Dopo un calvario giudiziario durato trent’anni, Calogero Mannino è stato assolto. Tanto sicuro era della sua innocenza, che aveva scelto il rito abbreviato. Quando giungerà a conclusione anche il processo degli imputati che hanno scelto il rito ordinario, sarà ufficiale che non vi fu trattativa tra stato e mafia. Con buona pace di chi ha costruito carriere e fatto soldi scrivendo libri sull’argomento. Che almeno si aggiornino i manuali di storia. Qualche giorno fa era stata invece assolta Nunzia De Girolamo, al termine di un’altra vicenda giudiziaria durata sette anni. Prima ancora era toccato ad Antonio Bassolino. Il metodo è sempre lo stesso: si elabora il teorema e poi si piegano eventi e circostanze a quel teorema. Che, quasi sempre, si rivela sballato, frutto di una visione mafiocentrica, camorrocentrica, ndranghetocentrica della realtà. Una comodissima scorciatoia che evita noiosissime ed inutili analisi sociologiche, economiche e culturali: tanto, a queste latitudini tutti sporchi e cattivi siamo. O dobbiamo essere, perché così fa comodo ad una narrazione autoassolutoria del fallimento di tutte le politiche governative sul Mezzogiorno. Dalla legge Pica in poi, la questione meridionale è sempre stata un affare emergenziale e criminale.
La vicenda Mannino (quelle De Girolamo, Bassolino e tante altre) dice però altro, senza aggiungere niente di nuovo, in verità. Ci ricorda, ad esempio, lo sbilanciamento pauroso esistente tra accusa e difesa in processi che dalle aule dei tribunali vengono furbescamente trasferiti nelle piazze, notoriamente assetate di sangue. Il corto-circuito mediatico-giudiziario di vicende di questo genere rappresenta una grave lesione dello stato di diritto. Una procura può infatti presentare la propria inchiesta come verità assoluta, già un paio d’ore dopo gli arresti, grazie a certa stampa che le consente di emettere sentenze molto prima dei canonici tre gradi di giudizio cui avrebbe diritto un imputato. Sul fronte opposto, con mille cautele e distinguo, al massimo è consentito di pronunciare la formula di rito, vigliacca ed ipocrita, che prevede la “piena fiducia sull’operato della magistratura” e l’auspicio che la giustizia faccia “il suo corso”.
E pazienza se al termine del “corso” della giustizia, dopo anni o addirittura decenni, resteranno vite ed attività economiche distrutte da carcerazioni preventive e sequestri e amministrazioni comunali marchiate dall’infamante timbro dello scioglimento per infiltrazioni mafiose.
Pablito
“I nostri miti morti ormai”, come in una celebre canzone di Guccini. Ho iniziato a canticchiare “Incontro” subito dopo avere saputo che anche Pablito ci ha lasciati, in questo terrificante 2020. Un riflesso pavloviano: «Siamo qualcosa che non resta/ frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno». I simboli di un bambino di nove anni cresciuto a pane con l’olio e Gazzetta dello sport, Corriere dello sport, Tuttosport, Intrepido sportivo e Guerin sportivo. Il Bar Mario era una sorta di emeroteca olimpionica. Il bambino di nove anni amava il calcio visceralmente, volava sulle ali della sua bellezza poetica, che cercava di imitare ovunque si potesse correre dietro ad a un pallone: piazze, strade, angoli abbandonati che venivano convertiti in campo da calcio. La bellezza non ha colori, per questo collezionava i poster dei suoi supereroi preferiti. Accanto ai nerazzurri, quelli bianconeri di Zoff, Scirea, Tardelli, Rossi e della colonia straniera sbarcata nel campionato più bello del mondo: Platini, Rummenigge, Falcao, Zico, Maradona, Passarella, Junior, Socrates, Cerezo.
Nell’immaginario collettivo Paolo Rossi rimarrà per sempre Pablito, il ragazzo timido e di poche parole capace di trasformare in gol il più sbilenco dei cross, un rimpallo o un pallone vagante dentro l’area. Nell’era moderna, soltanto Pippo Inzaghi gli si è avvicinato come natura e stile di gioco.
Paolo Rossi, per tutti “Pablito” dopo il “Mundial ’82”. Di questi tempi non lo sarebbe diventato. Due anni di squalifica per calcio scommesse e la convocazione poco prima del mondiale, dopo una lunghissima inattività. Nell’Italia di oggi, assetata di sangue, sarebbe stato crocifisso in piazza. Ma quella era un’epoca di uomini veri e un “hombre vertical” come il commissario tecnico Enzo Bearzot non era certo tipo da farsi intimidire da chi, eufemisticamente, storceva il naso. Neanche quando, nelle prime tre partite, Paolorossi (sì, tutto attaccato) era stato un fantasma. Credeva nei suoi “il vecio”. Credeva in Paolorossi, sempre titolare a dispetto di tifosi, giornalisti e sedicenti padreterni del calcio. Bearzot sapeva che in Italia basta poco per passare dal disprezzo all’idolatria: a Rossi bastarono tre partite per diventare Pablito e per fare scoppiare di gente il carro del vincitore. Tre gol al Brasile, nella partita di calcio più celebrata insieme al 4-3 alla Germania nel 1970, due alla Polonia in semifinale e uno alla Germania in finale, sotto la pipa felice e sorniona di Sandro Pertini.
Pablito aveva avuto la sua seconda possibilità e, con sé stesso, aveva riscattato l’Italia intera: aveva affermato il principio che la polvere non è per sempre, così come l’altare. Che si può rinascere ogni giorno. Una lezione che molti oggi sembrano avere dimenticato, seguaci invasati della furia iconoclasta di uno Stato che si vorrebbe etico.
Ad ogni partita il Bar Mario registrava il pienone. Dopo la vittoria con il Brasile avevo rischiato di impiccarmi con la tenda mentre correvo fuori per esultare. Portai per giorni i segni sul collo e le ginocchia sbucciate. In quell’indimenticabile 11 luglio sembrava di stare in curva. I più piccoli a gambe incrociate per terra, gli altri dietro, seduti nelle sedie o in piedi. Gli occhi fissi sul Phonola 28 pollici issato a un metro e mezzo d’altezza sopra due banchi, per consentire anche ai più distanti di vedere qualcosa. E il cuore che andava a mille, fino al grido di Nando Martellini: «Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!». Gli azzurri che si rincorrono nel Bernabeu, la magia e la malinconia di un tempo lontano, il sorriso e le braccia al cielo di Pablito: “le cose sognate e ora viste”, proprio come nella canzone.
Camerotto 1
Splendi, Diego
Scrivo di te di notte, l’ora del dialogo con le stelle. L’ora dei sogni. L’ora dell’amore. Perché sei stella, sogno e amore. Sei “Pibe de oro” e “mano dei Dios”, sei “Isso”: il liberatore dei popoli oppressi, il riscatto degli scugnizzi, il bambino che grida che il re è nudo mentre attorno il sistema volge lo sguardo da un’altra parte. Per paura o per debolezza. Due sentimenti che non ti appartengono, che non possono appartenere a chi ha respirato la polvere di Villa Fiorito.
Il volontariato al tempo del Covid
Tutto
è nato per caso, sulla chat Whatsapp dei volontari dell’Agape. Ci siamo detti:
«Perché non facciamo una videochiamata collettiva, una sorta di riunione
dell’associazione “da remoto”? Giusto per vedersi, per come è possibile con
l’emergenza sanitaria che ha cambiato molte nostre abitudini, anche le modalità
dello stare insieme.
Dal piacere di ritrovarsi al lancio dell’idea è stato
un attimo: «Perché non utilizzare le potenzialità della tecnologia per
continuare le nostre attività?». E così, in questo fine settimana, siamo
ripartiti. Non possiamo fare molto, ma fare qualcosa può essere davvero tanto
per chi, in fondo, ha principalmente bisogno di compagnia e di calore. Alcuni
di noi hanno partecipato ad una videochiamata con gli anziani della RSA “Mons.
Prof. Antonino Messina”, grazie alla disponibilità della direttrice Rossana Panarello e, in
questo primo collegamento, di Michela Carbone che ha fatto da tramite tra i
volontari e gli anziani: qualche scambio di battute, domande, sorrisi.
Un’esperienza ripetuta oggi con una tra i ragazzi speciali che in estate
partecipano alla colonia estiva e che a turno coinvolgerà anche gli altri.
Anche in questo caso, molta sorpresa e tanta gioia sul display a mosaico.
Non
bisogna arrendersi, neanche al lockdown. Per questo siamo decisi ad “esserci”
nella nostra comunità, come ci siamo dal 1991: il prossimo, sarà l’anno del
trentennale e va festeggiato! A dicembre non potremo mettere in campo le
consuete iniziative del “Natale di solidarietà”, ma nel nostro piccolo
cercheremo di stare vicino a chi non desidera altro che una carezza, seppure
virtuale. Piccoli gesti, sulla scia delle parole di Teresa Sarti, cofondatrice
di Emergency, che spiegano il senso delle attività di volontariato: «Se
ciascuno di noi facesse il suo pezzettino, ci troveremmo in un mondo più bello
senza neanche accorgercene».
A futura memoria
Il 20 novembre 1989 moriva Leonardo Sciascia: scrittore ed intellettuale eretico, illuminista e cultore dell’arte del dubbio, protagonista di battaglie civili ancora attuali. Un oracolo inascoltato, che spesso dovette scontare la solitudine: «Mi sembra di aggirarmi nella realtà italiana, non come un veggente, ma come un fantasma». Sciascia professò la religione della ricerca della verità, della difesa del diritto, delle regole, della Costituzione. Gesualdo Bufalino, del quale il 15 novembre è ricorso il centenario della nascita, definì l’opera di Sciascia“ un unico grande libro sulla giustizia” e appare oggi come un testamento la citazione dello scrittore e drammaturgo svizzero Friedrich Dürrenmatt, posta da Sciascia in epigrafe al suo ultimo romanzo “Una storia semplice”: «Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia».
Ho scelto la vita
“Ho scelto la vita” è il titolo dell’ultima testimonianza pubblica sulla Shoah
della senatrice Liliana Segre, condivisa il 9 ottobre 2020 nel borgo di Rondine
(Arezzo). Una scelta che le consentì di sopravvivere all’orrore di Auschwitz e di trasformare la marcia della morte in
marcia della vita: camminando “una gamba davanti all’altra, con i piedi
piagati, mentre chi cadeva veniva finito con una fucilata in testa”; brucando nei
letamai alla ricerca di qualcosa da mangiare; cibandosi con la carne cruda di
un cavallo morto, strappata con le unghie e con i denti; succhiando foglie.
Come fu possibile tutto questo? Liliana Segre lo spiega con una sola parola:
indifferenza. Dodici lettere che lei stessa ha fatto incidere a caratteri
cubitali all’ingresso del Memoriale della Shoah di Milano, realizzato nel
binario 21 della Stazione Centrale, da dove partivano i carri bestiame pieni di
ebrei destinati ai campi di concentramento: «Se pensi che una cosa non ti
riguardi e ti volti dall’altra parte, è lì che inizia l’orrore».
Furono in tanti, in Italia, a girarsi dall’altra parte. Ed è comodo, per la coscienza
collettiva della nazione, attribuirne la responsabilità in via esclusiva al
fascismo e non, piuttosto, ad un humus culturale razzista, presente nella
società italiana e capace di produrre frutti velenosi ancora oggi. Il “Manifesto
degli scienziati razzisti”, la “Dichiarazione sulla razza” del Gran consiglio
del fascismo (“È tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti”),
l’esclusione
degli ebrei dalle scuole pubbliche e dallo svolgimento di determinate
professioni (pubblica amministrazione, banche, assicurazioni, notariato,
giornalismo), la negazione dei diritti politici e civili, il divieto di
matrimonio tra cittadini italiani di razza diversa furono atti e provvedimenti
che ebbero largo consenso, così come lo stesso regime fascista fino al 10
giugno 1940. Erano italiani coloro che segnalavano alle autorità, per pochi
soldi, il vicino di casa ebreo. Non dimentichiamolo.
«La memoria – scrive Ferruccio De Bortoli nella prefazione al libro – è un vaccino
prezioso. Ci aiuta a combattere con intelligenza e moderazione i miasmi del
totalitarismo che una società conserva, nonostante tutto, nel suo inconscio,
nel retrobottega della sua storia collettiva, familiare, personale».
Auschwitz – scrisse Primo Levi – è “la mancanza di parole per esprimere questa offesa, la
demolizione di un uomo”. Ed è il ricordo di Liliana, ragazzina tredicenne alla
quale viene semplicemente detto di dimenticare il proprio nome, perché da quel
momento sarebbe stata soltanto un numerino tatuato sul braccio. Nell’istante in
cui si diventa una cifra riportata sopra un registro dell’ufficio matricola inizia,
sempre, l’opera sistematica di annullamento della dignità dell’uomo.
Per Liliana Segre, scegliere la vita significò allora «sognare di essere fuori di
lì, il rumore di un bambino che gioca, un gattino, un prato verde, una
qualsiasi cosa bella». Scegliere la vita, oggi, significa fare opera di memoria
ed assumere collettivamente la funzione delle pietre d’inciampo che in molte
città europee ricordano le vittime del nazismo.
Giornata mondiale dei poveri
“Non serve per vivere chi non vive per servire”: utilizzando le parole di don Tonino Bello, Papa Francesco ha ribadito il valore del messaggio evangelico “tendi la tua mano al povero”, tema centrale dell’odierna Giornata mondiale dei poveri. Ma cos’è la povertà? Ovvio, esiste una spaventosa povertà materiale, sulla quale noi fortunati abitanti della parte sviluppata del pianeta tendiamo a chiudere gli occhi, fino a quando non ci presenta il conto degli sbarchi dei disperati che scappano da guerre, eccidi, carestie. Occhi che sgraniamo quando i sei mesi di Joseph finiti in fondo al mare gridano vendetta, per poi dimenticare. Perché “il dolore degli altri è un dolore a metà”: ce l’ha insegnato Fabrizio De Andrè, con gli emarginati e i diseredati ai quali ha dato voce e dignità letteraria, riconoscendo loro il diritto di “consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità”. E poi esiste una povertà dello spirito, che ci porta ad inseguire bisogni sempre più crescenti, sempre più effimeri, sempre più egoisti. Scrooge, l’avido protagonista di “Canto di Natale”, è poverissimo.
2 novembre 2020
Quanto siamo cambiati da marzo ad oggi? Quanto le nostre vite sono state stravolte dal Covid? A quante abitudini abbiamo dovuto rinunciare? Ci pensavo oggi, mentre il pensiero andava ai “miei” defunti. Parenti e amici che non ho potuto salutare come facevo ogni anno, lasciando sulle loro tombe un fiore o un lumino. Ho ripercorso mentalmente il percorso che faccio quando entro nel cimitero, in una sorta di appello degli assenti. Ci sono tutti.
Parole
Parole come in un sogno ora vivace ora dai
contorni sfumati, dimenticate all’alba, quando si rintanano nella cuccia
onirica dei fantasmi della mente.
Parole da appuntare sul bloc notes del
comodino sforzando la vista, disegnando nel buio il gancio al quale rimanere sospesi
per non precipitare nel gorgo.
Parole di un matto, intrappolate nel cuore.
Parole dure come il silenzio, come le urla.
Parole altre, osservate dal molo mentre
scivolano nella tasca dell’orizzonte, come le stagioni.
Parole come sirene che violentano la notte.
Parole a tutta pagina, definitive come
fede incrollabile.
Parole impastate dalla frana che va a
valle.
Parole conficcate come chiodi sulla bara.
Parole da tenere in tasca per farsi
compagnia.
Parole come la carezza di un’eco lontana.
Parole incastonate negli occhi.
Parole come unguento per medicare l’anima.
Parole come un diritto per il quale vivere
e morire.
Parole come una liberazione.
Parole da affidare al vento, come il bacio
di Pablo Neruda.