Per l’istituzione della commissione toponomastica

Stamattina ho presentato la richiesta di inserire all’ordine del giorno
del prossimo consiglio comunale un punto con oggetto l’istituzione della
commissione toponomastica. 
La memoria storica è il collante di una comunità, la ragione dello stare insieme e del sentirsi protagonisti di un destino comune. Per questo motivo auspico che il consiglio comunale riesca a lavorare sulla mia proposta con spirito unitario e che vi sia il massimo coinvolgimento possibile della cittadinanza.

*La proposta di istituire la commissione consiliare “toponomastica” risponde a due ordini di motivi. Il primo, di carattere pratico, attiene all’esigenza amministrativa di governo del territorio mediante la predisposizione di un’adeguata toponomastica laddove esistono strade, vicoli e spazi pubblici privi di alcuna denominazione.
La seconda esprime invece un alto contenuto ideale di tutela della memoria collettiva, considerato che il lavoro della commissione dovrebbe essere finalizzato alla valorizzazione del patrimonio storico e culturale di Sant’Eufemia, alla riscoperta del senso di comunità, all’orgoglio di sentirsi eufemiesi.
La toponomastica, quindi, come strumento di gestione del territorio che consente di tramandare la storia locale coltivando il ricordo delle personalità che hanno dato lustro alla comunità nel campo dell’arte, della scienza, della cultura, del sociale, della politica.
La toponomastica attuale è molto datata: salvo qualche sporadica eccezione (Largo Giovanni Paolo II e Piazza Giorgio La Pira), è infatti rimasta ferma al secondo dopoguerra. Ed è altresì inconcepibile che a Sant’Eufemia vi sia una sola strada dedicata a una donna (via regina Margherita): compito della commissione dovrebbe essere anche quello di sanare tale ingiustizia; ancora, essa potrebbe finalmente porre rimedio alla presenza di veri e propri errori storici (esempio: sostituire “Via Ruggero VII”, inesistente personaggio storico, con “Via Ruggiero Settimo”, che fu protagonista del Risorgimento italiano e primo presidente del Senato del Regno dopo l’unificazione nazionale).
La commissione, da istituire nel rispetto del criterio di rappresentanza proporzionale tra maggioranza e minoranza consiliare, svolgerà l’incarico a titolo gratuito, per cui il suo lavoro non comporterà alcun onere per l’Amministrazione. Inoltre, nell’ottica di promozione del ruolo responsabile e propositivo della cittadinanza attiva, essa sarà aperta al contributo dei singoli cittadini e delle associazioni secondo modalità che saranno definite con un apposito regolamento.

*Relazione illustrativa allegata alla richiesta di inserimento, nell’ordine del giorno del prossimo consiglio comunale, della proposta di istituzione della commissione toponomastica.

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Tipi da Facebook

Si legge poco e si naviga molto, è un dato incontestabile. Il rapporto Censis del 2016 è per certi versi impietoso: a dispetto dell’alta percentuale di laureati, i “lettori forti” (più di 12 libri in un anno) sono solo il 13,7%. Sono cambiati i canali di informazione, come conferma il crollo dei lettori di quotidiani tra 2007 e 2016 (-26,5%). Dopo il telegiornale (63%), è Facebook la principale fonte d’informazione per gli italiani (35,5%): più indietro i giornali radio (24,7%) e, appunto, i quotidiani (18,8%), superati anche dai motori di ricerca (19,4%), poi a seguire troviamo YouTube (10,8%) e Twitter (2,9%). Facebook è uno strumento pratico per la rapidità della ricerca degli articoli che siti o contatti personali condividono: notizie di cronaca, post di approfondimento, comunicati stampa, eventi. Nonostante il conflitto non ancora risolto tra news e fake news, tra informazione e disinformazione, il social di Zuckerberg da questo punto di vista è utile. Ciò ha però prodotto anche una sorta di mutazione “antropologica”: senza scomodare Umberto Eco, è innegabile che l’utilizzo dei social da parte di molti utenti non sempre risponde allo scopo di informarsi, mantenere/riallacciare rapporti con amici e parenti lontani (una benedizione), condividere con gli altri momenti importanti della propria vita: avvenimenti, “successi” (una pompatina al proprio ego fa sempre bene, inutile negarlo), dolore e dispiaceri (ma qua si potrebbe aprire una parentesi infinita su tempi e modalità, riservatezza e pubblicità di sentimenti intimi e personali). Eh, no: “oltre”, c’è tutto un mondo da studiare. Un compito che esula dalle mie capacità, per cui mi limiterò soltanto a tracciare un breve profilo dei “tipi” che più mi fanno divertire, ma anche riflettere: mi incuriosisce cercare di comprendere certi meccanismi mentali, anche se spesso non resta altro da fare che alzare le braccia e sorridere. Ma procediamo con ordine.

L’ALLUSIVO – Non è mai diretto, ma è come se lo fosse. In una comunità virtuale nella quale tutti conoscono tutti, non è complicato intuire il destinatario di una frecciatina. Però l’allusione aggiunge un tocco di sottigliezza alla volgarità dell’attacco frontale e in più, particolare da non sottovalutare, consente di raccogliere qualche consenso in più perché offre al potenziale sostenitore la possibilità di salvarsi in calcio d’angolo: «Sì, ho messo mi piace e ho commentato quello stato, ma non credevo fosse riferito a te».
IL CATASTROFISTA – Svolge una funzione sociale. Terremoti, alluvioni, frane, cicloni, cadute di asteroidi sulla Terra ed estinzione dei ghiacciai sono il suo pane quotidiano. Se c’è una sola nuvola nel cielo, state tranquilli. Siete in una botte di ferro. Lui ne seguirà l’evoluzione fino a quando potrà finalmente mettervi in guardia: «Restate tappati in casa!».
L’EPURATORE – Ha un’attività ciclica, che si manifesta puntuale come il disco di Mina a Natale. I suoi ultimatum nascondono una propensione palingenetica volta alla realizzazione della “soluzione finale” contro vagabondi e parassiti del web. Che sarebbero tutti quelli che non interagiscono con lui commentando o “mipiaciando”. Inaccettabile, per cui: «Raus! Presto farò un po’ di pulizia tra i miei contatti!».
IL MALATO – Di lui sappiamo se ha il termometro a mercurio o quello elettronico, le medicine che prende, i dolori di testa insopportabili, eventuali cadute o indigestioni. Più che un profilo Facebook quello che abbiamo davanti è un foglio di anamnesi. D’altronde, il filosofo contemporaneo Peppe Voltarelli ha ragione quando sostiene che il lamento è una forma di godimento. Il top però viene raggiunto con la “registrazione” presso un ospedale, senza ulteriori informazioni. La solidarietà così obliquamente cercata in quel caso “deve” scattare immediata: «Che ti è successo?».
IL QUESTUANTE – Si muove nella penombra della messaggistica privata, dove solo tu puoi vederlo. Arriva con passo felpato quando meno te l’aspetti, anche se in genere preferisce essere il tuo buongiorno con una richiesta che – santiddio – non dovrebbe costarti niente esaudire: «Lo metteresti un “mi piace” allo stato che ho appena pubblicato?».
LO SGAMATORE – Aggiorna raramente il suo stato e ancor meno interagisce con i suoi contatti, dei quali però conosce vita, morte e miracoli “virtuali”. In pratica utilizza Facebook esclusivamente per tenere sotto controllo gli amici, ai quali ogni tanto rivela le sue sensazionali doti da Sherlock Holmes facendo l’occhiolino e sussurrando all’orecchio: «Sei andato al mare a Scilla, eh?».
IL SORVEGLIATO – È un perseguitato. Spiato in tutto quello che fa: pubblica uno stato e i suoi contatti, pensate un po’, lo leggono. Kgb, Cia, Mossad e Stasi gli stanno sempre col fiato sul collo per carpire informazioni che verranno poi decodificate da un cervellone centrale. Nel frattempo, i suoi stati sono passati al setaccio dai suoi contatti, che – sicuro – li commentano privatamente, nei bar, dal fruttivendolo o dal parrucchiere. Ma lui non teme nessuno: quello che deve dire, lo dirà.
IL TAGGATORE – Pubblica qualcosa e ti “tagga”, magari insieme ad altre venti persone ignare come te. Perché in quel momento tu non sei con lui! Passi per un articolo o un evento che può interessarti, per la condivisione di uno stato d’animo comune, ma il tag in una foto mentre sorseggia l’aperitivo è decisamente troppo: non te lo metto il “mi piace”, tirchio.
IL TATTICO – Il suo “mi piace” è sempre calcolato, mai messo a caso. Una forma di captatio benevolentiae per dimostrare interesse/simpatia e, nello stesso tempo, sperare di suscitarne in virtù della legge non scritta sul contraccambio della cortesia. Vive costantemente in bilico tra l’ansia di farsi vedere e la paura di esporsi troppo. In fondo, lui è un trapezista dei sentimenti.

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La tua vita, il mio dono

«Questo libro è il mio inno all’amore». Una lezione sul trionfo della vita: passato, presente e futuro sublimati nel sorriso di una mamma che non avrebbe potuto amare di più quel bambino “con un cromosoma pazzo e un sorriso che scioglieva il cuore”, se avesse “corso, saltato, cantato” come qualsiasi altro suo coetaneo. Una mamma alla quale non è mai pesato non ascoltare la parola “mamma” pronunciata dal figlio: «i tuoi occhi ed il tuo costante sorriso mi riempivano il cuore come nessuna parola al mondo avrebbe potuto fare. Sono fiera e orgogliosa, non finirò mai di ripeterlo, sono fiera e orgogliosa di essere stata la tua mamma; la tua vita, il dono della tua vita, il regalo più grande che Dio, Gesù e la Madonna abbiano potuto fare al tuo papà e a me».
Un inno all’amore che sconfigge anche la morte, che spinge un paese intero ad assistere alla prima uscita ufficiale del libro nella sala conferenze dell’Hotel “Il Gattopardo” di Brolo, diventata troppo piccola per contenere la gente che tracima nel corridoio e poi ancora giù nelle scale. Commozione e gioia sui volti degli amici di Ignazio Raffaele e Mimma Giuliano, su quelli dei compagni di scuola di Ninuccio. Una comunità che “festeggia la vita”, per parafrasare il titolo di un capitolo del libro scritto a quattro mani da Mimma Giuliano e Azzurra Ridolfo (“l’amica che abbiamo avuto sempre accanto”): La tua vita, il mio dono. Mimma racconta Nino (Armenio Editore, 2017).
Sì, per festeggiare la vita. Questo mistero insondabile che ci sforziamo di comprendere, di etichettare con categorie inadeguate. Quando invece occorrerebbe lasciarsi inebriare dai suoi infiniti odori, spalancare gli occhi e farsi accecare dai suoi colori più forti, gustarla in tutta la sua pienezza. Sempre. Vita e morte, morte e vita: Yin e Yang che si tengono insieme facendosi beffe delle difficoltà dell’uomo incredulo di fronte all’arcano.
Il libro ripercorre, anche per immagini, la breve ma intensa parabola terrena di Ninuccio, sedici anni di presenza centrale nella vita della sua comunità. La grandezza di questa storia sta nel suo essere esperienza condivisa; sta in una quotidianità che non è soltanto quella intima del rapporto tra genitori e figlio disabile, ma si snoda su più livelli. La famiglia, certo. Non tutti i bambini disabili hanno la fortuna di possedere due genitori come Mimma e Ignazio: «Avevamo capito quanto rara fosse la tua malattia e, di conseguenza, quanto speciale fossi tu. Eravamo stati scelti per crescerti, era la nostra missione, dovevamo esserne fieri. E lo siamo stati». Parole che rafforzano il monito di Giuseppe Pontiggia nel suo Nati due volte, al quale si ispirò Gianni Amelio per girare Le chiavi di casa: «Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso difficile. La seconda dipende da voi, da quello che saprete dare. Sono nati due volte e il percorso sarà più tormentato. Ma alla fine anche per voi sarà una rinascita».
Il livello chiassoso e colorato della scuola, “anni “stupendi” che fanno sentire Ninuccio parte integrante di una comunità che cresce insieme a lui, perché la sua vita – e questo è il terzo livello – diventa romanzo di formazione per tutti, gioco di squadra che abbatte steccati mentali e barriere architettoniche e che trova nell’associazione di volontariato La Rosa Blu uno strumento di lotta efficace: «La solidarietà vera non è fatta di sterili parole, sguardi compassionevoli e pacche sulla spalla per dar forza e coraggio. La solidarietà vera consiste nell’aiutare e nell’interagire con la disabilità, nel nostro caso con bambini speciali che gioivano della compagnia, dell’aiuto, della presenza, del sorriso dei loro coetanei più fortunati».
L’immagine di Mimma che spinge la carrozzina di Ninuccio ed è sempre accompagnata da ragazzi, amici o parenti spiega con forza la dimensione empatica di una storia dal carattere universale. Una lezione di umanità e di dignità che invita a guardare il mondo con fiducia e con speranza anche quando il dolore prevale, anche quando la morte chiama a sé una persona amata: e che indica nell’amore per gli altri e per la vita il senso della propria stessa esistenza.

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Un po’ d’acqua sui fuochi

Invitato da più parti ad esprimere la mia opinione sui “fatti” dell’Entrata di Sant’Eufemia, proverò a (non) farlo. La vicenda è nota a tutti: ieri la tradizionale “Entrata” della statua di Sant’Eufemia sotto i fuochi d’artificio ha seriamente rischiato di saltare. Un colpo al cuore per chi è legato a una tradizione che fa parte del patrimonio storico e religioso della nostra comunità: credenti e non credenti, praticanti e non praticanti. Qualcuno ha pianto di fronte a una prospettiva che non riusciva ad accettare, altri hanno dato sfogo al proprio disappunto sui tanti strumenti di comunicazione che la moderna tecnologia mette a disposizione. Ho seguito anch’io il “dibattito” che ne è venuto fuori, su facebook e su qualche chat di whatsapp. Infine, quasi inaspettata, la notizia che tutti attendevano è giunta: «L’Entrata si farà».
Questi i fatti, nudi e crudi. Attorno ad essi – durante, ma soprattutto dopo – si è scatenata la ridda delle ipotesi e delle accuse, sui quali non intendo tornare per un semplice motivo: io, come la gran parte delle persone a vario titolo coinvolte, non ho elementi di valutazione concreti.
Penso però due cose. La prima: non sempre è necessario, né utile, dire la propria, a maggior ragione quando non si ha il quadro completo di quello che è accaduto. La seconda: l’importante, per tutti, è che alla fine l’Entrata c’è stata.
Quest’ultimo aspetto non va affatto sottovalutato, anzi a mio modo di vedere è l’unico che conta. Ieri sera al termine della processione e oggi in diverse chiacchierate, ho potuto apprezzare come in tanti non hanno tirato in ballo nessun “retroscena” della vicenda. Si sono invece quasi tutti soffermati sull’aspetto emotivo del quasi annullamento dell’Entrata, sull’altalena di sentimenti vissuti in una giornata incredibile: l’amarezza avvertita prima e l’esplosione di gioia finale. Anch’io, guardandomi intorno dietro la transennatura che perimetrava la piazza antistante la chiesa, ho percepito questa sensazione. Mano a mano che passavano i minuti e l’Entrata sembrava nuovamente a rischio, sulla faccia dello spettatore “comune” – disinteressato, oserei dire – leggevo tristezza e delusione, nient’altro.
Non amo le tifoserie e mi tengo sempre lontano dalla caccia alle streghe, dai “dagli all’untore”. Non mi piace dividere il mondo in buoni e cattivi, le cose in bianche e nere, i comportamenti in giusti e sbagliati. Preferisco lasciare agli altri le verità assolute e coltivare, invece, il seme del dubbio; né mi fido delle deduzioni troppo semplici, quasi scontate. Penso anche che le parole possono davvero diventare pietre, per cui andrebbero usate con molta cautela e parsimonia. A maggior ragione quando non si ha piena contezza dell’accaduto.
Io non ce l’ho, nonostante il tanto parlare di queste ore. Preferisco quindi sottolineare l’aspetto positivo di un’Entrata bella, fortemente sentita proprio a causa di tutte le difficoltà emerse e superate. Vivremmo in un mondo migliore se riuscissimo a godere di quello che abbiamo, se riuscissimo a gustare il presente esprimendo gratitudine a tutti coloro i quali hanno consentito la realizzazione di uno spettacolo che fa parte della nostra identità eufemiese, ognuno nel proprio ruolo e con differenti responsabilità: dal comitato feste alla ditta dei fuochi d’artificio, dai portatori della statua all’amministrazione comunale, dal pubblico tutto sommato composto (nonostante la tensione) alle forze dell’ordine e ai volontari della protezione civile. Senza perderci in una conflittualità estenuante e incomprensibile.
La festa patronale deve unire, non dividere: altrimenti avremo fallito tutti.

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Elogio della tartaruga

In una celebre favola di Esopo, la tartaruga si aggiudica la sfida contro la lepre che, pensando di avere già vinto, si ferma a metà gara e, tra altre perdite di tempo, addirittura si addormenta. La tartaruga, invece, nonostante il passo lento riesce a tagliare per prima il traguardo, vanificando il tardivo tentativo di rimonta della lepre. «Non serve correre, bisogna partire in tempo», questo l’ammonimento: per raggiungere qualsiasi risultato, occorre impegno e costanza.
Nel mondo di oggi c’è sempre meno spazio per le tartarughe. Chi si ferma viene anzi calpestato da chi arriva da dietro a tutta velocità. Non abbiamo il tempo di riflettere su cosa realmente vogliamo, dove stiamo andando, perché ci stiamo andando. La vita sembra essere diventata una corsa affannata fine a sé stessa.
Invece andrebbe riscoperto il valore della lentezza. Qualcuno lo fa, ad esempio gli organizzatori della Giornata mondiale della lentezza, quest’anno giunta all’undicesima edizione, i quali invitano a “vivere con lentezza, vivere al ritmo del tempo”. Un modo per ritrovare l’armonia perduta con la natura, un proprio equilibrio personale, dedicarsi alla riflessione, godere del piacere della riflessione. Oggi si riflette poco, forse perché per riflettere c’è bisogno di silenzio, e invece siamo bombardati dal rumore, che non è soltanto il chiasso delle nostre metropoli, ma l’ossessione di dire la qualunque su qualsiasi argomento, con una verbosità compulsiva.
Bisognerebbe studiare da tartaruga. Che tra l’altro è una bestiolina simpatica. D’altronde, chi non ha fatto il tifo per lei nel paradosso di Zenone, anche se il ragionamento del filosofo greco non ci convinceva affatto ed eravamo sicuri che Achille, alla fine, l’avrebbe raggiunta e superata?
Con i suoi spostamenti al rallentatore la tartaruga sembra invitare a vivere il presente in maniera più piena, a mettere da parte la frenesia per ciò che ci riserverà il futuro. Tanto il futuro arriverà lo stesso. La corazza serve a proteggerla dai pericoli: la propria salvezza, questo il messaggio, la tartaruga la trova dentro se stessa. Anche l’uomo ha necessità di costruirsi una corazza, con valori e ideali: quelli saranno il nostro rifugio, la nostra àncora di salvezza quando attorno tutto sembrerà franare.
La proverbiale longevità della tartaruga non sarebbe possibile senza un elevato spirito di adattamento. Non a caso viene associata al concetto di resilienza, la capacità di resistere agli urti della vita e riprendere il cammino, rimbalzando. La tartaruga sa fare tesoro dei propri errori, sa regolarsi di conseguenza. Come “la bella tartaruga” di Bruno Lauzi, che un tempo fu “un animale che correva a testa in giù/ come un siluro filava via/che mi sembrava un treno sulla ferrovia/ ma avvenne un incidente/ un muro la fermò/ si ruppe qualche dente/ e allora rallentò/ […] andando piano lei trovò/ la felicità/ un bosco di carote/ un mare di gelato/ che lei correndo troppo/non aveva mai notato/ e un biondo tartarugo corazzato/ che ha sposato un mese fa”.
La tartaruga è un animale saggio e la saggezza non va mai d’accordo con la fretta: richiede calma e un avanzare per gradi, con passo da montanaro. Chi va di fretta, oltretutto, si perde il paesaggio. Chi invece cammina lentamente ha tempo per osservare attorno a sé ed è padrone del tempo e dello spazio: decide quale direzione prendere, quando e dove sostare. La lentezza è il ritmo delle trasformazioni, ma anche l’antidoto più efficace contro l’oblio.
Lo sottolinea Milan Kundera (La lentezza, Adelphi 1995): «Nella matematica esistenziale il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio. Da tale equazione si possono dedurre diversi corollari, per esempio il seguente: la nostra epoca si abbandona al demone della velocità ed è per questo motivo che dimentica tanto facilmente se stessa. Ma io preferisco rovesciare questa affermazione: la nostra epoca è ossessionata dal desiderio di dimenticare, ed è per realizzare tale desiderio che si abbandona al demone della velocità; se accelera il passo è perché vuole farci capire che oramai non aspira più ad essere ricordata; che è stanca di se stessa, disgustata da se stessa; che vuole spegnere la tremula fiammella della memoria».
Per sconfiggere la malattia dell’oblio e coltivare una speranza di felicità, è necessario dunque rallentare, fermarsi. Riuscire a godere del presente. La vita è come un buon vino: va gustata lentamente, con perizia da sommelier.

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Il passaggio dell’uragano Irma da Miami, in presa diretta nel racconto di Juan



Una testimonianza del passaggio di Irma da Miami poche ore fa, raccolta da mio fratello Mario

«Credo stia piovendo però non posso guardare fuori perché è tutto ricoperto. Abbiamo inchiodato delle lamiere su porte e finestre. In pratica siamo barricati dentro. Topi in gabbia. Non resta che aspettare».
Il mio amico Juan vive a South Beach, dove in queste ore sta passando Irma. È però ospite di una sua amica, in un quartiere più a nord. Al momento è al buio, perché non c’è più elettricità e le batterie è meglio conservarle per quando se ne avrà realmente bisogno.
Lui ha dovuto evacuare perché la sua casa è a rischio inondazione. Ha preso con se ciò che poteva, serrato la porta di casa, ed è andato. Essendo uno che per alcuni anni a Londra si è mosso di quartiere in quartiere con il proprio mondo rinchiuso in una valigia senza ruote, so come il mio amico si senta. Abbandonare, lasciarsi dietro il non indispensabile; è la praticità della vita che ti colpisce in pieno viso quando ti rendi conto che non trovi più cose che avresti voluto conservare per sempre. Il timore di Juan è che domani potrebbe ritrovarsi senza casa. Ha lasciato il Venezuela un mese fa, dopo aver conseguito una qualifica di ingegnere civile ad Havana, che non potrà usare in America perché non conosce l’inglese come vorrebbe. “Il sogno americano”, almeno per ora, lo ha portato in un negozio di elettrodomestici.
«Il rumore del vento è incredibile, sembra un ruggito infinito», continua Juan: «Le finestre continuano a scuotere. È come se qualcosa di sovrumano stia cercando di strapparle via, assieme alla casa». Poi cade la linea. Lo richiamo ma il cellulare è muto. Penso lo risentirò tra qualche giorno, passata l’emergenza. In queste situazioni preferisco sempre sperare in meglio. A che serve crearsi ipotetici drammi? È con questo spirito che domani andrò a Cuba, dove il Malecon e alcuni quartieri di Havana sono ancora inondati e dove, probabilmente, nei prossimi giorni non ci sarà elettricità. Ci vado con serenità, perché ho imparato sulla mia pelle che morire non è facile e che la vita continua anche se tutte le tragedie del mondo sono sempre dietro l’angolo.
Ripenso alla nostra conversazione e mi colpisce la calma di Juan. In un mondo dove ormai si va avanti a forza di superlativi, dove un mal di testa è un incubo, dove gli sconti sono un evento e dove tutto è una emergenza a oltranza, Juan di fronte ad un evento catastrofico sceglie il tono pacato di chi è semplicemente contento di essere vivo.

Mario Forgione

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Disagio

Abbiamo già perso quando ci chiediamo: «ma chi me lo fa fare?». Eppure è difficile nascondere il disagio e la delusione, due sentimenti che spingono al disimpegno, a chiudersi nel proprio io e là trovare conforto. Nel piccolissimo di chi ha sperato di dare un contributo di passione e di valori, è un po’ quel che accadde tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, quando la disillusione prese il sopravvento sull’onda lunga del ’68, della contestazione, dell’esplosione di creatività degli anni ’70, ma anche delle grandi lotte politiche e sociali sfociate nel terrorismo. Gli anni del “riflusso”, furono definiti.
Eppure ci sarebbe bisogno di società civile: non quella dei convegni e delle parate, bensì quella che si rimbocca le maniche e cerca di fare qualcosa di buono per la collettività. Non ne sto facendo una questione di politica superiore, né di amministrazione locale: parlo in generale, anche se è evidente che i segnali di questo decadimento morale è possibile coglierli pure nelle nostre piccole realtà. Ci stiamo imbarbarendo, siamo diventati volgari, insopportabili, verbalmente violenti e incapaci di confrontarci con l’altro senza ricorrere all’insulto.
Ecco: viviamo in una realtà per certi versi insopportabile, regredita e degradata. Nella quale ogni giorno che passa è sempre più faticoso riuscire a riconoscersi. Nella quale molte delle cose in cui si è sempre creduto sono andate perse o non contano più niente. A cavallo tra due ere: una che è ormai in pieno declino, che forse è già morta tranne che nella testa di chi ancora ostinatamente cerca di coglierne qualche bagliore di luce; l’altra sempre più dirompente, una slavina che sta portando via tutto.
Una realtà fatta di scostumatezza e di gente senza alcuna idea di cosa significhi il termine “rispetto”, quello vero, non la loro idea di seconda mano, anche di terza, filtrata da un armamentario concettuale superato e vivo soltanto nei ricordi nostalgici di qualche anziano.
E poi l’ipocrisia delle anime belle, quelle che predicano grandi valori, valori che scompaiono quando entrano “in conflitto” con le proprie tasche. Perché quella è l’unica cosa che conta, il denaro. Per il denaro si può anche vendere l’anima al diavolo, in tanti lo fanno quotidianamente. E la cosa sconfortante è che troppa gente riconosce che, se solo si trovasse in quella situazione, farebbe la stessa identica cosa. Ci si gira dall’altra parte, si fa finta che non sia successo niente, sperando che domani possa andare meglio.
Disagio e delusione. Perché a nessuno può essere chiesto di diventare martire o giustiziere, quella è la vocazione degli eroi e “beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”. Ma neanche si può mandare a quel paese mezzo mondo e cercare rifugio sotto una campana di vetro.
È questa la vera solitudine.

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“A Dio” di Vittorio Gassman

Oggi Vittorio Gassman, “il Mattatore”, avrebbe compiuto 95 anni. Una personalità debordante e un artista sublime, versatile, protagonista di pellicole che hanno fatto la storia del cinema. Siamo sempre stati abituati alla presenza scenica imponente di un uomo sicuro di sé, istrionico, per utilizzare l’aggettivo che ne ha sempre accompagnato la carriera. Ma Gassman è stato uomo dai grandi dubbi, fino alla fine. Da quando non c’è più lo associo istintivamente alla poesia (“A Dio”) che la figlia Paola lesse nel funerale, che ritagliai dal Corriere della Sera e che tutt’ora conservo, tanto mi colpì. Versi che appartengono all’uomo più che dell’artista. Un uomo combattuto dall’eterna contraddizione tra fede e ragione, che probabilmente al tramonto della sua vita era riuscito a risolvere. 
Comunque la si pensi in materia di fede, si tratta di versi toccanti e intimi dedicati ad una questione centrale nella storia dell’umanità.

A DIO

Eri, come “La lettera smarrita” di Poe,
nello spazio impensato perché
scontato.
Eri e Sei – forse ora ho capito –
fra le parole che ho tanto usato e
osato;
sempre ci sei stato, eri lì,
ci sei ancora e voglio decifrarti,
stanarti usando sì le parole ma in
modo
diverso e in diverso modo la follia,
il mestiere con cui la parola
mi diventa grafia, mania, nodo,
vuoto suono od effetto. E fola.
Solo quello so fare, solo lì
c’è speranza che Tu adesso compaia,
perfetto,
se vuoi in rima, rimando con te stesso,
in un metro o in un altro. Tu
puoi innalzare al cielo qualunque
prosodia;
purché Tu appaia, le fruste parole
si faranno Parola, e col mio io
sepolto finalmente parlerai,
che mai è stato quel che era forse
destinato
ad essere, un io mancato, strangolato.
Parlami a perdifiato, Ti cedo
ogni suono o silenzio; e già ti vedo
emergere da quella pila di parole
inutilmente sparse nel cassetto,
cancellarne rime e rumore,
facendone linguaggio perfetto.
Cancella anche me, cambiami,
conducimi,
ritraducimi, parla Tu per sempre,
Signore.

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Carmelo Tripodi

Nel 1906 il contesto socio-economico di Sant’Eufemia è quello tipico dell’entroterra aspromontano, caratterizzato da una bassa scolarizzazione, da un indice elevato di mortalità infantile e dal dominio di pochissime famiglie benestanti alle quali si contrappone una massa di contadini e pastori. Accanto ad essi, vi è la presenza significativa di un diffuso e apprezzato artigianato, al quale però corrisponde una scarsa gratificazione economica in un regime che ancora conserva per lo più i caratteri del baratto. Il sistema di trasporto più diffuso è quello a dorso di mulo, anche se da poco una corriera consente di arrivare a Bagnara, mentre per la Littorina bisognerà aspettare ancora vent’anni.
Sant’Eufemia d’Aspromonte si sta leccando le ferite del terremoto che l’8 settembre dell’anno precedente, pur non causando vittime, aveva semidistrutto il paese: 41 case erano state infatti dichiarate inabitabili e subito demolite, mentre 383 erano state gravemente danneggiate (altre 181 avrebbero subito danni nel successivo sisma del 23 ottobre 1907), preparando così il terreno per la tragedia del 28 dicembre 1908, quando fu annientato l’85% del patrimonio edilizio e rimasero sotto le macerie 537 eufemiesi (oltre 2.000 i feriti).
Perché questa premessa? Perché è da questa realtà che, proprio nel 1906, partono verso Palermo due quadri destinati all’Esposizione Campionaria Internazionale: “Galileo Galileo” e “Sant’Antonio abate”. L’autore delle opere si chiama Carmelo Tripodi e i due lavori gli avrebbero procurato le più alte onorificenze: Premio Concorso Universale Gran Corona d’oro con medaglia al valore artistico; Premio dell’Esposizione Gran Premio e Croce Insigne; Premio Concorso Nazionale Targa della Città di Padova. L’anno successivo Tripodi si sarebbe inoltre imposto nel Premio Concorso Internazionale “Gran Coppa d’Italia” e, nel 1912-1913 sarebbe stato eletto membro della Giuria d’Onore all’Esposizione Internazionale di Parigi.
Insomma, da uno dei posti più sperduti e sconosciuti d’Italia salta fuori un talento artistico che riesce ad imporsi in campo nazionale e internazionale. Basterebbero soltanto queste brevi informazioni per illustrare la caratura del personaggio. Un artista a tutto tondo, versatile e dal “multiforme ingegno”, che ha dato lustro alla nostra comunità e del quale occorre perpetuare la memoria.
Carmelo Tripodi nasce infatti a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 28 aprile del 1874 (e vi muore il 31 marzo 1950), figlio di Giuseppe e di Teresa Filardi, originaria di Melicuccà. Da ragazzo frequenta la bottega di un pittore del luogo (Versace) che gli trasmette l’amore per il disegno e per la pittura; quindi, nel 1895, si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Messina e, completati gli studi, apre nel paese natio un proprio studio di pittura e scultura. Purtroppo il terremoto del 1908 distrugge gran parte delle opere fino ad allora realizzate, tra queste il monumentale altare per la chiesa di S. Maria delle Grazie, con il bassorilievo rettangolare sopra la nicchia della Madonna e le statue di San Pietro e di San Paolo poste ai due lati, ma il suo lascito rimane comunque di valore assoluto.
Tra le opere giunte ai giorni nostri, oltre ai due lavori già menzionati, hanno riscosso l’apprezzamento dei critici l’olio giovanile “San Rocco e gli appestati” e i dipinti della maturità: “Marie al sepolcro”, “Deposizione”, “Gesù che cammina sulle acque”, “Monaco in meditazione”, “Testa di Gesù”, “Mosè e il roveto ardente”, “Padre dell’artista”, “Suonatore sulla neve”, “Testa di frate”, “Testa di vecchia”.
Carmelo Tripodi sviluppa anche una sua personalissima arte nella lavorazione di stucchi, creta e soprattutto cartapesta: il “Sacro Cuore di Gesù”, che è possibile ammirare all’interno della chiesa di Sant’Eufemia, o il “Cristo alla Colonna” e il “Cristo morto” della Processione dei Misteri ne confermano la grandezza. Altre sue opere sono conservate ad Acquaro di Cosoleto (chiesa di San Rocco), Gioiosa Ionica (chiesa della Pietà), San Procopio (chiesa dell’Addolorata), Palmi (chiesa del Soccorso), in diverse altre chiese e palazzi nobili della Calabria e della Sicilia.
L’eclettismo di Tripodi abbraccia anche il campo della fotografia, che ai primi del Novecento comincia a diffondersi anche nei comuni più periferici. Il figlio Domenico Antonio Tripodi, artista di fama mondiale che, con i fratelli Agostino e Graziadei (“il restauratore al servizio di Dio”), ha ereditato il genio creativo del padre, ricorda l’emozione e lo stupore per quell’esperienza così “nuova” agli occhi di un bambino: «Tante volte, da piccolo, mi sono infilato nella “camera oscura” e sono stato testimone del suo paziente operare; timoroso, mi bastava toccare il suo pantalone per sentirmi rassicurato in quell’oscurità, che sapeva di mistero e di tempo infinito».
Carmelo Tripodi, che ha “prevalentemente immortalato il mondo eufemiese”, ci fa vedere com’era Sant’Eufemia in quegli anni, conoscere i volti degli anziani scavati dalle rughe o la “figura di cacciatore”, infine comprendere nella sua drammatica realtà l’immane tragedia del terremoto del 1908, grazie a scatti che consegnano all’eternità la sofferenza del popolo eufemiese.

*Per ulteriori approfondimenti si veda la pubblicazione “Carmelo Tripodi a cinquant’anni dalla morte”, a cura dei figli e dei nipoti, con il patrocinio del Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Tipografia ABILGRAPH, Roma, ottobre 2000.

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Siate maledetti

Come troppe volte nel corso di quest’estate d’inferno, anche oggi bruciano i boschi attorno a Sant’Eufemia. Incoscienti e criminali, a voi giunga tutto il nostro disprezzo. E siate maledetti.

Siate maledetti per le colonne grigie che imbrattano l’azzurro del cielo.
Siate maledetti per le notti macchiate d’arancio.
Siate maledetti per il bruciore dei nostri occhi.
Siate maledetti per il raschio alle nostre gole.
Siate maledetti per le nostre narici ferite.
Siate maledetti per l’odore di morte appiccicata alla nostra pelle.
Siate maledetti per quest’aria di gesso.
Siate maledetti per ogni albero, per ogni fiore, per ogni ciuffo d’erba incenerito dalla vostra follia.
Siate maledetti perché il vostro fuoco non purifica, non riscalda, non è vita.
Siate maledetti per i funghi che non raccoglieremo.
Siate maledetti per le viole che non fioriranno.
Siate maledetti per i bambini preoccupati: «Dove dormiranno ora gli animaletti del bosco?».
Siate maledetti per il rumore delle pale dell’elicottero.
Siate maledetti per questa caligine di apocalisse.
Siate maledetti per le facce sudate e annerite dei volontari.
Siate maledetti per le frane che arriveranno con le prime piogge.
Siate maledetti perché ogni rogo è una coltellata al cuore.
Siate maledetti per le vostre coscienze ridotte a cenere.
Siate maledetti perché non siete capaci di amare neanche voi stessi.

*Foto tratta dal profilo Facebook di Enzo Comi

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