Ho chiamato il blog “Messaggi nella bottiglia” perché mi piaceva l’idea di affidare alle onde del web tanti bigliettini che a volte vengono raccolti, altre no. Vedere quello che succede, se sono capaci di invitare alla riflessione e al confronto, perché da cosa può nascere cosa e ogni conversazione (reale o virtuale) offre nuovi spunti, costringe ad approfondire e, se necessario, a rivedere le proprie convinzioni. Il blog è una palestra per la mente, ma anche uno strumento di studio. Molto di quello che ho scritto nei miei libri è passato dai post pubblicati. Molto è stato idealmente qui concepito.
Sulla storia di Sant’Eufemia e dei suoi personaggi più illustri si sono rivelati preziosissimi i contributi di lettori a me completamente sconosciuti e sparsi in tutto il mondo. Alcuni non sono neanche nati a Sant’Eufemia, né l’hanno mai visitata. Sono stati loro ad avere aggiunto importanti tessere al mosaico che vado componendo da un decennio, sotto forma di dati che altrimenti non sarebbe stato possibile recuperare in nessun archivio. Alcune loro dritte mi hanno aperto gli occhi e suggerito ulteriori ricerche. E poi i regali, quelli belli!
Ad esempio le fotografie, come questa che pubblico oggi e che riproduce il prospetto di Palazzo Capoferro. Circa cinque mesi fa avevo dedicato un articolo proprio al rudere di questo palazzo nobiliare, una delle poche costruzioni rasa al suolo dal terremoto del 1908 della quale sia rimasta in piedi qualcosa: il bellissimo portale, oggi purtroppo interamente ricoperto dai rovi; i muri esterni e alcune pareti interne, anch’essi conquistati dalle erbacce; pochi gradini della scala interna, comunque seppelliti dalla terra; una parte della scalinata esterna, che conduceva all’ingresso principale e che in origine era ampia almeno il doppio.
Il disegno originale è custodito da Silvio Capoferro, il quale vive a Roma e che, come mi ha scritto in una email, è “casualmente capitato” nel mio blog: «mi ha fatto molto piacere – continua il messaggio – leggere le notizie su palazzo Capoferro. Spero che altrettanto piacere possa fare a lei ricevere la foto di questo disegno, dedicato nel 1922 da Gaetano Capoferro a mio padre Domenico e al suo fratello gemello Paolo, entrambi nati nel 1916».
La didascalia del disegno consente di risalire all’epoca della sua costruzione, avvenuta tra il 1818 e il 1820. Successivamente (1839), il palazzo fatto edificare dal medico Gaetano Capoferro fu ereditato dai figli Paolo e Luigi. Qui si innesta la parte di storia che eravamo riusciti a ricostruire, ovverossia il passaggio della proprietà a Paolo (sindaco eufemiese dal 1870 al 1875) e, da questi, alla figlia Rosaria che l’avrebbe portato in dote al medico chirurgo Saverio Greco di Delianuova, sposato a Sant’Eufemia il 18 luglio 1889.
Danneggiato dal terremoto del 1894, il palazzo fu quasi completamente distrutto da quello del 1908. Ancora nel secondo dopoguerra risultava abitata una parte del pianterreno, che progressivamente fu abbandonato. Dell’antico splendore oggi non rimane niente. A duecento anni dalla sua edificazione, rivive soltanto nel disegno realizzato e donato nel 1922 ai nipoti Domenico e Paolo dall’architetto Gaetano Capoferro.
Ciao, “zio” Pino
I ricordi sono increspature dell’acqua di un fiume che scorre prorompente: non so bene a quale aggrapparmi per tirarmi fuori da queste mura. O un cesto di ciliegie, fra le quali è complicato scartarne una perché sono tutte belle.
Belle come te, “zio” Pino. Ti chiamo come ti ho sempre chiamato, come ti abbiamo sempre chiamato noi che casa tua è stata anche la nostra.
Quella casa con la porta sempre aperta per chi ha voluto entrarci per scambiare due parole, guardare la televisione, fare una partita a carte, trascorrervi piacevoli serate attorno alla tavola imbandita come per una festa.
Quella casa riecheggiante di racconti antichi e delle tante voci che facevano da corona ai tuoi anziani genitori: anche gli occhi del bambino che ero molti anni fa, quando ti conobbi, percepivano la grandezza della semplicità dei sentimenti più autentici. L’amicizia vera è capace di regalare alle giornate grigie i colori dell’arcobaleno. La tua è stato un riparo nel quale abbiamo ristorato le nostre anime, a volte stanche di giorni pesanti.
Ricordavi spesso il senso dell’accoglienza di tua mamma, la generosità che illuminava quell’uscio e che apparteneva a un’altra epoca. Meno egoista di questa, meno ripiegata su se stessa e sulle tante cose di nessun valore se confrontate all’affetto e alla vicinanza delle donne e degli uomini delle rughe di un tempo. A quel nobile insegnamento sei rimasto fedele fino alla fine. Ed io, Diego e Pasquale siamo stati fortunati di poterne godere.
Ora un dolore acuto ci punge il petto, un senso di smarrimento profondo ci ammanta. Nella nebbia che avvolge la tua elegante e impeccabile figura intravediamo il tuo sorriso. Perché sono stati i sorrisi nostri ed i tuoi a impreziosire le ore accanto al caminetto o seduti sul divano.
Ci mancherai. Ci farà stringere il cuore vedere chiusa quella porta che ci attendeva la sera, alla fine delle nostre giornate.
Ma quando di te parleremo, racconteremo del conforto e della ricchezza dell’amicizia. Nonostante la solitudine, nonostante la tristezza, nonostante le lacrime di oggi.
Ciao, “zio” Pino
*Nei giorni trascorsi al di là del vetro della Rianimazione, avevo scritto per lui Chissà che pensieri fai:
Chissà che pensieri fai
se hai pensieri
nella bolla di sonno senza sogni
discorsi senza parole
viaggi senza passi.
Non è più la tua
quest’attesa di vetro
che ci separa,
di qua e di là della barriera
vita e morte.
Un sussurrare stanco
ferisce
dei giorni lenti
la quiete
e il muto presagio.
Dalla biblioteca ferdinandiana di Reggio Calabria alla “De Nava”, il busto e la sala “Visalli”
Sono tre gli articoli del decreto “per lo stabilimento di una pubblica biblioteca in Reggio” firmato il 31 marzo 1818 dal re delle Due Sicilie Ferdinando I di Borbone e dal guardasigilli marchese Donato Antonio Tommasi. Nei primi due veniva stabilito il nome (biblioteca ferdinandiana) ed il sito (palazzo arcivescovile di Reggio Calabria, presso piazza Duomo). Nel terzo si specificava che la sua direzione sarebbe stata affidata ad un bibliotecario – che aveva anche l’obbligo “di dare ogni settimana due lezioni di biografia letteraria e di bibliografia” – scelto di comune accordo con l’arcivescovo di Reggio e con l’intendente della provincia (il progenitore del prefetto).
La biblioteca ferdinandiana, composta anche da una sezione di “libri e manoscritti patrij”, avrebbe riunito tutti i volumi dei padri filippini del capoluogo e quelli del seminario, realizzando così il proposito del sovrano di offrire ai propri sudditi “i mezzi, onde attendere alla cultura dello spirito”.
La biblioteca è stata nel tempo più volte trasferita. A partire dal 1928 è ospitata nella villa “Pietro De Nava”, accanto alla quale nella seconda metà del Novecento è stato costruito un nuovo edificio, oggi sede centrale della biblioteca comunale “De Nava”.
Tra le tante donazioni che compongono il suo ricco patrimonio bibliografico, particolarmente significativa è quella effettuata dalla vedova di Vittorio Visalli, lo storico nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 15 ottobre 1859 e deceduto a Reggio Calabria il 27 giugno 1931: circa 1.500 volumi, consultabili nel catalogo “Donazione Vittorio Visalli”. Le carte utilizzate per la stesura delle opere dedicate al Risorgimento calabrese sono invece conservate presso l’Archivio di Stato di Reggio Calabria (“Fondo Visalli, 1815-1893”).
A riconoscimento dei “meriti di storico e di educatore” dell’illustre eufemiese, all’interno della biblioteca “De Nava” il 29 dicembre 1932 fu collocato un busto in bronzo di Visalli, commissionato dal podestà reggino Pasquale Muritano. E proprio a Visalli è inoltre dedicata una delle attuali sale di lettura aperte al pubblico.
*Link utili su questo blog:
– Vittorio Visalli, da Sant’Eufemia al pantheon degli storici;
– L’epigrafe di Visalli, lo stupore di Mico;
– Garibaldi fu ferito. I fatti d’Aspromonte nella ricostruzione di Vittorio Visalli;
– Il terremoto del 1894 in una lettera di Vittorio Visalli;
– Vittorio Visalli, anche poeta.
Vittorio Visalli |
Viaggi sulla Luna
Mio nonno lo considerò un sacrilegio: «Ora viene la fine del mondo. La Luna non si deve toccare. È là, per i fatti suoi… perché l’uomo va a violare la sua tranquillità?». Più o meno le stesse parole ascoltate da un’anziana signora a corollario della consueta riflessione sulle stagioni che non sono più quelle di un tempo, una piovosa mattina d’agosto di qualche anno fa: «Da quando sono andati sulla Luna, si sciasciaru tutti i cosi».
D’altronde, ad un livello più “letterario”, un anno e mezzo prima dello sbarco dell’uomo sulla Luna, in una lettera a Italo Calvino la scrittrice Anna Maria Ortese aveva manifestato la tristezza e il fastidio (“e nella tristezza c’è del timore, nel fastidio dell’irritazione, forse sgomento e ansia”) che provava quando sentiva parlare di lanci spaziali e di conquiste dello spazio: si trattava di una violazione incomprensibile dello “straziante desiderio di riposo, di ordine, di beltà”. Opinione non condivisa da Calvino, il quale nella sua risposta sottolineava: «Chi ama la luna davvero non si accontenta di contemplarla come un’immagine convenzionale, vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di più».
E pazienza, quindi, se il 20 luglio 1969 l’uomo ne avrebbe profanato l’inviolabilità, a distanza di oltre quattrocento anni da Astolfo in cerca del senno perduto da Orlando, dopo il tradimento di Angelica. Un viaggio sul carro alato del profeta Elia, a differenza degli astronomi nel film muto Viaggio nella Luna, di Georges Méliès (1902), i quali compiono l’impresa a bordo di una navicella a forma di proiettile incredibilmente somigliante al modulo di comando dell’Apollo 11. Celeberrima la scena dell’allunaggio (diventata sigla del programma di RaiTre “Fuori Orario”), con il proiettile che, scagliato in orbita da un cannone, si conficca in un occhio della Luna abitata dai Seleniti.
Ad ogni modo, la Luna conserva intatto il suo fascino. “Silenziosa”, come ricorda il Poeta, là in alto continua a raccogliere i nostri travagliati pensieri e “forse” intende “questo viver terreno/ il patir nostro, il sospirar, che sia”.
Conversazione su Camilleri
Azzurra Ridolfo fa parte di “Ali di Carta”, un gruppo culturale di Brolo (Messina) composto “per il momento” – precisa – da sole donne, che opera per la promozione della cultura attraverso la presentazione di libri, l’organizzazione di incontri-dibattiti, l’allestimento di rappresentazioni teatrali. “Ali di Carta” considera la riflessione e il confronto dialettico condizioni imprescindibili per la crescita civile di una comunità. In collaborazione con l’amministrazione comunale di Brolo e con la libreria “Capitolo 18” di Patti nel giugno del 2018 ha curato l’iniziativa “Un arancino con Camilleri”, che ha sviluppato il tema “Andrea Camilleri: scrittore siciliano e fenomeno pop”. La sinergia con l’Istituto alberghiero di Brolo ha inoltre consentito, in quell’occasione, l’omaggio “I sapori siciliani nei romanzi di Camilleri”. Ad Azzurra Ridolfo ho posto alcune domande sul “fenomeno” Camilleri.
Quando hai “conosciuto” Andrea Camilleri e qual è stata la tua prima impressione?
Ho “scoperto” Andrea Camilleri nel 1995 leggendo “Il Birraio di Preston”. Mi trovavo a Palermo ospite di un’amica. Sulla sua scrivania scorsi il volumetto blu della Sellerio: il nome dell’autore, lo confesso, mi giungeva del tutto nuovo. Ad attrarmi furono il titolo e le lodi sperticate della mia amica che non riusciva a celare l’incontenibile soddisfazione di beccarmi in fallo. Quello stesso pomeriggio acquistai “Il Birraio di Preston”, “La stagione della caccia” e “La bolla di componenda”.
Cosa rappresenta per un siciliano Camilleri?
Camilleri della Sicilia porta addosso movenze, ammiccamenti, tratti somatici, linguaggio, espressioni. Per un siciliano Andrea Camilleri è “casa”. La Sicilia Camilleri se l’è sempre portata nel cuore o, come amava dire, nel taschino sinistro della camicia. Sul cuore. Quando lo ascolti parlare o leggi i suoi libri, riconosci luoghi, profumi, sapori, suoni familiari. È come se fosse un parente o il vicino di pianerottolo a cui puoi suonare alla porta, per chiedere il sale quando già bolle l’acqua per la pasta. È riuscito a sdoganare l’insularità facendola decollare verso l’universalità. Ha raccontato la Sicilia più vera e bella, quella delle tradizioni, dei sentimenti, dei paesaggi mozzafiato, della cucina.
In che rapporto sta Camilleri con altri grandi siciliani protagonisti della letteratura italiana?
In un rapporto di assoluta parità. Lo collocherei nel nutrito stuolo di scrittori siciliani che hanno fatto grande la letteratura italiana: De Roberto, Buttitta, Bufalino. Agrigentino, innovatore, costruttore di trame, di grandi personaggi e sfondi pittoreschi come Pirandello; penso all’amicizia che lo legò a Sciascia, al loro rapporto franco, diretto, oserei dire, “impetuoso”; ai loro confronti che sfociavano spesso in accesi litigi senza, tuttavia, intaccare mai la stima reciproca. Si scontrarono spesso sul linguaggio, sull’uso dell’italiano. Quello limpido e accurato di Sciascia, restava perplesso di fronte alla lingua “shakerata” di Camilleri, nella quale l’italiano si unisce al siciliano in una amalgama potenzialmente difficile, rischiosa, azzardata che, però, alla fine, si rivela vincente dando vita a un registro linguistico nuovo e originale che riesce a esprimere compiutamente il sentimento contenuto nel concetto. I suoi libri sono come dei cocktail perfettamente dosati. Penso anche all’amicizia con Simonetta Agnello Hornby, di cui è stato mentore e sostenitore. La stima della scrittrice nei confronti del Maestro è palpabile nello stile linguistico dei suoi romanzi trasudanti di “sicilianità”, termine che lei non apprezza ma che a me dice tanto, e di termini siciliani. Lo scorso giugno, con il gruppo culturale di cui faccio parte, “Ali di Carta”, in sinergia con la libreria Capitolo 18 di Patti, organizzammo un pomeriggio con Camilleri per omaggiare quello che a nostro avviso rappresentava uno dei più importanti scrittori contemporanei. In quella occasione Simonetta Agnello Hornby ci rilasciò un’intervista esclusiva in cui raccontò del “suo” Camilleri, della loro amicizia, della generosità del maestro verso gli scrittori e, in generale, gli artisti emergenti. Una testimonianza preziosissima.
Quali sono le ragioni del “fenomeno” Camilleri e in che cosa consiste lo “stile” Camilleri?
Camilleri ha internazionalizzato la lingua siciliana, ha creato il vigatese, un miscuglio originalissimo di italiano, siciliano, agrigentino, e “camillerese”. Una scelta nata dalla sua difficoltà a rendere l’essenza dei sentimenti utilizzando l’italiano. È riuscito ad abbattere muri linguistici apparentemente invalicabili, ad arrivare a milioni di lettori in tutto il mondo. Il vero miracolo, a mio avviso, sta nel fatto che anche nella traduzione in altre lingue, il vigatese restituisce ad un pubblico internazionale le sensazioni espresse nella lingua radicata in un territorio delimitato. Uno scrittore italiano, nato in Sicilia, che si porta dietro la sua sicilianità e che da questa prospettiva guarda al mondo partendo dal particolare, spaziando verso l’universale, perché “la Sicilia è infinita, arriva da per tutto. Basta portarsela in tasca”.
Tre aggettivi per descrivere l’uomo e lo scrittore Andrea Camilleri.
1) Impegnato. Io credo che Camilleri abbia svolto in maniera egregia il suo ruolo di intellettuale curioso, attento osservatore e commentatore della contemporaneità di cui ha sottolineato l’involuzione umanitaria e democratica. I suoi moniti affinché si arresti il pericoloso declino culturale e sociale attualmente in atto resteranno l’eredità più grande per le generazioni a venire.
2) Fantasioso. La fantasia, instillatagli dalla nonna Elvira in tenerissima età, è una costante nella vita di Camilleri. Le sue opere spaziano dalla poesia ai romanzi storici, dai polizieschi ai copioni teatrali, alla letteratura per bambini. E per essere così poliedrici, oltre ad una immensa cultura di base, credo ci voglia un’enorme fantasia.
3) Ironico. Guardare al mondo con il sorriso sulle labbra, sapere raccontare i fatti trovando sempre il lato comico, anche delle vicende più drammatiche, alleggerire senza mai perdere di credibilità e di sostanza, credo che sia un dono che gli dei hanno concesso a pochi eletti. Camilleri era uno di questi.
Il mio 11 luglio 1982
Pochi giorni dopo quell’11 luglio avrei compiuto nove anni. Per un bambino di nove anni i calciatori non sono uomini, ma supereroi. Come Superman o Batman, di quella genia insomma.
Non era iniziato bene il mondiale degli azzurri. Tre pareggi striminziti contro Polonia (0-0), Perù (1-1, gol di Bruno Conti), Camerun (1-1, gol di Ciccio Graziani) e il passaggio al secondo turno, in un girone di ferro contro l’Argentina di Maradona e Ardiles e il Brasile di Falcao e Zico (ma anche di Socrates, Junior, Cerezo). La critica e gli italiani sparavano quotidianamente contro gli azzurri. Per la prima volta nella storia del calcio italiano fu adottato il silenzio stampa. A parlare con i giornalisti, soltanto il capitano Zoff e l’allenatore Bearzot, entrambi friulani, entrambi taciturni.
Come spesso accade all’Italia quando si affaccia sul baratro, la squadra si compattò attorno al commissario tecnico e riuscì a realizzare l’impresa: 2-1 all’Argentina (Cabrini e Tardelli); 3-2 al favoritissimo Brasile (tripletta di Rossi); 2-0 alla Polonia in semifinale (doppietta di Rossi).
Il mio idolo nerazzurro in quel mondiale era Oriali, i cui polmoni e la “vita da mediano” sarebbero stati in seguito celebrati da Ligabue. Ma quando venivano chiamati in causa davano il proprio contributo Marini, Altobelli e il diciottenne Bergomi, lo “zio” che nascondeva la sua età dietro due incredibili baffoni neri e che disputò da veterano la finale. Ma c’erano anche i mostri sacri bianconeri Zoff, Scirea e Gentile, Cabrini con la sua modernità, il genio di Conti, il fiuto di “Pablito” Rossi e su tutti, almeno per me, Tardelli, per il quale stravedevo nonostante la Juve.
Ad ogni partita il “Bar Mario” registrava il pienone. Dopo la vittoria con il Brasile avevo rischiato di impiccarmi con la tenda mentre correvo fuori per esultare. Portai per giorni i segni sul collo e le ginocchia sbucciate. Quell’11 luglio sembrava di stare in curva. I più piccoli a gambe incrociate per terra, gli altri dietro, seduti nelle sedie o in piedi. Il televisore era un Phonola 28 pollici issato a un metro e mezzo d’altezza sopra due banchi, per consentire anche ai più distanti di vedere qualcosa.
Non facemmo nemmeno in tempo a recriminare per il rigore fallito da Cabrini, che il solito Rossi ci portò in un sogno dal quale ci svegliammo dopo l’urlo di Tardelli e il sigillo di “spillo” Altobelli. Indimenticabile il labiale del presidente della Repubblica Sandro Pertini, accorso a Madrid per la finale, dopo il terzo gol: «Non ci prendono più» (e altrettanto indimenticabile la storica partita a scopone sull’aereo presidenziale: Pertini e Zoff contro Bearzot e Causio, con la coppa del mondo appoggiata sul tavolo).
«Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!» con la voce emozionatissima di Nando Martellini al triplice fischio. Poi uno scatto velocissimo verso l’uscita e a piedi fino a piazza Municipio, con le bandiere al vento e il cuore che andava a mille.
Chissà che pensieri fai
Chissà che pensieri fai
se hai pensieri
nella bolla di sonno senza sogni
discorsi senza parole
viaggi senza passi.
Non è più la tua
quest’attesa di vetro
che ci separa,
di qua e di là della barriera
vita e morte.
Un sussurrare stanco
ferisce
dei giorni lenti
la quiete
e il muto presagio.
*Photo @marioforgione
5 luglio 1914: il discorso di Pietro Pentimalli per la posa della prima pietra del palazzo municipale di Sant’Eufemia d’Aspromonte
L’odierno assetto urbanistico di Sant’Eufemia d’Aspromonte è l’esito dei terremoti che si sono nel tempo succeduti e che hanno determinato la riedificazione del paese nell’area denominata “Petto del Principe” dopo il 1783 e, in conseguenza del sisma del 1908, nei terreni di “Pezza Grande”. Se dopo “u fracellu” la soluzione individuata non aveva trovato obiezioni, anche a causa della strettissima continuità territoriale tra le due aree, molto controverso fu invece lo “spostamento” di circa un terzo della popolazione eufemiese dopo il 1908. Le polemiche tra i favorevoli e i contrari si trascinarono per anni, con raccolte di firme e memorie inviate al governo nazionale a sostegno dell’una e dell’altra tesi. L’allora sindaco, il notaio Pietro Pentimalli (18 ottobre 1869 – 31 ottobre 1950), e il vecchio ma ancora autorevolissimo Michele Fimmanò (6 marzo 1830 – 11 febbraio 1913) riuscirono infine ad imporsi, grazie anche al contributo fondamentale del deputato reggino Giuseppe De Nava, che si fece promotore in Parlamento di un provvedimento che mediava tra le due posizioni in quanto decretava l’edificazione nella nuova area, ma abrogava il divieto di ricostruire nel vecchio abitato. Sant’Eufemia cambiava fisionomia e, con la poderosa edificazione della Pezzagrande, un terzo popoloso rione si aggiungeva al Paese Vecchio e al Petto.
Le ferite di quello scontro non erano ancora completamente rimarginate quando, il 5 luglio 1914, vi fu la posa della prima pietra del nuovo palazzo comunale. Lo sapeva bene il sindaco Pietro Pentimalli, che più volte nel discorso inaugurale utilizzò i termini “concordia” e “rinascita”. Due sostantivi, ripetuti negli interventi del vescovo Giuseppe Morabito e dell’onorevole De Nava, che ritornano in ogni “adesione” alla cerimonia inviata per lettera o per telegramma dalle più eminenti personalità eufemiesi e del circondario, oggi scolpite nelle 29 pagine di un opuscolo quasi introvabile: Per la posa della prima pietra del Palazzo Comunale di Sant’Eufemia d’Aspromonte, 5 luglio 1914 (Palmi, Tipografia C. Zappone, 1914).
La pubblicazione era stata decisa affinché il ricordo di quell’evento fosse trasmesso alle future generazioni:
«Perché della patriottica festa celebrata ai cinque di questo mese di luglio, non svanisse assai presto il ricordo, questa Giunta, nel giorno successivo, deliberò che, e la bella iscrizione posta nelle fondamenta del nostro civico palazzo, e dettata dallo storico illustre e nostro concittadino, Prof. Vittorio Visalli, e il discorso da me pronunziato, e le molte adesioni di persone autorevoli e di concittadini, si pubblicassero per la stampa. Ho adempiuto a tale voto. E se un augurio mi è lecito ancora formulare per la nostra città, dico che, avviata Sant’Eufemia alla sua rinascenza, questa si compia per la virtù e pel concorde proposito dei suoi generosi e forti figli».
Lo storico eufemiese Vittorio Visalli compose l’epigrafe che, arrotolata dentro un tubo d’acciaio, fu calata nelle fondamenta del palazzo municipale e il cui testo fu riportato sul retro della cartolina celebrativa stampata a ricordo della cerimonia inaugurale:
«Fin dagli oscuri tempi feudali/ madre di eletti ingegni e di forti lavoratori/ strenua ribelle contro la borbonica tirannia/ SANT’EUFEMIA D’ASPROMONTE/ sovvertita due volte dai moti convulsi della terra/ due volte risorse/ ed oggi/ per austera volontà di popolo/ per saviezza di amministratori/ per tenacia operosità del sindaco Pietro Pentimalli/ nel porre le fondamenta del suo civico palazzo/ celebra con sereni auspici un’aurora di vita novella/ e guarda fiduciosa a l’avvenire».
Nel suo discorso Pentimalli riservò un ricordo commosso alle vittime del terremoto e rievocò la tragedia di quei giorni:
«Noi, o illustri signori, siamo i superstiti che, balzati esterrefatti nel sonno, nel ruinante fragore degli attimi sterminatori, le nostre case e i nostri cari perdemmo, mentre la tragica alba, indugiantesi di tra le brume del fatale dicembre, coglievaci ignudi sulle vie, sulle piazze, col terrore sui volti, colla disperazione fatta follia nelle anime. Consentite, o signori, che prima di ogni altra cosa, con commosso e devoto pensiero ai nostri poveri scomparsi sotto la greve mora della crollata casa nativa, io invii un mesto e reverente saluto, e alla loro memoria consacri una lacrima e un fiore».
Ma nonostante i lutti e la devastazione occorreva guardare avanti e, nello stesso tempo, fare il necessario per conservare la memoria del passato:
«La vita è uno spettacolo di trasformazioni perenni, è un impasto di dimenticanze e di speranze nuove, e sul ceppo del passato rampolla e rinverde la ricordanza profetica: bisogna, dunque, ricordare, infuturandosi, tener vive le tradizioni e coordinarle all’avvenire, e col rimpianto dovrà sorgere la fede che fortifichi le anime nello ascendentale cammino. E la nostra fede, venuta su di tra gli sconforti e le ansie dei tragici momenti, e rafforzatasi per sempre più tenaci propositi, ci ha inspirato che Sant’Eufemia d’Aspromonte vivesse ancora nel tempo, nella tradizione, nella storia; che, percossa ma non doma, attingesse dalla ombrosa calma e raccolta della maestà dei suoi boschi lo austero e pensoso raccoglimento per meditare il suo avvenire, e chiedesse all’impeto dei suoi torrenti, che sanno scavarsi la via, la indomita virtù del volere per risorgere qui, non lungi dal vecchio abitato, pupilla adombrata dal triste ricordo di un tragico destino, occhio vigile e aperto a più arridenti fortune».
Sulle polemiche attorno alla decisione di ricostruire il paese nell’area della Pezzagrande (“vane ire, faziosi propositi, dilaniatrici ambizioni”), Pentimalli considerava che “è bene che scenda l’oblio”:
«La prima pietra su cui sorgerà la nostra sede comunale è per me e per voi tutti la pietra miliare che segna il fatto cammino e addita il novo a quelli che dietro seguiranno. Questa prima pietra ha per noi un contenuto ampio e comprensivo che trascende e sorpassa la solennità di una pubblica cerimonia. Essa è la consacrazione tangibile di una fede accomunata, di un nuovo e concorde proposito di tendere a più alta e proficua meta, di un’auspicata e sospirata pacificazione di animi, che, ci riempie di legittimo orgoglio e di serena gioia».
L’omaggio alla “veneranda figura” di Michele Fimmanò (deceduto l’anno precedente) e il ringraziamento rivolto a Giuseppe De Nava, “questa fulgida gloria del Parlamento italiano, il degno nostro rappresentante, che nato in questa regione, di essa conosce tutti i bisogni e ne intuisce tutto l’avvenire”, precedevano infine la chiusura del memorabile discorso, un inno d’amore rivolto alla propria terra:
«Attorno a questa pietra, come attorno ad un’ara, deponemmo, in sacrificio magnifico, tutte le nostre passioni, purificando l’anima nel più sublime ideale che arrida agli umani: l’amore della nativa terra. Sia fatidica la data che accomuna la rinascita della nostra città a quella degli spiriti composti a feconda pace».
*Link utili su questo blog:
– La controversa vicenda della ricostruzione di Sant’Eufemia dopo il terremoto del 1908.
– Sant’Eufemia e Milano, un legame storico.
– Michele Fimmanò.
**Bibliografia:
– Giuseppe Pentimalli, La ricostruzione del paese dopo il terremoto del 1908, in Sandro Leanza (a cura di), Sant’Eufemia d’Aspromonte, Atti del Convegno di studi per il bicentenario dell’autonomia (Sant’Eufemia d’Aspromonte 14-16 dicembre 1990), Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 1997.
– Domenico Forgione, Sant’Eufemia d’Aspromonte. Politica e amministrazione nei documenti dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria. 1861-1922, edizioni La città del sole, Reggio Calabria 2008.
– Domenico Forgione, Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Nuove edizioni Barbaro, Delianuova (RC) 2013.
Reddito di cittadinanza, c’è poco da fare ironia
La manifestazione sindacale unitaria di Reggio Calabria mi ha spinto ad una riflessione sulla sinistra di oggi in relazione alla questione del reddito di cittadinanza e, più in generale, sul rapporto tra sinistra e “periferie”.
La coda della manifestazione sindacale unitaria a Reggio Calabria ha presentato lo scambio di battute tra il ministro dello Sviluppo economico Di Maio e il segretario della Cgil Landini sui dati dell’occupazione e sulla “bontà” del reddito di cittadinanza, provvedimento-simbolo dell’esperienza governativa pentastellata.
Non nutro particolare simpatia per il Movimento, rozzo nei modi e incapace nei fatti, oltretutto permeato da quei vizi della “vecchia politica” contro i quali si è scagliato per un decennio: prima di andare a sua volta al governo, si capisce. Nonostante la generosità e, oserei dire, l’idealismo di molti attivisti, la sensazione è di avere a che fare con carrieristi consapevoli di avere vinto un superenalotto che mai più si riproporrà.
Ma il M5S è l’effetto, non la causa, del livello infimo della lotta politica e del desolante quadro culturale in questo che, ahinoi, non è un momento particolarmente favorevole per chi è capace di ragionamenti più complessi di un tweet, è solito approfondire le questioni ed esprimersi con pacatezza, non abbocca alle fake news più improbabili.
Non credo che esista una società civile “buona” e un ceto politico “cattivo”. Il secondo è espressione diretta della prima, la contrapposizione tra due mondi è autoassolutoria, deresponsabilizzante, consolatoria.
Fatta questa premessa, vorrei esprimere il mio disorientamento per le voci che, da sinistra, si sono in questi mesi levate contro il reddito di cittadinanza.
Sono d’accordo quando si sostiene che c’è bisogno di lavoro e non di assistenzialismo. Un grande piano di investimenti pubblici per il Sud, ad esempio.
Tuttavia, ritengo sia un grosso errore politico trattare un problema gravissimo con il sorrisino di chi, come si dice dalle nostre parti, “avi i barchi ’o sciuttu”. È un’offesa al bisogno, sbagliata concettualmente e politicamente. Alla base c’è una mancata percezione del paese reale. D’altronde, se la sinistra perde nelle periferie, ciò accade perché ha abbandonato quei luoghi. La ragione sociale della sinistra deve essere il lavoro, le sue politiche devono investire con forza sul contrasto al disagio socio-economico di una larghissima fetta di popolazione.
Ho suggerito di fare la richiesta per il reddito di cittadinanza ad un mio conoscente che, nonostante si dia da fare in qualsiasi modo, non riesce ad affrontare le spese primarie (bollette, pranzo e cena). La sua domanda è stata accolta e nei suoi occhi ho visto una scintilla di speranza.
La povertà va toccata con mano, non ci si può limitare a qualche ipocrita post di circostanza. In periferia e nelle famiglie con forte disagio socioeconomico si entra se si ha un rapporto e, purtroppo, la sinistra ha sperperato un patrimonio storico, sociale e politico.
Eppure da lì bisogna ricominciare, ricostruendo con pazienza.
*Il Quotidiano del Sud, 25 giugno 2019
Il terremoto del 1894 in una lettera di Vittorio Visalli
Il terremoto che il 16 novembre 1894 colpì il circondario di Palmi provocò 98 vittime e danni ingentissimi. San Procopio fu il paese che pagò il più alto tributo di sangue (48 morti); a seguire Bagnara (13), Seminara (8), Palmi (8) e Sant’Eufemia (7), mentre gli altri centri dove si registrarono decessi furono Melicuccà, Sinopoli, Santa Cristina e Delianuova. I danni quantificati a Sant’Eufemia ammontarono a circa due milioni di lire: 212 abitazioni crollarono totalmente, 326 parzialmente, 432 furono gravemente danneggiate e 188 lesionate in modo lieve.
Una testimonianza eccezionale di quell’evento è la lettera inviata il mese successivo dallo storico Vittorio Visalli a Giuseppe Mantica, che con Enrico Emilio Ximenes curò nel febbraio del 1895 la pubblicazione di un numero speciale della rivista “Fata Morgana”.
Si tratta di un documento preziosissimo, del quale sono venuto in possesso quasi per caso mentre spulciavo le “Carte Visalli”, custodite presso l’Archivio di Stato di Reggio Calabria. In apertura, Visalli descrive ciò che era successo nella sua casa di Messina, dove allora viveva:
«Eran quasi le sette di sera, quando un ruggito sotterraneo, lungo sibilante, annunziò la catastrofe: ed ecco un urto immane, una rapida vibrazione di sotto in sopra, da sinistra a destra, e le case oscillano, sbattono le imposte, i quadri si staccano dalle pareti, le travi scricchiolano come i fianchi di una nave in tempesta. Perdo l’equilibrio, mi appoggio allo stipite di un balcone, e vedo turbinare in un vortice i palazzi, i fanali accesi, la gente nella strada, e un vento caldo e furioso m’investe tutta la persona. Corro a prendere nelle braccia la mia bambina che dormiva, e preceduto dalle donne di case allibite e singhiozzanti, scendo all’aperto».
Dal 1892 Visalli era vicedirettore della scuola normale di Messina, città nella quale risiedette fino al terremoto del 1908: in quell’occasione la moglie Giuseppina Augimeri e l’unica figlia, la sedicenne Maddalena, ebbero infatti minore fortuna e perirono sotto le macerie.
A mano a mano che passano le ore, scrive Visalli:
«…si propagano dicerie di gravi danni accaduti non si sa dove; tutte le paure, tutti i pregiudizi risorgono in quel trambusto; s’interroga il mare, la luna, le nuvole. E intanto, ad ogni due o tre ore, i boati e le scosse si ripetono, sollevando pianti e clamori: le donne cadono in ginocchio, i ragazzi strillano, appaiono da ogni lato file di lanterne ed immagine sacre portate in processione».
Il pensiero di Visalli corre ai parenti che vivono in Calabria:
«Questo pensiero ci torturava. Erano là i vecchi genitori, là i fratelli, le famiglie nostre. Avranno sentito il terremoto? sono feriti? sono salvi? E quando cominciò a spuntare l’alba, già mille fosche notizie circolavano di bocca in bocca: in Calabria la rovina è immensa, vi son paesi distrutti, centinaia di morti, migliaia di feriti, la strada ferrata interrotta, la linea telefonica spezzata».
Il giorno successivo Visalli attraversa lo Stretto. Nel corso del viaggio chiede informazioni, ma le risposte sono angoscianti:
«Domando ai passeggeri che incontro, e mi rispondono: Sant’Eufemia e San Procopio sono spariti dal mondo, Palmi, Bagnara, Seminara quasi demolite, guasti enormi a Reggio, la provincia tutta ricaduta nelle condizioni in cui dovette trovarsi nel febbraio del 1783».
I suoi parenti, sparsi tra Sant’Eufemia e i centri viciniori, avevano superato incolumi la tragedia. La visione che gli si presenta è però sconvolgente. La prima città visitata da Visalli è Palmi:
«Entrando a Palmi, non si scorge a prima vista la gravità del danno, essendo le case in piedi e le vie quasi sgombre di frantumi; ma, fermando un po’ lo sguardo, si osserva uno spettacolo che agghiaccia il cuore. Spigoli aperti, imposte sgangherate, pareti oblique e spaccate da larghe fenditure, tetti sfondati, e per le strade una turba livida di stanchezza e di paura, che non ha ricovero, ed improvvisa capannucce e baracche di tavole o di cenci. Il giardino pubblico, quella stupenda terrazza d’onde l’occhio spaziava incantato sul cerulo Tirreno, da Capo Vaticano al Mongibello, ora sembra l’attendamento d’una lurida tribù di zingari. Vedo le signore più superbe, le più eleganti signorine, accoccolate in un angolo, ravvolte in coperte da letto o in vecchi scialli già smessi; vedo centinaia di persone inginocchiate innanzi ad un confessionale, aspettando l’assoluzione in articulo mortis: ed altre centinaia urlano e piangono a pie’ delle statue dei santi, che in lunga riga sono schierate nella piazza maggiore».
Quindi arriva a San Procopio. Nella tragedia di un paese raso al suolo rifulge l’eroismo del dipendente comunale Marafioti:
«San Procopio non esiste più: non è altro che un ammasso informe di tegole, di travi, di calcina, di mattoni, purtroppo chiazzati di sangue, da poi che fu questo il comune che diede il maggior numero di morti. I popolani erano dentro la chiesa della Madonna degli Afflitti, quando avvenne il terremoto: i più vicini alla porta cercarono scampo nella fuga, ma trentaquattro di essi rimasero schiacciati sotto la facciata che precipitava con orrendo fracasso. I superstiti e i feriti, forse più sventurati dei morti, son ora sparsi intorno al diruto paese, tremanti pel freddo, affamati, pieni di cordoglio e di raccapriccio. Ma in quel paese v’è un eroe, il vicesegretario comunale Marafioti: egli passò la notte brancolando sui ruderi, chiamando a nome coloro che supponeva sepolti, parecchi svincolando dalla stretta mortale, e continuò l’opera salvatrice pure quand’ebbe rinvenuti fra i cadaveri due suoi fratelli ed una sorella adorata!».
Infine Sant’Eufemia, il caro paese natio:
«Sant’Eufemia è distrutta. Un’ansia affannosa deprime l’energia dei superstiti, erranti per le campagne, senza lavoro, senza cibo, mentre le piogge cadono dirotte e la neve già si affaccia dai culmini dell’Aspromonte. Addio, mia povera e cara dolce casetta nativa! Quando mio nonno ti fece costruire e mio padre ingrandire, quando io bambino tornava di scuola a ricevere in te il premio d’un bacio materno, eri tanto lieta e graziosa che non avrei sognato mai di doverti un giorno rimirare in così misero stato. Il mio piccolo nido sembra oggi un sepolcro abbandonato; ed i muri esterni incombono sovr’esso come scheletri minacciosi o crollanti».
Sant’Eufemia non sarebbe più stata la stessa. Nel terreno denominato “Pezza Grande” fu infatti costruito un baraccamento che ospitava circa 200 famiglie. Si trattava del nucleo originario del rione che si sarebbe ulteriormente sviluppato dopo il terremoto del 1908 e che avrebbe determinato l’attuale assetto urbano, caratterizzato tra tre grandi aree: Vecchio Abitato (o Paese Vecchio), Petto e Pezzagrande.
*Testo integrale della lettera, datata 10 dicembre 1894, in «Fata Morgana», Pei danneggiati del terremoto in Calabria e Sicilia, (a cura di Ettore Ximenes e Giuseppe Mantica), febbraio 1895, pp. 76-78.
**Link utili su questo blog:
– Sant’Eufemia d’Aspromonte e il terremoto del 16 novembre 1894.
– Vittorio Visalli, da Sant’Eufemia al pantheon degli storici.