale, è stata costante la presenza di un corpo docente qualificatissimo, per preparazione e per doti umane. Professoresse e professori che hanno inteso e intendono il proprio lavoro come un servizio alla comunità che li ha adottati, riconoscente. Un privilegio che, sommato alla presenza di alcune vivaci realtà associative, negli anni ha notevolmente contribuito alla crescita culturale e civile di Sant’Eufemia. Ciò costituisce un patrimonio di inestimabile valore, che non possiamo permetterci il lusso di disperdere se non vogliamo rischiare pericolosi salti all’indietro.
A partire dal prossimo anno scolastico (2016/2017), l’indirizzo di studio scientifico sarà affiancato dal liceo delle scienze umane e dal liceo linguistico. Un risultato straordinario per Sant’Eufemia, che pone la nostra cittadina sullo stesso piano di realtà più popolose e per il quale grande merito va riconosciuto alla tenace dirigente Graziella Ramondino. Ma si tratta soprattutto di un’opportunità che le famiglie eufemiesi devono cogliere senza esitazioni, considerato che l’ampliamento dell’offerta formativa consentirà a un numero maggiore di ragazzi provenienti dalla scuola media di non doversi necessariamente spostare per frequentare istituti superiori corrispondenti alla propria indole e ai propri interessi culturali.
Chiunque abbia a cuore le sorti della comunità eufemiese, deve augurarsi il successo di una proposta che ha tutti i presupposti per riuscire e per produrre un significativo salto di qualità: nuova sede e docenti molto preparati in primis. Bisogna però anche darsi da fare per favorire questo risultato. Come? Semplice: con il contributo che, da cittadini protagonisti della realtà in cui viviamo, saremo in grado di offrire incoraggiando l’iscrizione dei nostri figli presso gli istituti superiori presenti a Sant’Eufemia. D’altronde, se a tutte queste ottime ragioni ne vogliamo aggiungere una più “materiale”, perché andare a cercare fuori ciò che si può avere in casa con minore dispendio di energie (alzarsi presto, rientrare nel pomeriggio) e di denaro (abbonamento per l’autobus o comunque spese per il trasporto e, più in generale, i costi della trasferta)?

Condividi

Il mercato a Sant’Eufemia d’Aspromonte

Il mercato a Sant’Eufemia ha una tradizione consolidata, giunta fino ai nostri giorni nonostante i tempi siano cambiati e le abitudini pure. Nel secolo scorso e alla fine dell’Ottocento esso costituiva un momento di grande dinamismo economico e sociale, caratteristica oggi un po’ sbiadita: “colpa” di una maggiore mobilità per gli individui, con la conseguente possibilità di fare acquisti ovunque e a qualsiasi ora del giorno (a volte anche della notte), sette giorni su sette.
Non sempre è stato così. Il mercato settimanale ha dato lustro a Sant’Eufemia, portandovi gente e denaro, facendo di questo piccolo centro pre-aspromontano un punto di riferimento e di incontro per le popolazioni dei paesi limitrofi. Nel suo capolavoro La signora di Ellis Island, Mimmo Gangemi vi fa arrivare il protagonista, partito da Santa Cristina per acquistare due “cartate” di pasta da cinque chili, aringhe sotto sale e una “pinna” dell’apprezzatissimo pesce stocco. Tutte le botteghe di generi alimentari erano infatti provviste delle vasche per la produzione dello stocco, un’arte per la quale Sant’Eufemia era nota in tutto il circondario, come mi confermò un professore universitario originario di Bagnara Calabra che ogni domenica vi saliva apposta – a “passaggi” o a piedi – mandato dalla madre, negli anni Sessanta del secolo scorso.
L’area in cui si svolgeva il commercio di mercanzie, generi alimentari, prodotti dell’artigianato e animali era l’attuale piazza Purgatorio, che sul finire del XIX secolo era appunto denominata Piazza
Mercato. Qui si teneva il mercato, a partire dal 1889 due giorni a settimana (giovedì e domenica), in seguito soltanto di domenica, giorno festivo che riusciva a convogliare in paese un maggiore numero di acquirenti. Va ricordato che prima del terremoto del 1908 le abitazioni erano distribuite tra “Vecchio Abitato” e “Petto”: la “Pezzagrande” era aperta campagna, per cui il mercato si svolgeva in quello che allora era il centro del paese, tra la piazza e i bordi della strada provinciale che da Bagnara si spingeva fino ai comuni dell’entroterra aspromontano. Proprio lo spostamento del mercato domenicale fu uno dei motivi di maggiore contrasto tra i fautori della ricostruzione del dopo terremoto nella vecchia area e i sostenitori dello spostamento nell’area della “Pezzagrande”, allorquando (8 agosto 1910) il consiglio comunale deliberò il trasferimento del mercato nel nuovo rione.
Tra XIX e XX secolo Sant’Eufemia era uno dei maggiori centri del comprensorio. Lo confermano i dati del censimento della popolazione (6.252 abitanti nel 1871, 5.888 nel 1881, 6.285 nel 1901, 6.136 nel 1911), costituita perlopiù da braccianti agricoli e pastori: il ruolo per la riscossione del diritto di pascolo nelle proprietà del comune per l’anno 1895 riporta 28 allevatori, per un totale di 4.167 capi di bestiame. Il ruolo dei contribuenti soggetti alla tassa sulle professioni ed esercizi per l’anno 1878 riporta invece 66 nominativi: 18 “pizzicagnoli” (venditori di generi alimentari), 11 panettieri, 5 dolcieri, 5 macellai, 5 calzolai, 4 farmacisti, 4 rivenditori di farine e altro, 3 droghieri, 3 venditori di ferro e altro, 3 venditori di generi diversi, 2 negozianti di legname e altro, 2 negozianti di tessuti, 1 “merciaio” (venditore di stoffe, bottoni, aghi, filati).
Con il trasferimento del mercato nel nuovo centro abitato, l’area destinata alla compravendita del bestiame acquisì la denominazione di “mercato dei porci”. Si trattava dello spiazzo (oggi edificato) posto sotto la via “maggiore Cutrì”, utilizzato anche come pubblica latrina dalle famiglie che ancora nell’immediato secondo dopoguerra vivevano in baracche prive di luce, servizi igienici e acqua. Era però anche un luogo di divertimento, poiché ospitava il tendone del circo di “Fortunello” o di quello più celebre di “Zavatta”.
Pur nell’ambito di un’economia quasi di baratto, era numerosa la presenza di piccoli artigiani, molto rinomati per la loro maestria: orafi, falegnami, ebanisti, cesellatori, cestai, tintori, tessitori, sarti, calzolai, conciapelli, forgiatori, fabbri, ferrai, tornitori, ramai, cerai. Una tradizione che si è perduta nel tempo, ma che meriterebbe di essere riscoperta, rivalutata e, perché no, rilanciata.

Condividi

C’era una volta il tennis

Chi non hai mai provato la sensazione di trovarsi in una circostanza “già vista”? L’improvviso riemergere nella memoria di ricordi sospesi tra sogno e realtà è il fenomeno del déjà vu: un passante che ci sfiora, una frenata brusca con l’automobile, un profumo, un suono che appartengono a una situazione già vissuta nel passato. Che sappiamo come andrà a finire, mentre si svolge.
A me capita entrando in pineta, soprattutto quando la primavera sta per esplodere. Il sole tiepido di marzo mi riporta agli anni del tennis, ormai lontanissimi nella memoria mia e del paese. Da oltre un decennio il campo da tennis vive infatti una condizione di abbandono ed è incredibile come nessuno riesca a rilanciare una disciplina sportiva che ha avuto stagioni gloriose. Uno sport che ha aggregato generazioni di eufemiesi e reso vivace un angolo di paradiso, quale è la nostra pineta comunale con la sua brezza fresca, che d’estate è un balsamo miracoloso per coloro che soffrono il caldo.
La vitalità di un paese si misura dal rapporto virtuoso che l’uomo riesce a instaurare con l’ambiente che lo circonda. L’abbandono è sinonimo di morte. Quanti sono nel nostro paese, oggi, gli spazi morti? Beninteso, ciò dipende pure da una socialità che è parecchio mutata rispetto anche soltanto a due decenni fa e che è – ahimè – prevalentemente “virtuale”.
Fatto sta che i luoghi di aggregazione stanno sparendo. Di sicuro è svanita la loro originaria funzione. I cortili sono ormai scomparsi o, se ci sono, hanno perso l’antico fascino di luogo in cui le famiglie condividevano con i vicini della porta accanto gioie e dolori. Le strade servono soltanto a collegare un posto con un altro, ma sono prive di calore: quasi scomparse le biciclette, per non dire dei palloni che rotolavano lungo le discese mentre dietro orde di ragazzi si affannavano per raggiungerli. Le piazze sempre più vuote o comunque non “vissute”: giusto qualche bambino, finché non raggiunge l’età che gli consente di affrancarsi dalla tutela dei genitori.
La pineta di venti, trenta, quarant’anni fa per molti eufemiesi è il posto delle fragole, perché rimanda all’innocenza e alla felicità di tempi che non torneranno mai più, all’adolescenza fatta di sogni e semplicità. Tra i suoi alberi sono nati amori, altri sono naufragati. Sulle sue panchine si sono accomodati migliaia di giovani e meno giovani. Sono queste le scene che rivedo quando ne varco l’entrata. Nonostante sia cambiata “fisicamente”, se si chiudono gli occhi e si sta in silenzio, è possibile ascoltare la vita trascorsa.
In questo passato c’è il tennis, che tutti abbiamo praticato. Con la racchetta di legno, prima che esplodesse la mania dei più moderni semiracchettoni. Tutti. Quelli che non sono mai riusciti a impostare il rovescio. Quelli che “forzavano” prima e seconda battuta. I “pallettari” che attendevano sempre l’errore degli avversari. Da marzo a settembre-ottobre era una gara a chi riusciva a prenotare il campo. Sempre occupato. E poi, d’estate, i tornei con 50-60 partecipanti: tutti affascinati dall’abilità con cui Rocco Vizzari riusciva a comporre i tabelloni di singolare, doppio e doppio “giallo”, tra teste di serie e turni preliminari, per dare a tutti almeno una chance di passaggio del primo turno.
Perché quel movimento è scomparso? Certo, il “pensionamento” di un fuoriclasse dell’organizzazione come Rocco Vizzari ha inciso parecchio. L’emigrazione universitaria e lavorativa di due-tre generazioni trainanti ha fatto il resto. Tuttavia, a mio modo di vedere, a un certo punto sono mancate le condizioni minime per poter continuare. Vale a dire: un impianto tenuto in discrete condizioni e un custode responsabile.
Per rilanciare il tennis e rivitalizzare la pineta comunale occorrerebbe ripartire da qua. Riprendere quel filo, spendendo pochi soldi per sistemare la recinzione, comprare la rete e pitturare il campo; quindi affidarne a qualcuno la gestione, stabilendo orari di apertura e di chiusura della pineta (se la videosorveglianza implica dei costi eccessivi) per evitare che i soliti vandali distruggano quanto di bello il nostro paese ha da offrire.

Condividi

La cartolina dal fronte del soldato Siviglia

Viaggiava lenta l’informazione negli anni della Prima guerra mondiale. Niente a che vedere con la nostra attualità di orrori che i social network fanno rimbalzare da una parte all’altra del pianeta, proprio mentre accadono. No, un secolo fa passavano mesi, a volte anni, prima che a casa potessero conoscere il destino di padri, mariti e figli che l’Italia aveva inviato a combattere in terre lontane, dal nome oscuro. Per “semplificare e accelerare le comunicazioni relative ai militari al fronte tra il Ministero della Guerra e le rispettive famiglie”, nel 1915 fu costituito l’Ufficio per notizie alle famiglie dei militari di terra e di mare, che aveva due sedi centrali (Bologna, per i militari di terra; Roma, per quelli di mare) e circa 8.400 tra sezioni e sottosezioni disseminate nelle province. Una straordinaria manifestazione di amor patrio e di solidarietà che coinvolse più di 25.000 volontari (in prevalenza donne), impegnati nella schedatura delle notizie e nello smistamento della corrispondenza, oltre che nella gestione del rapporto diretto con le famiglie tramite gli sportelli, dove i congiunti dei soldati si recavano per conoscere le informazioni raccolte nelle sedi di Comando o dei Distretti e conservate negli schedari.
Alla sottosezione di Reggio Calabria dovette rivolgersi Domenica Nocera, da troppo tempo ormai senza notizie del marito Giovanni Siviglia, inquadrato nel 131° Fanteria di stanza tra le pietre di quel monte San Michele che ispirò i versi immortali di Ungaretti. Già oltre la trentina, il capraio Siviglia (classe 1883) era al suo secondo matrimonio, poiché la prima moglie (Rosaria Cutrì, sposata nel 1906) l’aveva lasciato vedovo sul finire del 1913. Erano tempi in cui “c’era bisogno di una donna in casa” e così, già nel marzo del 1914, si era risposato. Quindi la chiamata alle armi e un lungo, lunghissimo silenzio. Le annotazioni riportate sullo schedario segnalano diversi ricoveri: presso l’ospedale di campo 211 a Palmanova (6 febbraio 1916) per una ferita nella “regione interscapolare”; presso l’ospedale militare di riserva di Portogruaro (4 marzo 1916), per una ferita al fianco destro; presso l’ospedale militare di Padova (10 marzo 1916), tenuto “in osservazione”. E da qui, il 2 luglio 1916 indirizza alla moglie una cartolina “in esenzione da tassa”, magro privilegio concesso dal governo al proprio esercito. L’italiano è quello stentato di chi riesce a scrivere poco più del proprio nome – ed è già un successo in tempi di analfabetismo endemico:
«Carissima consorte rispondo alla tua il quale mi dice che goti ottima salute assieme ai nostri cari bambini come il simile è di me. Di più mi dice che o scritto a mia madre la causa della mia mia malattia no a te io ammia madre non li o scritto nulla e per quanto alla mia malatia e cosa di nulla perciò come ti ripeto non starti ampressionare che speriamo al buon Dio che guarisco del tutto. Ultimo mi prolungo saluto e miei e i tuoi genitori a chi domanda di me. Saluto te con tanti baci ai nostri cari figli e sono per sempre il tuo affezionato consorte Siviglia Giovanni».
Il soldato di Sant’Eufemia tranquillizza la moglie: neanche alla madre, contrariamente a quanto lei pensava, aveva rivelato le ragioni del suo ricovero. Per cui non le stava nascondendo il proprio stato di salute: c’era soltanto da stare tranquilli e da sperare in una veloce guarigione.
L’ospedale civile di Brusegana-Padova era in realtà un ospedale psichiatrico, il quale durante la Grande Guerra ospitò un reparto dell’ospedale militare. La trincea, con il suo odore di fango e di morte, portava spesso alla pazzia i giovani militari strappati agli affetti delle famiglie: secondo gli studi di Elena Fais, i ricoverati presso la struttura di Padova per “shock da combattimento” furono in totale 1.805 (156 nel 1915, 833 nel 1916, 767 nel 1917, 49 nel 1918). Traumatizzati dallo spettacolo dell’inutile strage, i giovani in divisa ammutolivano o diventavano vittime di convulsioni e allucinazioni. Gli stati depressivi e la demenza precoce erano diagnosi abbastanza frequenti, ma non mancavano le simulazioni per evitare di essere mandati in prima linea o, meglio, per ottenere il rientro anticipato a casa.
Il successivo 25 agosto, il direttore dell’ospedale risponde alla richiesta di un commilitone (Surace) compaesano di Siviglia e lo rassicura: “Il ricoverato Siviglia Giovanni fisicamente sta bene, anche mentalmente continua a migliorare”.
La scheda non riporta altre informazioni. Molto probabilmente, la guerra di Siviglia finì con il ricovero di Padova. Rientrato a Sant’Eufemia e rimasto nuovamente vedovo nel 1947, fece in tempo a sposarsi una terza volta (il 30 ottobre 1949, con Maria Teresa Mileto), prima di morire sul proprio letto il 3 ottobre 1961.

FONTI:
– Archivio di Stato di Reggio Calabria, Ufficio Notizie, cassetto 53
– Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Ufficio Anagrafe e Stato Civile
– Elisa Erioli, Ufficio per notizie alle famiglie dei militari (1915-1919)
– Elisa Fais, Trovato l’armadio degli orrori della Grande Guerra a Padova
*Foto tratta dal blog di Francesco Luigi Chirico Reggio era…

Condividi

Il problema non è La Pira

Nei giorni scorsi è stata resa nota la volontà dell’amministrazione comunale di dedicare una piazza a Giorgio La Pira. Nulla da eccepire sulla statura morale e politica del padre costituente, deputato e sindaco di Firenze nativo di Pozzallo (Ragusa), che ho tra l’altro “incontrato” nel corso della mia esperienza da ricercatore, quando il Dipartimento dell’Università di Messina al quale afferivo prese parte alle celebrazioni per il centenario della nascita, con un convegno di studi i cui atti furono in seguito pubblicati (Dalla Sicilia al Mediterraneo. Atti del Convegno di apertura delle celebrazioni per il centenario della nascita di Giorgio La Pira, Messina-Pozzallo, 8-10 gennaio 2004).
Non condivido questa scelta, né nel merito, né nel metodo. Non la condivido nel merito, pur riconoscendo la grandezza del personaggio, derivante anche dallo sforzo per la costruzione della pace negli anni della Guerra Fredda e dall’impegno nell’Azione cattolica, associazione importante per la formazione di tantissime generazioni, che a Sant’Eufemia ha avuto per 35 anni il proprio faro nel parroco Antonino Messina.
Perché La Pira e non un calabrese o, perché no, un eufemiese? Meglio ancora: “una” eufemiese. Nel 2013, presentando nell’aula consiliare Il cavallo di Chiuminatto. Storia e strade di Sant’Eufemia d’Aspromonte, lanciai una serie di proposte, che purtroppo rimasero tali. Il mio suggerimento, in sintesi, era di correggere alcuni nomi errati (il caso limite è via Ruggero VII, personaggio storico mai esistito se non in quanto Ruggero Settimo: dove Settimo è il cognome, non l’enumerazione dinastica) e di rinnovare la toponomastica del paese dedicando qualche via a personaggi illustri calabresi ed eufemiesi, meglio ancora se donne, visto che l’unica omaggiata, a Sant’Eufemia, è la regina Margherita di Savoia. Avevo anche proposto, seppure in via informale, la costituzione di una commissione ad hoc, che curasse proprio la toponomastica del comune. Questo per dire che la mia è una riflessione che parte da lontano. Sono rimasto di quell’idea: dispiace che altri – legittimamente – l’abbiano cambiata. Dispiace anche che questa decisione sia stata presa nel chiuso delle stanze del palazzo municipale, senza coinvolgere quanto meno la Consulta comunale, che avrebbe potuto certamente dare un contributo prezioso. E questo attiene al metodo che è stato adottato per la scelta del nome, a mio avviso dettato dalle contingenze del momento, come già un anno fa, quando – a cavallo dell’organizzazione di un convegno per la Giornata della Memoria – “girò” la voce che la piazza in questione sarebbe stata intitolata ai “Giusti tra le nazioni”, ma poi non se ne fece nulla.
L’intitolazione della piazza a La Pira può avere molteplici e validissime motivazioni, ma non ha attinenza con Sant’Eufemia. Non ha niente a che vedere con la riscoperta della propria storia e con l’orgoglio per l’appartenenza a un destino comune. In quel caso, sarebbe stata un’operazione dall’altissimo valore civico e simbolico. Per come è stata concepita, invece, assomiglia più a un’occasione persa.
Rimango del parere che anche tra i nostri concittadini vi siano riferimenti morali e modelli di vite da imitare. Nella citata presentazione del 2013 – e anche successivamente – proposi il nome di una donna di Sant’Eufemia, Suor Rosaria Ioculano, che fu fondamentale per l’istituzione dell’Orfanotrofio Antoniano. Più indietro nel tempo, altri cittadini avevano suggerito quello di Giuseppe Chirico (“don Pepè”), amatissimo “medico del popolo”d alla cui memoria la Pro Loco, nel 2001, assegnò il Premio solidarietà “Ginestra”. Ma sono molti altri i personaggi eufemiesi o calabresi degni di essere omaggiati, protagonisti di primo piano nel campo della cultura, della politica, delle arti e dello sport che hanno dato lustro alla nostra terra.

Condividi

Addio 2015, benvenuto 2016

A guardarli dalla coda, tutti gli anni volano in un soffio. Il tempo di metabolizzare la fine delle festività natalizie e arriva Carnevale, poi Pasqua, quindi esplode l’estate: da lì in avanti è una rapida discesa fino a dicembre. Una lunga emozione circolare per ritornare, apparentemente, al punto di partenza. Con i consueti buoni propositi: anno nuovo vita nuova, col nuovo anno si cambia registro, dal primo gennaio spazio solo alle cose che mi fanno stare bene, da domani non mi fregate più.
Come se si potesse davvero programmare tutto. Come se la vita non sia un mistero continuo, affascinante proprio perché sorpresa inaspettata e non stanca pellicola che svolge fotogrammi prestabiliti. Come se non sia impossibile conoscerla senza viverla.
Ogni evento che ha una sua conclusione è ammantato dal velo della nostalgia, per il sol fatto che finisce. Vale anche per le stagioni della vita, per gli anni che si susseguono cancellando fatti e volti.
Restano il rammarico di ciò che poteva essere fatto ed è stato accantonato o rimandato, la consapevolezza di non essere sempre stati all’altezza dei propri sogni, la prosaica constatazione che spesso le cose non vanno come vorremmo e bisogna pure farsene una ragione.
Io non lo so se posso dirmi soddisfatto del mio 2015. Ogni valutazione ha parametri soggettivi che variano da persona a persona. Fino a quando avrò un piatto caldo e un tetto, ad esempio, per me sarà sempre festa. Il resto è contorno.
Mi importano gli incontri che riesco ad avere lungo la strada polverosa ed esaltante della vita. E pazienza se lungo quella stessa strada qualche compagno di viaggio, nel corso dell’anno che oggi volge al termine, ha prenotato la fermata ed è sceso o è stato invitato a scendere. È la vita, bellezza, e non ci possiamo fare niente: nel conto bisogna mettere anche le lacerazioni.
Ci pensa la strada a fare la selezione, quella strada da masticare passo dopo passo: con la tenacia del fabbro che percuote l’incudine del proprio destino, con l’andatura regolare del maratoneta sull’asfalto infuocato.
Per bussola, la propria coscienza.

Condividi