Dona il sangue, salva una vita

Sempre con maggiore frequenza, purtroppo, leggiamo che negli ospedali c’è carenza di sangue. Ospito pertanto volentieri sul blog l’intervento di mio fratello Luis, che sottolinea quanto sia importante donare il sangue, al di là dell’associazione con la quale si sceglie di farlo, e di come basta poco (non “basterebbe”, precisa esortando all’azione concreta della donazione) per dare sostanza e vita al concetto di solidarietà. Al suo invito unisco il mio, quello di un ex ventiseienne salvato dalla trasfusione consecutiva di sette sacche di sangue. 

*Sono un donatore di sangue. A Sant’Eufemia sono attive due associazioni per la raccolta delle donazioni, Avis e Adspem; regolarmente, i giornali locali denunciano la cronica, drammatica carenza di sangue nelle strutture ospedaliere, esortando la popolazione a donare: eppure, sebbene nel nostro paese operino due realtà, la risposta eufemiese è scarsa. L’associazione di cui faccio parte vanta un gran numero di tesserati: tra questi, c’è chi riesce a donare assiduamente; c’è chi, per sopraggiunti limiti di età o di salute, non può donare, spendendosi comunque in maniera encomiabile per la causa; c’è chi, nonostante essere in condizioni ottimali per effettuare la donazione non sia agevole, ci prova sempre. E poi c’è chi alle donazioni non lo incontri mai. Ho più rispetto per chi non fa niente, che per chi finge di fare. Prima di continuare devo però confessare il mio peccato originale: per destare e spronare la mia attenzione, mi è stato necessario sentir fischiare le pallottole vicine, maledettamente vicine. Non voglio raccontare cosa mi ha scosso dal mio torpore e motivato, appartiene al mio vissuto più intimo, però è innegabile che per svegliarmi c’è voluto uno scappellotto ben assestato. Mai mi sarei fermato a riflettere sul fatto che spesso, molto più spesso di quanto si possa immaginare, un medico debba sostituirsi a Dio nello scegliere a chi dare una speranza di vita con il poco sangue a disposizione. Mi è stato detto che un dio cinico, seppur combattuto dentro un camice troppo stretto e che mai più sentirà candido, davanti alla scelta fatale salva il bambino e condanna il vecchio. E davanti a due bambini?
L’inspiegabile vola ad ali spiegate. Perdonate il banale gioco di parole ma personalmente ho sempre preferito la potenza disarmante dell’ironia al nichilismo dell’aggressività “di posizione”. Inutile scontrarsi frontalmente con l’ignavia e l’apatia di chi pensa di fare la sua parte pascolando compulsivamente sui vari social, salvo poi sparire all’atto pratico. Che, diciamocela tutta, se ti azzardi a muovere critica (una volta nobile presupposto, volano di miglioramento) al modus operandi imperante vieni prontamente tacciato di arroganza e mancanza di rispetto verso posizioni diverse dalla tua. Ma tant’è. Ci indigniamo sbigottiti per gli sconvolgenti risvolti dell’apertura di una lettera di Maria (no, non quella, l’altra, quella di canale 5…) ma non ci accorgiamo delle criticità attorno a noi. Palpitiamo per una noce di cocco sparita sull’isola dei famosi e sbuffiamo alterigia in attesa che al tg termini il servizio sui gommoni della disperazione. Eppure, basta poco. Non “basterebbe”, condizionale-alibi di fatalisti e disfattisti: “basta”, indicativo che non offre zone d’ombra di dubbia interpretazione. Purtroppo viviamo in un contesto storico basato sui punti esclamativi, sull’eclatante: se non fa notizia, audience, non interessa. È davvero così? Per conto mio, agli eroi da blockbusters cinematografici preferisco gli eroi invisibili di tutti i giorni, quelli che una cosa la fanno solo perché va fatta.
“Donare è ricevere”: questo lo slogan della mia associazione. Non ho detto quale sia delle due e non lo farò, non è importante. L’importante è donare, con chi è un dettaglio irrilevante.

*Luis Forgione, donatore

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Un paese dormitorio

Provate a fare un giro per le strade del paese anche soltanto dopo le 21.00, non a mezzanotte. Un deserto. Incrocerete qualche rara macchina, a volte neanche quella. A me mette tristezza questo lento spegnersi di candela. Nell’ultimo decennio Sant’Eufemia ha avuto un crollo, è inutile girarci attorno. Come una persona anziana che di colpo si sveglia pieno di acciacchi e, a un certo punto, si lascia andare. I segnali c’erano già, anche prima di dieci anni fa. Perché l’emorragia di giovani prima o poi la paghi in termini di vitalità, di voglia di cambiare le cose, di spirito combattivo. Di dire: «Ci provo, comunque vada ci provo».
Si vive rannicchiati sulle proprie piccole certezze, che danno un minimo di tranquillità a chi le possiede. Ma per lo più si sopravvive, in tutti i sensi. Non è soltanto questione di economia, anche se i soldi sono oggi purtroppo al vertice della scala dei valori. È proprio apatia, come se niente potesse avere importanza al di là del proprio superbo deretano. Un paese rassegnato al declino, che ha subito una sorta di mutazione genetica. Che si indigna poco o niente, che ha fatto del quieto vivere la propria filosofia di vita. E che aspetta a bocca aperta. «Chi me lo fa fare?»: tutto ruota attorno a queste cinque miserabili parole. Non eravamo così. No, non eravamo così. Timidi, impauriti, servili.
E mentre una sorta di mutazione genetica sta stravolgendo il nostro stesso carattere, la nave affonda. Non basta ordinare all’orchestra di continuare a suonare. La nave affonda e là sopra ci stiamo più o meno tutti.
A Sant’Eufemia c’erano due filiali di banca: chiuse entrambe. Il centro di riabilitazione “Chirico” dava lavoro e forniva un servizio di assistenza fondamentale per i disabili del comprensorio: chiuso. L’associazione turistica Pro loco, dopo vent’anni, ha chiuso i battenti, preceduta dall’associazione culturale Sant’Ambrogio. Non ci è rimasta nemmeno la squadra di calcio, sparita; mentre il tennis aveva tirato le cuoia già da tempo. Ogni tanto ne ricordano funzione e gloria qualche lavoro di ristrutturazione del campo sportivo o la ritinteggiatura di quello da tennis, dovesse un giorno succedere un miracolo. Per chi crede nei miracoli.
Ricordi di un passato che sembra lontanissimo, mentre dietro gli scuri di questo moderno e triste dormitorio ognuno coltiva la propria solitudine.

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La Giornata mondiale del malato con l’Agape

La Giornata mondiale del malato è tra le iniziative più significative che l’Associazione di volontariato cristiano “Agape” celebra annualmente. Per questa XXVII edizione, incentrata sulla gratuità e sulla logica del dono («Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date»), sono stati diversi i momenti ai quali i volontari hanno partecipato.

Durante la mattina sono state effettuate le visite domiciliare agli ammalati, mentre il pomeriggio è stato caratterizzato dalla condivisione della Giornata con il parroco don Marco Larosa.
Alcuni volontari hanno trasportato la statua della Madonna di Lourdes presso la struttura residenziale per anziani “Mons. Prof. Antonino Messina”, dove il parroco ha condotto la recita del Santo Rosario e impartito il sacramento dell’Unzione degli infermi.

Successivamente don Marco ha celebrato la Santa Messa, nel corso della quale il presidente Iole Luppino ha letto la “preghiera dei fedeli” e ricordato i volontari dell’Associazione che non sono più tra di noi:
«Signore, noi volontari ti ringraziamo per quello che Anna, Adelina, Antonella e Marco ci hanno dato e insegnato in tanti anni di amicizia. Ti chiediamo che adesso nel tuo Paradiso possano vegliare sulle loro famiglie e sull’Agape, di rafforzare in ogni volontario il desiderio di impegnarsi per gli altri e di risvegliare nei giovani la voglia di scoprire la bellezza di donarsi».

A ricordo della Giornata del malato 2019, l’Agape ha consegnato un rosario nel corso delle visite domiciliari e omaggiato la R.S.A. “Messina” con un quadro recante l’effigie della Madonna di Lourdes.

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5 febbraio 1783: ’u fracellu a Sant’Eufemia d’Aspromonte

Sono quasi le 13 di un giorno come tanti, il ritmo della vita dei contadini e dei pastori scandito dai consueti lavori di un’economia di sussistenza. Molti sono ancora a tavola, intenti a consumare il pranzo frugale della povera gente. Ma il 5 febbraio 1783 non sarà un mercoledì come gli altri: è il giorno del “fracellu”, una terrificante ondata sismica che provoca nella Calabria meridionale 30.000 vittime e 31.250.000 ducati di danni.
Secondo il geologo Dolomieu, bastò la prima scossa (magnitudo 7.1) “per rovesciar tutto”: «I paesi e tutte le case di campagna furono smantellati nel medesimo istante. I fondamenti parvero come vomitati dalla terra che li rinchiudeva. Le pietre furono attrite e triturate con violenza le une contro le altre, e la malta che le riuniva fu ridotta in polvere».
Uno scenario apocalittico descritto da diversi contemporanei, tra i quali Andrea Gallo (professore nel Collegio di Messina): «Cominciò a sentirsi tremare la terra da prima leggermente, indi con forza tale, con tal muggito e con scotimenti così varj ed irregolari che il suolo videsi ondeggiare, le muraglie muoversi da ogni lato, urtarsi insieme negli angoli, triturarsi e crollare, saltare i tetti per aria, slogarsi i pavimenti delle stanze, infrangersi le volte, rompersi gli archi più forti, e, senza punto cessare il terribile movimento, con tre o quattro continuate scosse, che si succedettero l’una all’altra, rovinarono le case, caddero i superbi palazzi, precipitarono le chiese ed i campanili, si aperse con lunghe fenditure il terreno».
I sussulti della terra proseguono fino al 28 marzo, quando si verifica l’ultima violentissima scossa, di magnitudo 7.0 (altre di poco inferiori vengono registrate nei giorni 6, 7 febbraio e 1 marzo, oltre a un migliaio di minore entità). Il letterario diplomatico Michele Torchia annota: «Se ne sono contate fino al giorno 3 del corrente Marzo in sì gran numero tra forti e leggiere, che cogli avvisi posteriori parlasi di un tremuoto continuo […]. Il loro movimento è stato di ogni genere, di sussulto, ondulatorio, di trepidazione. Non è stato moto della terra, ma un rovescio totale della sua superficie».
Lo sconvolgimento del sistema idrogeologico produce effetti devastanti: liquefazione delle sabbie, frane che ostruiscono il corso dei torrenti deviandone il corso o dando origine a paludi e laghi. Intere montagne spariscono o vengono squarciate, ovunque si aprono voragini che ingoiano “tutto ciò che si è presentato al loro abisso”: «gli alberi vi sono stati svelti dalle loro radici, le Città rovesciate dalle loro fondamenta; le acque sorgive vi hanno perduto o nascosto il loro corso; il fiume Petrace assai profondo vi ha lasciato il suo letto per tre giorni; quello di Rosarno ha straripato sulle campagne; e quello di Sitizano ha formato un lago tra i monti congiunti».
Molti centri della costa tirrenica reggina, della piana di Gioia Tauro e dell’entroterra aspromontano (così come del Vibonese) vengono letteralmente rasi al suolo: Terranova, Polistena, Oppido, Santa Cristina, Palmi, Scilla, Bagnara. I superstiti vagano per le campagne laceri e affamati, senza neppure un po’ di fuoco per riscaldarsi. Ovunque vi sono cadaveri, che vengono infine sepolti in qualche modo, dove capita: «La mortalità – conclude Torchia – è stata grande; quivi anche par che il flagello abbia fissato il teatro della Carneficina».
Sant’Eufemia d’Aspromonte non viene risparmiata. Su una popolazione di 3.160 abitanti, il terremoto miete 945 vittime (302 uomini, 414 donne, 216 bambini, 13 monaci); i danni stimati ammontano a 300.000 ducati. Il paese per tre quarti è situato sul versante e lungo le rive del torrente “Peras” (o “Marino”), mentre il rimanente quarto occupa un piano elevato, denominato “Petto del Principe” e al quale si giunge “per una via assai erta e lunga più che quattrocento metri, che sale rapidamente verso una difficile altura che chiamasi “Calvario”: viene quasi completamente distrutto.
In una relazione (databile tra il 1792 e il 1824) sottoscritta da 55 cittadini davanti al notaio Giuseppe Rechichi, si legge: “La cittadinanza alla vista spaventevole della rovina di tutti gli edificij del paese, d’innumerabili cadaveri degli estinti concittadini, fra le grida de’ semivivi e feriti, in mezzo insomma della confusione e del timore, che ingombrava i sensi di ogn’uno, non seppe altrove ritrovarsi un asilo che nei contigui giardini del Petto e Pezzagrande, provedendosi a proporzione del bisogno di malconcie baracchelle di tavole, una delle quali fu destinata al divin culto ed alla conservazione de’ Sagramenti”.
Tuttavia, nel volgere di poco tempo la popolazione ritorna nelle proprie case ricostruite, “sol colà rimanendovi un avanzo della gente bassa, vile, ed inosservante de’ generali e comunali principij di ben vivere”. La baracca utilizzata come chiesa viene distrutta e i sacramenti trasferiti nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, riedificata ed elevata a “chiesa Parrocchiale e Madre”, preferita alla vecchia chiesa Matrice anche perché situata al centro del paese: “per commodo di quell’avanzo del popolo rimasto al Petto si [costruì] una Chiesa filiale [dedicata alla protettrice Sant’Eufemia], ed altra consimile nell’antico suolo della diruta Chiesa Matre [già sotto il titolo di Sant’Eufemia, assunse il nuovo titolo del Rosario], per commodo di coloro che nel convicinio della stessa abitassero, l’una e l’altra a spese della C.[assa] S.[acra]”.
Tra gli effetti del terremoto va infatti sottolineato il trasferimento della parrocchia dalla chiesa “Matrice” a quella di Santa Maria delle Grazie. Il monastero di San Bartolomeo, invece, non verrà mai più ricostruito. I sette monaci (su venti) superstiti si trasferiscono nella “grangia” del “Belvedere”, dove dalla seconda metà del 1700 dispongono di un baraccone dotato di quattro camere, cucina, refettorio e cappella; mentre attorno cominciano a ergersi sparse abitazioni di contadini, in direzione della feconda pianura della “Pezzagrande”.
Proprio in quest’area (“Petto del Principe, Pezzagrande e Vigna di Belvedere”), secondo il governo borbonico, va ricostruito il paese. Il piano redatto dall’architetto Giuseppe Oliverio e rettificato dall’ingegnere Vincenzo Ferraresi consta di tre rettangoli: “Uno stretto e allungato con le vie ortogonali disposte in senso SSW-NNE e NNW-SSE; un altro, maggiore di forma, all’incirca quadrato con le vie pure tagliatisi ad angolo retto, ed infine il terzo doveva sorgere nelle adiacenze del Calvario, cioè della piccola cappella che ancora oggi si scorge nella parte alta di via Roma”.
Ma non tutti concordano sulla necessità di abbandonare il “Vecchio Abitato”. Più di un secolo dopo, quando il terremoto del 1908 avrebbe riproposto più o meno negli stessi termini la questione dell’edificazione della “Pezzagrande”, i fautori del trasferimento nel nuovo sito rispolverano quel precedente: «Si era già con gran fervore, da tutto il popolo, dato principio alla buona opera della riedificazione del paese in “Pezzagrande” e “Petto del Principe”, quando un prete mestierante, premuroso di secondare e favorire gl’interessi del principe di Scilla, allora feudatario delle terre della “Pezzagrande”, cinse la stola, buon mezzo qualche volta di lucrose ciurmerie, si ammantò di piviale, inalberò la croce e nel nome del Signore predicò alla folla superstiziosa la necessità e il dovere della riedificazione nella vecchia area del paese distrutto; perché ivi erano le afflitte anime dei morti, preganti pietà dai memori congiunti, ivi i simulacri dei santi e delle madonne, invocanti dal popolo il ritorno nei vecchi santuari da ricostruire. E il prete coi suoi pochi proseliti, cointeressati con lui, la ebbe vinta, e l’unità, la bellezza, la igiene, il commercio, la civiltà soggiacquero; la “Pezzagrande” fu abbandonata ed il paese fu, disordinatamente e con ristrette viuzze, riammassato sulla vecchia rea angusta, malferma, minacciata dalle frane, antigienica e fatalmente soggetta a disastri futuri, inevitabili».
Il progetto Oliverio-Ferraresi non viene quindi realizzato, se non in minima parte nel “Petto”. Diverso, invece, sarà l’esito dopo il 1908, quando la resistenza di numerosi eufemiesi verrà superata grazie ad una soluzione di compromesso che consentirà l’edificazione del nuovo sito, ma anche la permanenza della popolazione in quello vecchio.

*Nella foto, la pianta del progetto Oliverio-Ferraresi
**Fonti
– Carbone-Grio, Domenico: I terremoti di Calabria e di Sicilia nel secolo XVIII (ristampa edizione 1884), Barbaro editore 1999
– Iero, Caterina: Sancta Euphemia. Cenni storici, vita civile e costume di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Laruffa editore 1997
– Luzzi, Vincenzo Francesco: La Comunità ecclesiale di Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età moderna, in: Sant’Eufemia d’Aspromonte, Atti del Convegno di studi per il bicentenario dell’autonomia, Rubbettino editore 1997
– Pentimalli, Pietro (e altri): Per la riedificazione di Santeufemia d’Aspromonte, 14 ottobre 1911
– Principe, Ilario: Città nuove in Calabria nel tardo Settecento, Frama Sud 1976
– Rao, Anna Maria: La Calabria nel Settecento, in: Storia della Calabria moderna e contemporanea (a cura di Augusto Placanica), Gangemi editore 1992
– Torchia, Michele: Tremuoto accaduto nella Calabria e a Messina alli 5 febbraio 1783 descritto da Michele Torcia Archiviario di S.M. Siciliana e Membro della Accademia Regia (a cura di Giovanni Russo), Nuove edizioni Barbaro 2003
– Tripodi, Vincenzo: Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte (ristampa edizione 1945, a cura di Antonino Fedele), Vannini editrice 1999

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Mila chilometri, mila attimi

Si fa presto a dire: «Era solo una macchina». Lo so che era solo una macchina. Però ci pensi. Pensi a quanta vita, in diciassette anni e 413.000 chilometri. Ero da poco tornato dagli Stati Uniti, dove con un team di ricercatori universitari conducevamo uno studio sugli italo-americani di terza generazione: New York era ancora sotto shock per l’attacco alle Torri Gemelle del settembre precedente. Dall’altra parte dell’Atlantico avevo assistito all’anatema scagliato da Nanni Moretti, a piazza Navona, contro l’intera classe politica della sinistra: «Con questi dirigenti non vinceremo mai». Mi sentivo un po’ girotondino pure io, lo ammetto.
Il mondo sembrava comunque andare secondo i miei progetti. Probabilmente proprio per questo arrivò lei, la Saxo: per affrontare meglio la discesa. Nonostante la stroncatura, vergata su carta da lettera (preistoria), di un mio carissimo amico: «Non ti posso lasciare un attimo che combini danni. Hai comprato una macchina a tre porte e senza aria climatizzata. Male, molto male».
Più tardi sarebbe arrivato il tempo del disincanto, la Saxo unica superstite di un sogno infranto. Ma anche testimone di una seconda vita.
Diciassette anni sono un tempo lunghissimo, soffiato sul palmo di una mano come polline.
Pensi all’allegria e alle lacrime. Alla felicità condivisa con chi ha voluto salirci, sulle note di una canzone. A quel viaggio di dolore fino in Francia. Ai libri nelle scatole chiuse con il nastro adesivo. Alla sabbia delle colonie estive. Alla neve che diventa acqua. Alle partite di calcio a cinque. A matrimoni, funerali, lauree. A fiocchi rosa o azzurri. Alle griglie e alle buste di carne. Alle birre di notte. Ai fogliettini volanti e al bloc notes nel cruscotto. Alle parole pensate, da dire, non dette. A chi c’era e a chi non c’è più. Collezioni di attimi.
Era solo una macchina. Eppure, prima di consegnarla allo sfasciacarrozze, non ho potuto fare a meno di darle un bacio sul vetro.

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Torneo del paesaggio FAI: gli investigatori del paesaggio del liceo “Fermi” accedono alla fase finale

Sono ben sei le squadre provenienti dal liceo scientifico “Fermi” di Sant’Eufemia che accedono alla fase finale del “Torneo del paesaggio 2018-2019”, concorso per la scuola secondaria di secondo grado organizzato dal settore scuola educazione del FAI (Fondo Ambiente Italiano), con il sostegno dell’azienda Ferrero: una gara di cultura e ricerca sul paesaggio italiano che ha come finalità quella di “avvicinare i giovani alle tematiche del paesaggio italiano, stimolando il senso di responsabilità nei confronti del patrimonio culturale e ambientale”. Uno strumento di sensibilizzazione affinché le nuove generazioni “possano acquistare consapevolezza del valore delle risorse idriche, sia per la terra che per l’uomo”, che si inserisce nella campagna del Fai #salvalacqua” per la diffusione tra i cittadini della consapevolezza del valore dell’acqua quale elemento indispensabile per la vita.
Si è conclusa nei giorni scorsi la prima fase del torneo, al quale hanno partecipato 2.000 squadre in tutta Italia e che ha decretato le 250 finaliste. Proprio al liceo di Sant’Eufemia va la palma di istituto con il maggior numero di finaliste: due squadre della I F (scientifico), due della IV F (scientifico), due della I G (scienze umane).
I giovani “investigatori del paesaggio”, coadiuvati dalle professoresse Carmela Cutrì e Maria Rosaria Scopelliti, entrambe docenti di lettere e referenti del progetto, hanno dovuto scegliere un bene naturale legato all’acqua o frutto dell’opera dell’uomo particolarmente significativo del proprio territorio (per la sua storia e per le sue caratteristiche), per poi scattare con uno smartphone una fotografia capace di “raccontare le peculiarità del bene in rapporto col paesaggio”. Una volta individuato il bene d’acqua da fotografare, ogni squadra ha raccolto informazioni sugli aspetti storici, naturalistici, culturali, artistici e sociali, mediante ricerche bibliografiche e interviste agli abitanti del luogo. Un’attività utile per descrivere il bene (caratteristiche geomorfologiche, ambientali, floro-faunistiche, storiche, artistiche, culturali), inserirlo nel contesto paesaggistico (ambiente geografico, sociale, culturale), rilevarne lo stato di conservazione (ben conservato, degradato, completamente abbandonato, a rischio inquinamento) e per metterne in evidenza il rapporto con la comunità (relazione tra il luogo e i cittadini, sia al giorno d’oggi che in passato, eventuali vincoli o misure di tutela imposte dalle istituzioni).
Di seguito, le sei fotografie ammesse dalla giuria degli esperti alla fase finale del concorso.

Antica fontana “Del Casino”, in località Meladoro, nei pressi di “San Bartolo”: in quest’area sorse in epoca basiliana l’insediamento abitativo dal quale, successivamente, si sviluppò Sant’Eufemia d’Aspromonte.

“Gebbia”: vasca che raccoglieva l’acqua piovana da utilizzare per l’irrigazione delle terre e che fungeva inoltre da abbeveratoio per gli animali da soma utilizzati nei lavori dei campi e per le greggi.

Ruscello con rami: “Numerose sono le leggende del nostro territorio legate ai corsi d’acqua che hanno come protagonisti oscure creature e misteriosi mostri. I ruscelli, nel loro impetuoso fluire, formano gorghi che trascinano ogni cosa nel movimento tumultuoso dei flutti, nella voragine dei mulinelli”.

La “lamia”: torrente Marino nel tratto in cui si immette sotto il Museo della civiltà contadina per poi scorrere sotto piazza don Minzoni. “Lamia” rievoca il mito greco della mostruosa creatura marina “che travolge con le sue acque e ingoia chiunque cada nel suo inganno”.

Fontana del complesso monumentale di San Giovanni di Dio (Sinopoli). Un “luogo fatato, simbolo della resistenza alle intemperie e alle calamità naturali”, finalmente riscattato dall’incuria e dal degrado che avevano trasformato un’opera d’arte in una stalla.

Fontana Nucarabella, utilizzata dalla popolazione eufemiese per l’approvvigionamento di acqua e, nelle vasche retrostanti, come pubblico lavatoio.

Per partecipare alla fase nazionale che deciderà i sei vincitori del concorso, i finalisti dovranno presentare entro il 13 marzo un progetto (power point, video) finalizzato al coinvolgimento delle comunità locali affinché prendano coscienza del valore del bene d’acqua fotografato nella prima fase.

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Preiscrizione al Liceo scientifico “E. Fermi” di Sant’Eufemia d’Aspromonte: il 31 gennaio scadono i termini

Il 31 gennaio scadono i termini per la preiscrizione alle scuole secondarie di secondo grado. A Sant’Eufemia abbiamo una bella realtà, il liceo scientifico “E. Fermi”, che ha attivato anche l’indirizzo scienze umane. È un patrimonio della comunità, che va sostenuto con tutte le nostre forze.
Molto spesso non si apprezza ciò che si ha, salvo lamentarsi quando ci si rende conto che alcuni servizi ci vengono tolti. È sotto gli occhi di tutti la spoliazione subita da Sant’Eufemia negli ultimi anni: la chiusura della banca costituisce l’ultimo tassello di un impoverimento progressivo ed inesorabile. La gente parte in misura ancora maggiore rispetto al passato: non soltanto giovani, ma anche intere famiglie hanno di recente abbandonato il paese. Molte saracinesche si sono abbassate.
Dobbiamo cominciare noi, darci da fare senza attendere miracoli che non esistono. La difesa del buono che abbiamo rientra tra le azioni possibili e necessarie. Il liceo rimane tra le ultime positività del nostro territorio. Difendiamolo, teniamocelo stretto. Non serve andare fuori: abbiamo la fortuna (che è una costante del liceo sin dalla sua istituzione) di potere affidare i nostri figli ad una classe docente preparata e innamorata del proprio lavoro, che dedica ogni energia possibile per la crescita culturale e sociale dei nostri ragazzi.
Facciamone tesoro e cerchiamo di volere bene al nostro paese con gesti concreti. Iscrivere i propri figli nel liceo di Sant’Eufemia significa esattamente questo.

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Centomila gavette di ghiaccio

I libri belli, appena letta l’ultima pagina, lasciano un senso di tristezza indefinibile, solitudine e domande. Raramente ho letto pagine così drammatiche. “Centomila gavette di ghiaccio” di Giulio Bedeschi (il protagonista Italo Serri) racconta la tragedia della ritirata di Russia nella seconda guerra mondiale, tema affrontato da Mario Rigoni Stern nel capolavoro “Il sergente nella neve”: 45 giorni di marcia con temperature prossime ai 50 gradi sotto lo zero, senza mangiare, senza dormire per giorni e giorni. I piedi ricoperti di stracci.
Chi ce l’ha fatta ha visto soldati cadere al proprio fianco stroncati dalla stanchezza o per congelamento. Tentare di farcela strisciando o camminando a quattro zampe sulla neve. Provare a chiudere gli occhi per pochi minuti, addormentarsi e morire assiderati. Spararsi in testa per la disperazione, per farla finita con quell’agonia. Ha mangiato mezza rapa marcia o una buccia di patata dopo giorni di digiuno sotto la tormenta. Ha camminato, camminato, camminato senz’altra prospettiva che quella di camminare per rinviare la morte di un paio d’ore o di un giorno. E ha combattuto senza riuscire a tenersi in piedi.
Centomila soldati morti in combattimento o per le ferite, per il freddo, il sonno, la fame e la stanchezza. Alcuni seppelliti, la maggior parte rimasti ai bordi delle piste e ben presto diventate mummie pietrificate. Infine i sopravvissuti oltre ogni umana possibilità di resistenza. Eppure capaci di slanci di umanità inimmaginabili: come l’alpino conducente di muli Scudrera, il personaggio che più di ogni altro mi ha emozionato, che salva dalla morte il compagno più anziano e con una numerosa prole a casa, donandogli quel pezzo di formaggio che dall’inizio della marcia teneva sotto il giaccone militare per il momento in cui neanche lui ce l’avrebbe più fatta a portare un passo dietro l’altro. E che ormai congelato egli stesso recupera chissà dove la forza per riuscire a trascinare fino alla fine la slitta portaferiti.
«Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?» è la domanda insistente rivolta da Giuanin a Rigoni Stern, nel “Sergente della neve”. «Gli alpini arrivano a piedi/ là dove giunge soltanto/ la fede alata» sono invece i versi del “poeta” Pilòn che, in “Centomila gavette di ghiaccio”, concludono l’odissea dei soldati italiani in Russia. Arrivare: verbo di speranza, nonostante la tragedia vissuta.

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SP2 un anno dopo

Esattamente un anno fa come gruppo consiliare di minoranza “Per il bene comune”, denunciavamo lo stato disastroso in cui versa la Strada Provinciale 2 che collega Sant’Eufemia all’ex svincolo autostradale. Da allora niente è cambiato. Il manto stradale cosparso di pericolosissime buche lungo i suoi 7 chilometri certifica l’abbandono delle istituzioni che dovrebbero provvedere all’inserimento dei comuni pre-aspromontani nel novero dei paesi civili. Così non è e le “prediche inutili” di chi non può non segnalare la vergogna delle condizioni della viabilità restano lettera morta. I disagi inaccettabili per le centinaia di automobilisti del comprensorio, che quotidianamente percorrono questa importante arteria viaria per lavoro o per qualsiasi altra incombenza, non dovrebbero fare dormire i responsabili di uno sfascio che è sotto gli occhi di tutti. E invece si dorme. Regione Calabria, Città metropolitana: dove siete? Non ne possiamo più di rari e insufficienti interventi di riparazione alla meno peggio delle buche più pericolose: qualche badilata di asfalto che la prima pioggia porta via facendo ogni volta tornare tutto al punto di partenza.
Intanto sono iniziate le grandi manovre in vista delle elezioni regionali e puntualmente si torna a parlare della possibilità di ripristinare lo svincolo autostradale di Sant’Eufemia. I lavori di compensazione/risarcimento che erano stati promessi per mettere un po’ a tacere la protesta provocata da quello scippo che fine hanno fatto? L’intervento “straordinario” da 7,1 milioni di euro dove si è incagliato? O si tratta soltanto di uno specchietto per le allodole da rispolverare nell’imminenza di qualche appuntamento elettorale?
Più di un anno fa un comunicato stampa dell’amministrazione comunale di Sant’Eufemia informava che il 27 ottobre 2017 c’era stata una riunione presso la sede Anas di Cosenza, nella quale si era convenuto che “sarà cura della Regione Calabria provvedere alla progettazione dell’intervento di messa in sicurezza e manutenzione straordinaria della ex Statale 112, nel tratto che va dall’abitato di Sant’Eufemia d’Aspromonte al bivio di Solano” e che “Anas, al termine della fase progettuale, procederà quindi all’esecuzione dei lavori previsti”. Inoltre, si leggeva: “si rappresenta che è in corso una convenzione tra Anas, Regione Calabria e Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, da sottoscrivere presumibilmente entro la fine del corrente anno”. Il corrente anno era il 2017: qualcuno, dopo tutto questo tempo, è in grado di dare qualche risposta a queste popolazioni dimenticate da Dio e dagli uomini?

Sant’Eufemia d’Aspromonte – Gruppo consiliare “Per il bene comune”
Domenico Forgione (capogruppo)
Pasquale Napoli

*In foto, la sintesi della nota pubblicata sulla Gazzetta del Sud del 10 gennaio 2019

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Vent’anni senza Faber

Vent’anni senza Fabrizio De André. Manca il suo punto di vista, mai superficiale e sempre capace di scavare in profondità: magari colpendo un po’ a casaccio con il suo cucchiaio di vetro, come Coda di lupo. Chissà che avrebbe detto di certi governanti attuali, epigoni del ministro dei temporali dell’apocalittica Domenica delle salme: quello che “in un tripudio di tromboni/ auspicava democrazia/ con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni”. O di tutto l’odio che sembra avere occupato ogni spazio di discussione, rendendoci tutti più cattivi e disumani. Tifoserie rabbiose, pronte a scatenare la caccia all’uomo, sul web o nella realtà, sugli occhi stampata la furia dei soldati di Sidun: “cani arrabbiati/ con la schiuma alla bocca cacciatori di agnelli”.
E chissà di quanti nuovi indiani avrebbe cantato la tragedia, quanti dollari d’argento ci avrebbe indicato nel fondo del Sand Creek. Con quel suo sguardo unico, inconfondibile, che ci ha costretti a guardare dove non si doveva guardare, consegnandoci ritratti di personaggi derelitti, abbandonati ai margini della società. Con pennellate incancellabili di umanità. Quell’umanità oggi sulla difensiva, quasi un vezzo radical-chic del quale vergognarsi.
Fabrizio De André è un classico della cultura mondiale, come Dostoevskij, Garcia Lorca, Bosch o Bach. Un poeta che, tuttavia, per sfuggire alla mannaia crociana (“fino a diciotto anni tutti scrivono poesie; dopo, possono continuare a farlo solo due categorie di persone: i poeti e i cretini”), ha sempre preferito definirsi, “precauzionalmente”, un cantautore. Che non aveva verità da insegnare perché è sempre difficile stabilire cosa sia giusto e cosa sbagliato. Ma che a tutti coloro che viaggiano “in direzione ostinata e contraria” ha riconosciuto la dignità di esseri umani, il diritto a cercare di “consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità”: perché soltanto chi fosse capace “di raccogliere in bocca il punto di vista di Dio”, potrebbe arrogarsi il diritto di giudicare uomini e avvenimenti.
La prospettiva di De André è sempre scandalosa rispetto al pensiero dominante. Dove altri scappano lui si sofferma, indaga, si interroga. L’antidecalogo del testamento di Tito ne rivela l’insofferenza per il potere istituzionalizzato, sia esso politico o religioso, e mette in risalto “la contraddizione che esiste tra chi le leggi le fa a sua immagine e somiglianza, a suo uso e consumo per potersi permettere anche il lusso di non rispettarle e chi è invece obbligato a rispettarle perché il potere non lo gestisce ma lo deve semplicemente subire”. Proprio quel Tito che indica la sola, umanissima, via di salvezza: «nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore».
I capolavori immortali di Fabrizio De André sono l’esito di uno studio gigantesco, di una ricerca continua e approfondita. I suoi testi hanno dato una scossa decisiva al panorama musicale italiano in anni che ancora erano di conformismo, se non di sudditanza agli schemi imposti dalla cultura dominante. Ha dato popolarità a Georges Brassens, ai vangeli apocrifi, alla poesia di Edgar Lee Masters; ha dato voce al ’68 e alla contestazione; ha spinto i più curiosi alla lettura di Àlvaro Mutis e Mario De Andrade. Infine Genova, la Sardegna, il Mediterraneo crocevia di culture e di sonorità sublimate nel capolavoro assoluto Crêuza de mä.
Ci piace pensare che, come il suonatore Jones, sia morto senza nemmeno un rimpianto. Quel rimpianto che invece cresce in noi, orfani delle sue parole: e adesso aspetterò domani – vent’anni senza Faber – per avere nostalgia.

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