Venti minuti di tempo, mentre fuori rombano le camionette naziste. Milleduecento maledetti secondi per chiudere in una valigetta effetti personali e biancheria, bicchieri, denaro e gioielli, viveri per otto giorni, tessere annonarie e carte d’identità. Per vedersi passare davanti agli occhi la propria vita, per sentire sotto le narici il terrore del futuro. Per non fare piangere i bambini e per organizzare il trasporto degli infermi: “anche casi gravissimi non possono per nessun motivo rimanere indietro. Infermeria si trova sul campo”, la menzogna atroce e vigliacca.
Il 16 ottobre 1943 viene ricordato come il “sabato nero”: alle prime ore del mattino inizia il rastrellamento degli ebrei di Roma, la maggior parte residente nel quartiere ebraico. Dei 1024 stipati in 18 vagoni piombati e deportati nel campo di sterminio di Auschwitz faranno ritorno a casa soltanto 15 uomini e una donna. Tutti gli altri, compresi 207 bambini, verranno “passati per il camino” e, da allora, “sono nel vento”.
Alla vicenda del rastrellamento del ghetto ebraico, raccontata da Giacomo Debenedetti nel suo “16 ottobre 1943”, l’anno scorso Alberto Angela dedicò una toccante puntata del suo programma “Ulisse: il piacere della scoperta”, dal titolo “Viaggio senza ritorno”.
«C’è sempre il rischio che i volti bui della Storia riappaiano» – mise in guardia Angela in quella circostanza. «Meditate che questo è stato:/ vi comando queste parole./ Scolpitele nel vostro cuore/ stando in casa, andando per via,/ coricandovi, alzandovi;/ ripetetele ai vostri figli./ O vi si sfaccia la casa,/ la malattia vi impedisca,/ i vostri nati torcano il viso da voi» – l’anatema di Primo Levi.
È stato, e non per caso, anche in Italia. Nella patria del diritto. Perché si fa presto a dire “italiani brava gente”. Come se i cattivi siano stati gli altri e noi, in fondo, non avessimo niente da spartire con gli orrori di una guerra alla quale il 10 giugno 1940 avevamo aderito con entusiasmo, osannanti sotto il balcone di Palazzo Venezia.
Italiani brava gente. Come se non avessimo già vissuto la vergogna delle leggi razziali, l’abominio fascista avallato da Vittorio Emanuele III, in una corsa folle verso l’abisso di un disonore senza fine chiamato “provvedimenti per la difesa della razza” e “manifesto della razza”. Come se il boia di via Tasso Herbert Kappler non si fosse servito degli elenchi redatti dall’italianissima polizia fascista per dare esecuzione al progetto di sterminio.
Non è esercizio inutile ricordare cosa successe il 16 ottobre 1943. Fascismo e razzismo appartengono all’album di famiglia della nostra nazione. Non capitò per caso quella tragedia, ma fu il frutto di un odio che attraversa i secoli come un fiume carsico. Quando emerge in superficie individua il “nemico” in base al colore della pelle, al credo religioso, alle inclinazioni sessuali. Ieri come oggi.
La memoria è impegno civile. Salvare le vittime dell’olocausto dall’oblio, ricorda la senatrice Liliana Segre, “non significa soltanto onorare un debito storico verso quei nostri concittadini di allora, ma anche aiutare gli italiani di oggi a respingere la tentazione dell’indifferenza verso le ingiustizie e le sofferenze che ci circondano. A non anestetizzare le coscienze, a essere più vigili, più avvertiti della responsabilità che ciascuno ha verso gli altri”.
Il femioto Mimì Occhilaudi “u poeta” e le lettere dal fronte nella Grande guerra
Pubblicato sul blog Pont’I Carta: Il femioto Mimì Occhilaudi “u poeta” e le lettere dal fronte nella Grande guerra
Domenico Occhiuto, meglio conosciuto come Mimì Occhilaudi “u poeta” (Sant’Eufemia d’Aspromonte, 24 giugno 1894 – Reggio Calabria, 2 novembre 1969), fu uomo solitario, che visse con profonda amarezza il mancato riconoscimento del valore letterario delle sue liriche. Proprio per questo è giunta a noi soltanto la selezione di componimenti “Polvere senza pace. Il rogo, la cenere, il vento” (1968) e qualche poesia sparsa, mentre la maggior parte della sua produzione è andata dispersa. Tuttavia, le carte (lettere, appunti, considerazioni) salvate da Agostino Tripodi dopo la morte di Occhilaudi, oggi a disposizione di chi scrive, permettono di comprendere più a fondo il personaggio, ma anche di ricostruire uno spaccato storico-sociale significativo.
Di particolare interesse appaiono le lettere (circa venti) ricevute da Occhilaudi nel periodo della Prima guerra mondiale, alla quale egli stesso partecipò pur non prendendo parte ai combattimenti, a differenza del fratello Francesco, maggiore di tre anni. Quando invia le prime, Francesco ancora si trova a Trapani, dove la sua compagnia sta effettuando l’addestramento. Anche questa fase comporta problematiche di non facile soluzione. Gli serve denaro, che non ha e che richiede con insistenza:
«Io qui sono senza un soldo – si lamenta il 30 gennaio 1916 – e ve l’ho scritto più di una volta e voi altri non la volete capire; in due mesi che io sono qui mi avete mandato lire cinque, che gli altri se li fumano in una settimana […]. Io mi avvilisco: non so cosa devo fare, devo pagare la lavandaia che mi lava la biancheria, e questa è la prima cosa necessaria; si capisce, non devo stare sporco e voi altri questo non lo volete sapere».
Il 13 febbraio spiega in maniera analitica le spese che deve quotidianamente sostenere:
«La mattina ho bisogno di quattro soldi per comprarmi due [soldi] di pane e due di formaggio di qualche cosa perché fino alle undici non sono capace di stare, e sono i primi quattro soldi; poi mi devo cambiare due volte alla settimana se no gli insetti ci succhiano tutto il sangue, e ci vogliono due soldi per una camicia, due soldi per le mutande, due soldi per la maglia ed altre due soldi per le calzette; e sono sedici soldi alla settimana di sola lavanderia, [in] più ci sono i fazzoletti, [le] cravatte e alla sera ho bisogno di mangiare qualche altra cosa: mangiando roba asciutta sempre, ci vogliono quaranta cinquanta centesimi, e questi sono di prima necessità se no la corsa [dell’addestramento] non si può fare. […] non bastano neanche venti lire al mese facendo molta economia, e invece a voi altri vi sembrano troppo. Se sapessi quanto si soffre!».
Il rancio è pessimo. Francesco scrive al fratello che a pranzo viene distribuita “un po’ di pasta cattiva, che io non la mangio mai (anzi, ho cercato di abituarmi, ma fu impossibile)”, mentre la sera, dopo un giorno di dura esercitazione, a soldati “più stanchi che vivi” tocca soltanto “un po’ di brodo”. La giornata tipo inizia alle sei con la sveglia e, subito dopo la rassegna, “via di corsa per mezzora di continuo; poi ci fanno andare un po’ al passo e poi di nuovo di corsa fino alle undici; a mezzogiorno di nuovo in riga e fino alle due di passo e di corsa; poi dieci minuti di riposo e da capo fino alle quattro [per] fare istruzione di guerra”.
Le cose non vanno meglio di notte. Riposare è quasi impossibile, a causa della presenza di cimici e pidocchi. Sempre il 30 gennaio Francesco scrive che “qui si patisce molto, specialmente per il dormire: abbiamo un pagliericcio con poca paglia e una coperta e niente più, senza lenzuola e per terra; io ho le carni tutte che mi bruciano”. Il 13 febbraio precisa:
«Devo dormire per terra con un po’ di paglia, senza lenzuola, vestito in mezzo ai pidocchi che ce n’è così tanti che alla notte non ci lasciano dormire: ce la facciamo sempre grattando e abbiamo il corpo tutto scorticato; questo succede perché siamo ammassati come le pecore, in una camera che in tempo di pace dormivano nove soldati, adesso ne dormono diciannove-venti, ed è appunto per questo [che] c’è tanti insetti».
Ci si consola considerando che “ce n’è tanti alla frontiera [fronte] che patiscono più di noi” e ripetendo che “qualche volta [la guerra] deve finire: così [ci] facciamo coraggio”, anche se proprio in quei giorni i primi commilitoni vengono spediti nelle zone dei combattimenti:
«Qui si incomincia a mandare soldati della nostra compagnia alla frontiera a sorteggio e chi esce deve partire».
Qualche mese dopo lo stesso Mimì, che l’anno precedente era stato riformato, viene dichiarato abile ai servizi sedentari e arruolato con la mansione di telegrafista. Il 16 luglio 1916 da Bagnara Annunziatina Dato gli scrive una lettera che fa capire quanto la propaganda e la retorica patriottica fossero diffuse tra la popolazione:
«Nell’ora presente la Patria ha bisogno di sacrificio, di entusiasmo ed io benché non avete bisogno di esortazione pure sento il desiderio di incoraggiarvi; forse non sarete destinato ad andare lassù (anzi ve lo auguro di cuore), forse non farete conoscenza col rombo [del cannone] con le palle che incessantemente fischiano mietendo vittime e avvolgono in un turbine vertiginoso tante giovine esistenze. Quante vite sacrificate; quanto sangue non scorre a bagnare ed inzuppare quelle vette? Ah! Cari giovani che sulle alte vette del Trentino e sul Carso sarete destinati a versare il vostro sangue per la grandezza e la libertà della Patria nostra pugnate con coraggio, fidate nella forza Divina e la vittoria sarà nostra. Il nostro secolare nemico sarà scacciato dalle nostre terre: sì, dovrà abbandonare e per sempre ciò che non gli appartiene; la sua tirannia dovrà spezzarsi».
Annunziatina riferisce che Francesco in Trentino ha anche assistito ad un bombardamento “di circa 16 ore continue” e si augura “che finisca presto quest’immane flagello, che ritorni ovunque la tranquillità e la sospirata pace”. Scrive il 16 luglio, il giorno della Madonna del Carmine (“Sì, la Madonna impetrerà la pace: oggi è la sua festa, si è tanto pregato per questa benedetta pace. Potrà non ascoltarci?”), alla quale lei stessa ha espresso un voto:
«Riderete di una promessa che abbiamo fatto insieme a Rosina? Sapete qual è? Che se la guerra ci risparmierà tutti coloro che ci appartenete, andremo alla Madonna della montagna. È un’esagerazione ma pure potete immaginare il nostro desiderio che tutti potrete ben presto ritornare sani e salvi in famiglia».
Il 7 febbraio 1918 Francesco scrive a Mimì da San Nazario (Vicenza), dove si trova di passaggio. Dopo la disfatta di Caporetto, nell’esercito regna ancora un po’ di confusione. Lui è destinato al Corpo d’armata italiano in Francia, che si sta organizzando proprio in quei giorni:
«Per adesso mi trovo in marcia, per questa sera mi trovo in questo paese, ma domani si va via. Facciamo due giorni di marcia e uno di riposo. Andiamo sul lago di Garda e poi di là ci portano in Francia. Non c’è mai fine con questa ritirata […]; ci stanno facendo girare l’Italia a piedi, palmo per palmo».
Le notizie che giungono a Mimì dal paese non sono allegre. Non c’è infatti soltanto la guerra a mietere vittime: si muore anche di “spagnola”, l’epidemia influenzale che in Italia causa circa 400.000 vittime nel biennio 1918-19. Il 12 ottobre sua zia Angela gli fa sapere che Saruzza, la sorella di Mimì affetta da malattia mentale (in quel periodo ricoverata nel manicomio di Palermo), “ha preso anche lei la malattia spagnola, ma in grazia di Dio si è quasi ristabilita di questa maledetta malattia ed è convalescente”. A Sant’Eufemia la situazione è però un po’ migliorata rispetto a pochi mesi prima: «Da noi si è alquanto allontanata, ma sempre ne muoiono ancora 3 e 4 al giorno, mentre ci furono i giorni di 13 e 14».
Nel 1941 Bruno Gioffrè avrebbe rievocato quel periodo drammatico nell’autobiografico “Quarant’anni in condotta”:
«Ottanta martiri diede al mio paese la guerra in tre anni e mezzo: più di duecento il grippe settico, detto volgarmente la spagnuola, in meno di tre mesi! E che fatiche e che ansie! Centinaia di casi al giorno, tutti gravissimi, diffusione fulminea da casa a casa, da quartiere a quartiere. […] I cadaveri restavano in casa per più giorni, e lo sconforto avviliva gli animi anche più forti».
Cattive notizie provengono infine anche dal fronte economico, piegato dall’annata disastrosa del raccolto delle olive e delle mele:
«Ulive per quest’anno non ce ne sono; […] mele ce n’erano, [ma] siccome son passati sei mesi senza piovere un’ora, restarono tanto piccine che servirono due parti per i maiali e una per i cristiani».
Ma la zia è donna di fede, per nulla incline allo scoraggiamento e pronta a sopportare tutto. Per cui, anche se la qualità delle mele non è eccelsa e poche sono quelle mangiabili, Angela Occhiuto conclude la lettera con le speranzose parole “sempre si ringrazia Dio che ce li fa provare”.
*Avvertenza: sui brani tratti dalle lettere si è reso necessario un minimo di correzione, in modo da rendere il testo più fluido e comprensibile. Sono intervenuto esclusivamente sulla punteggiatura, che era praticamente inesistente, e sugli errori ortografici più macroscopici.
Oliverio sì, Oliverio no
Da mesi e mesi il quadro politico del centrosinistra calabrese è avvitato sul quesito “Oliverio Sì – Oliverio No”. Non proprio uno spettacolo edificante. Messa così la vicenda si presenta come una questione personale, più che politica. E forse lo è. La gestione del Partito democratico in Calabria nella legislatura che si sta per concludere è stata fallimentare. Lo certifica la fuga di diversi consiglieri regionali e di personalità che in questo quinquennio vi hanno giocato un ruolo di primo piano. I nomi di questi signori è possibile verificarli nelle cronache politiche di questi ultimi mesi, caratterizzati da copiose transumanze e dal fiorire di associazioni e movimenti che ruotano attorno ai fuorusciti, ovviamente già collocati o in cerca di collocazione in altri più accoglienti e (prevedono) vincenti lidi.
D’altronde, quando ciò che tiene insieme è soltanto il potere, quando manca la visione su ciò che si è, su ciò che si vuole fare e a vantaggio di chi, un partito finisce col diventare il contenitore di un pastone indigeribile.
Leggo di dirigenti del partito che ora, soltanto ora, chiedono una discussione. Giusto, giustissimo. Tuttavia, mi chiedo dove fossero questi dirigenti quando gli si faceva notare lo snaturamento del Pd, che si era consegnato al peggior trasformismo locale e aveva mortificato la storia di esperienze genuine. Allora si preferì mettere la testa sotto la sabbia e pensare che uno meno uno avrebbe dato zero: insomma, non sarebbe cambiato niente. E invece no: la matematica della politica poggia su teoremi più complessi. Fatto sta che chi è stato mortificato si è allontanato, chi vi era entrato per opportunismo ha abbandonato la nave alla prima onda leggermente più alta. Tutto questo è avvenuto senza che vi sia stata un reale dibattito, a nessun livello, e calpestando le più elementari regole democratiche (ad esempio nei tesseramenti).
E però… quando la finiremo di essere trattati come colonia? Sul principio che a decidere debbano essere gli elettori di centrosinistra della Calabria non dovrebbero esserci dubbi. Solo su questo mi sento di essere d’accordo con i sostenitori di Oliverio, al quale già la volta scorsa fu fatto di tutto per impedirne la candidatura. Lo affermo da ex sostenitore dello stesso Oliverio che in quell’occasione dovette pagare un prezzo altissimo, politicamente ma anche in termini di rapporti personali. Da presidente di un seggio delle primarie che dovette ingoiare la sfilata di votanti assurdi. Guarda caso, il candidato a governatore che sostenevano è oggi schierato apertamente con il centrodestra.
Ma non è questo il tema. È un altro ed ha a che fare con valori democratici che bisognerebbe sempre tenere in mente. Piaccia o no (personalmente non mi entusiasma), quella di Oliverio è l’unica candidatura in campo, alla luce del sole, che non vive nelle ombre dei palazzi romani. Se ci sono altri che legittimamente aspirano alla candidatura si facciano avanti e non si nascondano dietro le indicazioni interessate del partito nazionale. Non si può essere democratici a giorni alterni, un giorno invocare le primarie e un’altra volta impedirle. Perché l’antipolitica ingrassa proprio laddove la politica non riesce ad essere credibile.
Socialisti senza partito
Noi socialisti senza partito ci riconosciamo da alcuni piccoli dettagli. Ad esempio, dalla presenza nelle nostre librerie dell’Almanacco socialista pubblicato in occasione dei 90 anni del Psi. Il sottotitolo recita “Cronistoria, schede, commenti, documentazione sul socialismo italiano”: ed è una storia della quale io personalmente vado orgoglioso. Anche se dopo la tempesta del 1992-94 ognuno di noi ha preso strade diverse, nelle case che ci hanno accolto abbiamo sempre provato disagio. Come quegli ospiti che hanno l’impressione di non essere molto graditi e ricambiano con altrettanto fastidio. La diaspora non si è mai conclusa: noi socialisti siamo anime erranti con sola bussola la forza di idee e valori che sentiamo ancora vivi, nonostante non li abbiamo ritrovati compiutamente da nessuna parte. Ci accomuna la rivendicazione delle lotte e delle conquiste che quel partito seppe condurre per l’emancipazione politica e sociale del popolo italiano.
A me piace inseguire con la mente il lungo filo rosso che inizia con le lotte di Andrea Costa per la libertà di opinione e di associazione, per il diritto di sciopero e per la giustizia sociale in un’epoca in cui la legislazione del lavoro sostanzialmente non esisteva. Tutte cose che oggi diamo per scontate e delle quali, proprio per questo, non riusciamo a cogliere l’importanza. D’altronde i nomi luminosi di Filippo Turati, Anna Kuliscioff, Antonio Labriola oggi non dicono quasi niente. Le lotte per la democrazia con i suoi martiri della libertà le abbiamo dimenticate: provate a chiedere chi furono Giacomo Matteotti o Bruno Buozzi. Eppure, viviamo in un paese libero grazie alla generazione dei socialisti che tra le due guerre non ebbe paura di sacrificare tutto ciò che aveva nella lotta contro la dittatura fascista: Pietro Nenni, Sandro Pertini e tantissimi eroi anonimi, uccisi o finiti al confino per un ideale.
Dopo la conquista della libertà, giunse il tempo di raggiungere livelli più avanzati di democrazia: lo Statuto dei lavoratori di Giacomo Brodolini e Gino Giugni, la legge sul divorzio di Loris Fortuna. Nel solco di quel riformismo che è stato il tratto prevalente nella storia del socialismo italiano e che negli anni Ottanta produsse l’unico concreto ed organico tentativo di modernizzazione del Paese, a partire dal suo assetto istituzionale.
Quella che portò al crollo della Prima Repubblica fu una crisi “di sistema” e la via giudiziaria al suo superamento fu una comoda scorciatoia per evitare di affrontare politicamente i veri nodi di quella vicenda, in primis la questione del finanziamento della politica, sollevata da Bettino Craxi con un discorso storico alla Camera il 3 luglio 1992, che nessuno in Parlamento osò controbattere.
Occorrerà ancora del tempo prima che su quella stagione si possa pronunciare un giudizio obiettivo, scevro da cedimenti emotivi. D’altronde, la contemporaneità è un limite quando si scrive di storia.
Non so se ha ancora senso l’esistenza di un partito socialista. So però che ha ancora senso lottare per la libertà e per la giustizia sociale, continuare a credere con Nenni che “il socialismo è portare avanti tutti quelli che sono nati indietro”.
Le donne e la Grande Guerra
Tra le carte di Domenico Occhiuto Laudi di particolare interesse sono una ventina di lettere che il fratello Francesco gli scrive tra il 1914 e il 1919, periodo in cui si trova sotto le armi per l’addestramento, la partecipazione alla Prima guerra mondiale e il congedo dopo la smobilitazione, a conflitto terminato. Di queste lettere però scriverò in un’altra occasione.
Oggi parlerò del “retro” della lettera datata 5 agosto 1918. Sì, proprio del retro, che è quello che vedete in foto. Non sempre infatti, al fronte si aveva grande disponibilità di carta per scrivere, per cui ci si arrangiava con quello che il convento passava. In questo caso, Francesco utilizza come carta da corrispondenza il retro di un volantino della propaganda italiana.
La Prima guerra mondiale è “mondiale” non solo per l’alto numero di Paesi belligeranti: è mondiale anche perché essa coinvolge settori della società che fino ad allora erano rimasti ai margini dei conflitti. La Grande Guerra segna l’ingresso delle donne nella storia, dalla quale fino ad allora erano state escluse. Le donne sostituiscono gli uomini impegnati al fronte, nelle fabbriche, nei campi, nei luoghi di lavoro; sono infermiere e crocerossine nelle retrovie e negli ospedali da campo. Diventano, insomma, protagoniste.
Un ruolo significativo lo giocano nello sforzo propagandistico di sostegno alla guerra, con appelli come questo dell’Associazione Madri dei combattenti”, i cui comitati sorsero in tutte le maggiori città italiane con lo scopo di “tener alto il morale dei combattenti al fronte, con un’azione fatta di affettuoso, intenso incoraggiamento”.
L’appello del 12 marzo 1918 giunge nel momento cruciale della guerra. L’esercito italiano si era appena riorganizzato dopo la tremenda disfatta di Caporetto. Di lì a poco la “battaglia del Solstizio” (giugno 1918) avrebbe fermato sul Monte Grappa e sul Piave l’ultima grande offensiva dell’esercito austroungarico e preparato la controffensiva finale conclusasi con il trionfo di Vittorio Veneto.
In un’ora così importante per le sorti del conflitto le madri esortano i figli a combattere “per la salvezza e per la grandezza d’Italia”: «Noi non vi pensiamo uniti alla visione della morte! No: noi vi pensiamo uniti alla gloria, all’Immortalità. Perché il cuore di ogni madre italiana, anche se sanguinante, anche se dilaniato, esulta del valore di tanti figli, vi benedice, vi ama di raddoppiato amore e, preparato a tutto sopportare purché l’Italia sia salva e grande, purché il domani arrechi una Pace di Civiltà e di Giustizia, invoca da voi, o figli adorati e lontani, la liberazione del sacro suolo della Patria dall’aborrito nemico!».
Tempo di partenze
Partono senz’allegria. Partono senza dolore. Sanno che si deve, come la medicina che va presa nonostante il suo sapore amaro. È una storia che si ripete, che si tramanda come gli occhi scuri o le spalle larghe. Sono le strade dei nostri nonni, dei nostri genitori. Di quelli rimasti a casa di Cristo e sepolti lontani. Di quelli tornati per i propri figli, perché a loro fossero risparmiati gli addii sulle banchine.
Invece no. Si parte ancora. Sui treni, con le auto, in aereo. Come un sortilegio. Giovani con i trolley imbottiti di speranza e adulti con gli occhi bassi della sconfitta. Senza rimpianti, le lacrime asciutte di chi comprende il senso dell’ineluttabilità. Anche il nodo in gola è meno acre. Per chi resta è un dolore sordo, da interpretare. Pensieri cattivi che si vogliono scacciare lontano, come nuvole spazzate dal vento; ed è inutile piangersi addosso. Non è più tempo di lamenti, né di rabbia.
Nessuno che li trattenga; nessuno che sia capace di lanciare lo sguardo al di là del proprio miserabile orizzonte. Terra persa, terra maledetta. Con i suoi tramonti mozzafiato, con il suo mare colore del vino, con i suoi alberi puntati contro il cielo. Terra bella e maledetta. Che non sa afferrare un braccio, che non sa dire “restate”.
È la sconfitta dell’amore. È una condanna ai ricordi e alle videochiamate, sul comodino i sassolini della spiaggia e le fotografie di una favola triste.
Tra poco sarà inverno, la stagione delle lunghe notti. Chissà quanto ancora durerà questo buio, se mai passerà.
La discarica della discordia
La Gazzetta del Sud di oggi dà notizia della lettera che come gruppo consiliare “Per il bene comune” ieri abbiamo depositato presso il protocollo del Comune. Le vicende della discarica “La Zingara” sono note a tutti; molti nodi, a nostro avviso, sono rimasti irrisolti e sono giustamente causa di forte preoccupazione: proprio per questo crediamo che sia necessario uno sforzo di trasparenza da parte di tutti gli attori e il coinvolgimento della nostra comunità, altrimenti anche questa – come quella dello svincolo – sarà l’ennesima decisione presa passando sopra le teste della popolazione.
Di seguito, il testo completo della lettera indirizzata al sindaco di Sant’Eufemia d’Aspromonte e, per conoscenza, al presidente del consiglio comunale e a tutti i consiglieri.
Gentile Sindaco,
ormai da diverso tempo si susseguono voci preoccupanti relative alla prossima apertura della discarica “La Zingara”, ricadente nel territorio di Melicuccà, ma situata pericolosamente nell’entrata del nostro comune. Come lei ben sa, tale eventualità è fonte di giustificata apprensione tra i nostri concittadini, per le possibili nefaste conseguenze ambientali. Già in passato, le popolazioni di Sant’Eufemia e di Bagnara Calabra manifestarono con forza la propria contrarietà: oggi quelle paure riemergono prepotentemente, a fronte di una decisione che la Regione Calabria ha assunto di concerto con l’ATO di riferimento, come emerge anche da recenti notizie di stampa (Il Quotidiano del Sud, 30 agosto 2019).
Abbiamo apprezzato la Sua ferma e contraria presa di posizione, in occasione della riunione tenuta il 30 luglio presso il Dipartimento Ambiente e Territorio della Regione Calabria, presente l’Assessore regionale all’Ambiente, il sindaco di Melicuccà, il vicesindaco del comune di Reggio Calabria, il consigliere regionale Giuseppe Pedà, i dirigenti del dipartimento.
Sui temi della difesa dell’ambiente e della tutela della salute dei nostri concittadini non possono esserci divisioni. Proprio per questo motivo Le chiediamo di farsi promotore di un’iniziativa (un incontro o un consiglio comunale aperto) che coinvolga le realtà associative della nostra comunità e la sua popolazione, per fare il punto della situazione e per valutare quali eventuali azioni possiamo tutti insieme intraprendere per difendere il nostro territorio.
I Consiglieri comunali
Domenico Forgione
Pasquale Napoli
Incontro con Domenico Antonio Tripodi, l’artista eufemiese che fa filosofia con i colori
Un fotogramma frequente delle estati eufemiesi ritrae una coppia di anziani coniugi passeggiare per le vie del paese. Domenico Antonio Tripodi e la moglie Eufemia (“Fena”) Borzumato hanno il passo lento e l’occhio attento di chi conosce la storia di Sant’Eufemia e si sofferma per trovare conferme o per commentare le trasformazioni. Ma anche soltanto per incontrare gente, scambiare un saluto e intrecciare i ricordi. Da diversi anni per me estate significa avere la possibilità di conversare con il Maestro Tripodi (“L’Aspromontano”), godere della pacatezza del suo argomentare e della serenità che trasmette il suo eloquio, entrare in punta di piedi nel mondo dell’arte attraverso le sue preziose lezioni. Capire come nasce un artista, cosa lo rende unico, cercare di vedere attraverso i suoi occhi quello che occhi ordinari non riescono a percepire. Tripodi vive a Roma, ma in estate abita nella casa della sua infanzia, tra le poche a resistere al terremoto del 1908, che fu anche bottega di pittura e di scultura e studio fotografico del padre, Carmelo.
La nostra conversazione parte proprio da Carmelo Tripodi.
Cosa significava per un bambino degli anni Trenta-Quaranta vedere come venivano sviluppate le fotografie?
Ogni tanto mi infilavo nella camera oscura, anche se la mamma [Carmela Giordano] non voleva. Mio padre era un po’ indeciso, ma se vedeva che mi attaccavo ai pantaloni mi trascinava dentro: aggrapparmi alle sue gambe mi rassicurava in quella oscurità. Riuscivo a scorgere qualcosa del suo paziente lavoro, non molto perché non arrivavo al piano su cui operava. Quel buio era misterioso e affascinante.
Con la pittura era diverso?
Con la pittura era tutto visibile, era all’aperto. Nell’Ottocento erano arrivati ad una sofisticheria che facevano addirittura delle tende, dei pannelli come quelli che si utilizzavano al cinema per ottenere certi riflessi sulla persona che posava. Era molto bello, complesso. Ma mio padre creava anche le statuette del presepe. Osservavo le sue mani lavorare al braciere e poi vedevo uscire fuori le braccia, le gambe, le mani: i personaggi prendevano vita ed io ne ero affascinato.
Come ha iniziato a dipingere?
Da piccolo, con un carbone rubato dal braciere cercando di non farmi vedere da mia mamma. Eravamo in tempo di guerra e un pezzo di carbone costava. Ricordo quando scappavamo nella galleria [della linea taurense Sinopoli-Gioia Tauro], durante le incursioni aeree degli Alleati. Chi aveva i soldi riusciva a comprarsi la carne, quando c’era o quando ammazzavano gli animali, ma non tutti potevano. Un pezzo di carbone valeva tantissimo per le famiglie di allora.
Cosa disegnava con il pezzo di carbone sottratto dal braciere?
Avevo la mania di disegnare per terra. La casa aveva i pavimenti in tavola, per cui io con il carbone “andavo a mille”. Mia madre si metteva lì con una scopa in mano, in un angolo, perché sapeva che poi sarebbe toccato a lei pulire. Mio padre seduto al cavalletto, sornione, andava avanti con i suoi lavori: lui aveva capito che ero portato. Così io disegnavo al piano di sopra, ma la stanza era piccola. Non mi bastava tutto il pavimento per completare i miei disegni, per cui spesso la gamba di qualche personaggio “scendeva” sui gradini della scala. Riproducevo per terra quello che mio padre disegnava al cavalletto.
Chi era Carmelo Tripodi?
Mio padre è stato un artista grandissimo, che va riscoperto. È quello che faccio da diversi anni con il volume a lui dedicato, giunto ora alla terza edizione. Prendiamo ad esempio il suo “Galileo Galilei”, con quel bellissimo gioco di luci. Galileo riflette, studia: forse sta pensando al dissidio tra scienza e religione. Questo quadro mio padre lo dipinse nei primi anni del Novecento. Bisogna pensare a questo: nel 1906 il quadro parte da Sant’Eufemia sul carretto trainato dai muli degli “scandesci” [soprannome di una famiglia dedita al trasporto di cose], attraversa lo stretto e arriva a Palermo, dove viene premiato. Poi parte per Parigi, insieme al disegno “Sant’Antonio Abate”: le due opere vincono tutto quello che c’era da vincere.
Carmelo Tripodi fu iniziato all’arte nella bottega di Giosuè Versace (autore, in particolare, di due tele pregevoli: San Luigi e Santa Chiara), il quale era figlio di Giuseppa Violi, decoratrice dei quadri dei Misteri gaudiosi e gloriosi nella chiesa del Rosario e, a sua volta, figlia di Domenicantonio Violi (suo un quadro dell’Immacolata Concezione). Nella prima metà dell’Ottocento a Sant’Eufemia operarono, inoltre, i fratelli Rocco e Paolino Visalli, a conferma di una tradizione antica e feconda. Un filo rosso che conduce a lei e ai suoi fratelli Graziadei e Agostino.
Sì, la mia formazione e quella dei miei fratelli è stata influenzata molto dalla produzione artistica di nostro padre. A Milano, dove arrivai nel 1953 (prima ero stato a Firenze e Siena, dove avevo molto studiato), ho “incontrato” Cézanne, Van Gogh, Matisse, Gauguin, gli impressionisti. E poi la pittura di Giorgio De Chirico, di Aligi Sassu, che è stato mio grande amico, di Aldo Raimondi. Quell’arte era la mia arte, il mio stile diventa più frastagliato. Gli oggetti, le figure prendono la luce del sole e la riflettono. Mio padre chiude l’Ottocento; io ho cercato di fondere il vecchio con il nuovo. Nei tre periodi della mia produzione artistica ho essenzialmente studiato l’uomo (e il mito); la natura, che ho ritratto nella sua sofferenza: come nel quadro del piccione ferito e morente che raccolsi e portai a casa, a Venezia; infine Dante.
Il filosofo |
Il suo quadro più celebre è “Il filosofo”. Ci parli di quest’opera.
Si tratta di un dipinto del 1984 che ha una bella storia. Me l’hanno chiesto in tanti: politici come Amintore Fanfani e Luigi Gui, artisti come Don Backy e Gena Dimitrova, che nel 1986 aveva interpretato il Nabucco alla Scala di Milano. La Dimitrova era particolarmente insistente, ma le dissi: «Chiedimi una costola, ma non questo quadro». In quel periodo tenevo una mostra in via Manzoni, vicino alla Scala. Sul quotidiano “Il Giorno” uscì un articolo con la testa del filosofo in prima pagina. Dopo un paio di giorni mi contattarono da Torino le Edizioni Paoline: «Abbiamo visto la testa del filosofo. Venga perché abbiamo bisogno di lei». Mi recai a Torino cercando di capire il perché di quella necessità assoluta: “la provvidenza”, come mi avevano detto. Erano pronti per mandare in stampa dieci volumi di un’enciclopedia della filosofia e delle religioni e avevano bisogno dell’immagine del mio quadro, poiché in essa avevano visto la rappresentazione del pensiero di Sofocle.
Un motivo di grande orgoglio.
«Tripodi fa filosofia con i colori»: è questo l’orgoglio. Non la copertina in sé. Noi dall’Aspromonte facciamo filosofia, diamo forma fisica al pensiero dei filosofi.
È bella l’espressione “dall’Aspromonte”. Un artista che gira il mondo ed espone i suoi quadri a New York, Tokio, Istanbul, Parigi, Londra, Stoccolma, Mosca porta avanti le proprie radici, le proprie origini. Proprio a Mosca lei ha esposto le opere del ciclo dantesco: quanto studio c’è dietro i 150 quadri dedicati alla Divina Commedia, quanta fatica per riuscire a interpretare Dante e dare forma alla sua poesia?
Monte del Purgatorio |
Dante non ti lascia spazio per fare altro, ti prende tutto. Non si smette mai di studiarlo. Da bambino ero affascinato dalle anime del purgatorio dipinte da mio padre. Quelle fiamme lì, con le figure dentro, a quattro-cinque anni mi attraevano. I miei dicono che io mi arrabbiavo perché con il carbone non potevo farle rosse. Mio padre quindi era dantista, conosceva Dante e mi ha trasmesso l’amore lui. Poi l’ho studiato sui banchi di scuola. È una passione che si è sedimentata negli anni ed è maturata piano piano. Interpretare Dante significa anche “andare oltre” Dante e svilupparne in un certo senso il pensiero, così come credo di avere fatto con Manfredi, che Dante colloca nel terzo canto del Purgatorio. Il “mio” Manfredi ha un’espressione di pace e di tranquillità, ha già superato la fase di chi attende di conoscere quale pena dovrà scontare.
In conclusione, a me sembra che il tratto caratteristico della sua produzione artistica sia la convivenza dell’umanesimo con la religione e con la fede. È d’accordo?
Sì, è un equilibrio necessario: c’è l’uomo e c’è la spiritualità. Attraverso i miei lavori cerco di penetrare la materia, la carne: di tirare fuori la sostanza, l’essenza della natura umana. Per questo mi sono messo a lavorare con Dante. Dante ha tessuto una tela di salvezza per lui, ma anche per tutti gli uomini. Il fine ultimo della Cantica del Paradiso, come scrive a Cangrande Della Scala, è quello di rimuovere i viventi dallo stato di miseria e condurli allo stato di felicità. L’artista è uno strumento di Dio, come affermano chiaramente Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Per cui non si può che condividere il pensiero del critico d’arte Antonio Paolucci: «Per il pontefice l’artista è chiamato a rendere visibile, nella pienezza della sua libertà espressiva e quindi nell’esercizio della sua spontaneità di “creatore”, ciò che è trascendente, inesprimibile, “ineffabile”».
*Antonio Paolucci, tra l’altro Ministro per i Beni Culturali e Direttore dei Musei Vaticani, nel 2010 scrive a Domenico Antonio Tripodi: «Lei è un artista vero. Ha passato la vita attraversando l’arte e il servizio dell’arte in tutte le sue forme e l’Arte Le ha restituito cuore caldo e mente serena. Le sue interpretazioni pittoriche della Commedia sono molto belle. Lei dimostra ispirazione, sensibilità, passione, capacità evocativa e visionaria e, naturalmente, mestiere; una cosa che manca, purtroppo, agli artisti di oggi e che è sempre importante. Lei, Tripodi, è testimone ed è alfiere delle Arti. Auguri di ogni bene e di ogni successo».
Un pianoforte, Cettina e il cielo di Berlino
Sono lontani i tempi della Berlino cupa dell’epoca della guerra fredda. Gli anni del muro, la città segnata dalla cicatrice di cemento che la divideva in due. Davanti alle macerie del muro finalmente abbattuto, trent’anni fa Mstislav Rostropovich fece commuovere il mondo facendo vibrare Bach sulle corde del suo violoncello. E chissà se sia stato un caso, in questa estate 2019, trovare un pianoforte verticale rosso a Postdamer Platz, anch’essa divisa in due per 28 lunghissimi anni.
Domanda che forse non si è posta Cettina Papalia, ragazza di Sinopoli in vacanza a Berlino la settimana scorsa. Complice la sua grande passione per la musica, Cettina non ci ha pensato due volte: si è seduta dietro al pianoforte e ha cominciato a suonare. Il resto l’ha fatto la magia che la musica riesce a creare.
Studentessa in Pianoforte al Conservatorio “Cilea” di Reggio Calabria e di Chimica presso l’Università degli studi di Messina, Cettina è allieva del Maestro Roberto Giordano: «È una fonte di ispirazione per me; in ogni lezione mi trasmette tutto il suo amore per la musica, il suo sapere, i suoi insegnamenti di vita. A novembre inizierò un nuovo e importante anno di studi: quello che mi porterà all’esame conclusivo per ottenere il Diploma Accademico di Primo Livello in Pianoforte. Vedrò così realizzato uno dei miei grandi sogni, dopo tanti anni di studio, di sacrifici per la mia famiglia, ma anche di tanta determinazione e voglia di arrivare in fondo. Anni di crescita e di cambiamenti; anni di un amore che ogni giorno scopro essere sempre più forte, senza il quale non potrei sopravvivere».
Una passione che ha origini lontane, come lei stessa spiega: «Tutto è nato nella mia Chiesa, a Sinopoli, un luogo di fondamentale importanza per la mia vita. A sette anni mi innamorai dell’organo che si trova al suo interno: lo ascoltavo, lo osservavo e rimanevo così affascinata da quello strumento che, non appena finita la messa domenicale, correvo a casa e con una piccola tastiera riproducevo esattamente i suoni che avevo ascoltato. I miei genitori, comprendendo questa mia particolare dote, decisero di iscrivermi in una scuola privata per iniziare a studiare pianoforte e da quel momento non ho più smesso. La mia vita è totalmente cambiata grazie alla musica».
Cettina infatti, oltre ad essere “pianista accompagnatore” di strumentisti e di cantanti, dirige il Coro parrocchiale di Sinopoli e suona proprio quell’organo che da bambina l’ha fatta innamorare della musica. Spesso pubblica sui social i video delle sue performances ed è proprio sul suo profilo Facebook che ha di recente condiviso il breve, ma suggestivo filmato della sua improvvisata “esibizione”: «Il pianoforte di Potsdamer Platz era a disposizione di chiunque avesse voluto suonare, anche soltanto per trasmettere una piccola emozione. Ho iniziato a suonare e attorno a me si sono radunate moltissime persone: chi mi riprendeva con il telefonino, chi applaudiva, chi mi faceva i complimenti. Mentre suonavo si è avvicinato uno studente di Berlino, Thomas Kruger: si è seduto accanto e abbiamo cominciamo a suonare a quattro mani come se avessimo fatto quello da sempre. Un’intesa perfetta: ecco il potere della musica! Non ha importanza la provenienza, il luogo, la persona: la musica sarà sempre capace di unire e di emozionare, di sorprendere e di stupire. In quel momento Thomas per me non era uno sconosciuto, ma un amico musicista speciale che ha condiviso con me un momento unico e raro».
I minuti scorrono veloci sulle note di “L’amour Toujours” di Gigi d’Agostino, “A skyfull of stars” dei Coldplay, la colonna sonora del film “Pirati dei Caraibi”. Il capannello di persone attorno ai due giovani diventa sempre più numeroso: i bambini ballano, i telefonini degli adulti si trasformano in cineprese e macchine fotografiche. Lo stupore e l’allegria degli astanti sono palpabili. Alla fine dell’esibizione una standing ovation coinvolge anche gli avventori dei ristoranti vicini, in quello che per Cettina rimarrà “il momento più bello dell’intero mio viaggio”.
Vincenzino Fedele e quelle parole mancate
Nei giorni scorsi ci ha lasciato Vincenzino Fedele, “u Signuri”. Nella sua lunga vita Vincenzino è stato un infaticabile organizzatore di eventi, sia come fondatore e poi presidente emerito dell’Associazione Sarti e Stilisti Calabresi, sia come fondatore e presidente per circa quattro decenni dell’Associazione culturale “Sant’Ambrogio”.
Un uomo che ha dedicato la sua vita per realizzare iniziative che facessero crescere culturalmente e socialmente la nostra comunità, quella Sant’Eufemia dove aveva deciso di vivere nonostante le tante opportunità avute per trasferirsi altrove. Sant’Eufemia ha un grande debito di riconoscenza nei suoi confronti, noi tutti gli dobbiamo molto. Mi vengono in mente le sfilate di moda, a partire dagli anni ’60, che hanno fatto di Sant’Eufemia un punto di riferimento anche fuori regione. E poi le tante attività della “Sant’Ambrogio”: sagre, minifestival e giochi senza frontiere, gruppo folcloristico, organizzazione delle sfilate di carri allegorici per Carnevale, festa della famiglia, recite e tanto altro. Per 18 anni la pubblicazione della rivista “Incontri”, l’unico esperimento editoriale della storia eufemiese. E ancora l’opera di riscoperta della nostra memoria storica, con l’organizzazione del convegno sul bicentenario dell’autonomia del nostro paese e la successiva pubblicazione degli atti, oppure la ristampa dell’introvabile “Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte”, la cui prima edizione risaliva al 1945.
Ho aspettato qualche giorno prima di pubblicare queste poche righe perché pensavo che l’amministrazione comunale avrebbe saputo onorare questa grande figura di eufemiese. A maggior ragione dopo alcuni interventi registrati nell’incontro in pineta del 5 agosto sul tema “Volontariato è territorio”: interventi nei quali si sottolineava, giustamente, che non bisogna sempre aspettare l’iniziativa dell’amministrazione comunale, che bisogna darsi da fare e rimboccarsi le maniche come cittadini che hanno a cuore il benessere della propria comunità.
Ecco, io credo che Vincenzino Fedele sia stato uno di quelli che non è mai stato con le mani nelle mani, è stato un uomo instancabile da questo punto di vista. Forse proprio per questo la sua morte avrebbe meritato da parte dell’amministrazione comunale un comunicato stampa o un manifesto, insomma anche due parole ufficiali di ringraziamento per tutto quello che ha fatto nella sua vita per Sant’Eufemia.
Scusate lo sfogo.
*Tra gli altri articoli, tre anni fa a Vincenzino Fedele ne avevo dedicato uno in occasione dei suoi 90 anni:
https://www.messagginellabottiglia.it/2016/02/vicenzinu-u-signuri.html