Non voltarti indietro

Al cardinale Richelieu viene attribuita l’affermazione “con due righe scritte da un uomo si può fare un processo al più innocente”. Cinque vittime del sistema giudiziario italiano sono i protagonisti del docufilm “Non voltarti indietro” (2016), diretto da Francesco Del Grosso e prodotto da errorigiudiziari.com, in associazione con Own Air: Daniela Candeloro, commercialista; Vittorio Raffaele Gallo, impiegato alle Poste; Fabrizio Bottaro, designer di moda; Antonio Lattanzi, assessore comunale; Lucia Fiumberti, dipendente di un ente pubblico. Cinque persone le cui vite vengono sconvolte dall’esperienza della giustizia ingiusta e del carcere; cinque vittime uguali ai circa 1000 innocenti che ogni anno, in Italia, finiscono in galera.
Il titolo del film richiama la raccomandazione scaramantica per la quale, una volta liberato, il detenuto non deve mai voltarsi indietro lungo il tragitto che dalla cella lo conduce all’esterno del carcere, se non vuole tornarci.
I cinque protagonisti raccontano i rispettivi calvari personali: l’arresto, il trasferimento in questura, l’ispezione corporale, l’ingresso in carcere. Cosa scatta nella testa di chi viene arrestato? Come ci si adatta a vivere in una realtà della quale non si sa niente? Cosa pensa un innocente mentre è in carcere?
La privazione della libertà è un’esperienza-limite, che lascia ferite profonde. Fino a quando non si attraversa l’ultima porta, si ha la speranza che possa essersi trattato di uno sbaglio al quale si porrà rimedio, magari nella stessa giornata. Ma non funziona così. Scene che erano state viste soltanto nei film diventano incredibilmente realtà: le foto segnaletiche, le impronte digitali e tutte le formalità burocratiche che precedono l’ingresso in carcere.
Trovarsi in galera da innocenti scatena diverse reazioni. La sensazione di impotenza per il muro contro il quale si ha l’impressione di sbattere; la rabbia per un sistema giudiziario che non funziona; la percezione che l’obiettivo dei giudici non sia cercare la verità, ma trovare un colpevole.
«Se la giustizia non portasse una benda sugli occhi, proverebbe orrore per i propri errori», avverte un aforisma del poeta spagnolo Manuel Neila. Eppure, occorre trovare la forza per reagire.
La vita – racconta una protagonista del docufilm – non è fatta soltanto di cose belle e di successo. Il percorso è spesso duro e imprevisto, ma “quello che conta è ciò che sei, non il posto in cui stai”. Ogni esperienza ha un lato positivo e, anche se “la ferita resta”, è necessario “fare in modo che non sanguini più”.

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Un anno fa

La sera del 26 febbraio dell’anno scorso, avuta la disponibilità di un quadernone e di una penna, scrissi di getto la prima di tante pagine.

Carcere di Palmi, I piano – Camerotto 1
26 febbraio 2020
Ora so che nessuno può sentirsi immune. Puoi ritrovarti dentro uno sporco gioco al quale non hai mai giocato e che hai sempre rifiutato. È tutto così assurdo. Mai avrei pensato che potesse toccare a me. Eppure. Mi sembra di stare dentro un film, o dentro un incubo. Ma non mi sveglio.
Qua dentro il tempo non esiste. Ripercorro con la mente le scene di ieri, come se fossero capitate ad un altro, come se io fossi uno spettatore.
Mi vedo svegliato nel cuore della notte, la mia tranquillità violentata per sempre. La perquisizione e poi di corsa fino alla questura. Le formalità di rito. La schedatura, come un delinquente, e poi la gogna delle manette ai polsi all’uscita, da tenere nascoste. Ma sempre gogna è, a favore degli obiettivi dei fotografi.
Infine, l’entrata in carcere. L’attesa in un buco di un metro per due: senza finestre, le sbarre davanti a me. La perquisizione personale, l’umiliazione di dovermi spogliare completamente davanti a due sconosciuti che mi fanno accovacciare: una manovra che consente di accertare che il detenuto non nasconda qualcosa nell’ano. Non ho mai subito un’umiliazione più forte.
Leggo e rileggo le pagine che mi riguardano: vorrei poter parlare subito con qualcuno. Non solo non ho fatto ciò che mi si contesta. La questione vera è che quello non sono io. D’altronde, non potrei essere io e non vedo l’ora di poterlo dimostrare.
Ma il tempo dietro le sbarre scorre con ritmi che sono solo suoi: chissà quando potrò farlo. Qua sono soltanto un numero di matricola, che è già stato inventariato. Per tutto il personale del carcere sono già colpevole. Lo capisco da come mi guardano e da come mi si rivolgono.
Devo essere forte, ma il pensiero dei miei cari mi sovrasta, mi annienta. Sono sotto il peso di un dominio assoluto e mi sento inerme, umiliato, atterrito. So che ne uscirò pulito, ma so anche che porterò per sempre sulla mia pelle le stimmate dell’ignominia.

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Pieno di pensieri spezzati

Circa sei mesi fa avevo appuntato sopra un foglio un elenco di “cose da fare”. Senza fretta. Ogni azione da compiere mi avrebbe “chiamato” quando sarebbe arrivato il momento. Al primo punto avevo annotato “aspettare il tramonto sulla spiaggia di Favazzina”.
Ed eccomi qua. Eccoci qua. Come tante altre volte. Noi due da soli. Tu con il tuo sussurrare di onde ed io con i miei silenzi: “pieno di pensieri spezzati”, mi ha suggerito Johnny Cash cantandomi “Hurt” proprio mentre parcheggiavo l’auto.
Il tramonto sembra quello di molte sere dilatate nella speranza, lo stesso atteso in un lontano settembre insieme agli immaginari “pellesquadre” di D’Arrigo, mentre il sole rosseggiava sulla cicatrice che salda cielo e acqua “dentro, più dentro dove il mare è mare”: dove ’Ndria Cambrìa trova la morte.
Favazzina, il mio posto delle fragole, oggi è una spiaggia ferita. Il mio angolo non c’è più, distrutto dalle mareggiate dell’inverno scorso. Forse aveva ragione Enzo Biagi quando ricordava che non bisognerebbe tornare nei posti dove si è stati felici.
Le onde hanno portato via tutto, anche i ricordi e gli spruzzi d’acqua e le pallonate. La caccia alle patelle, i ragazzi sulle spalle di altri ragazzi, il bimbo scivolato da uno scoglio e salvato da suo padre.
Come un acrobata in bilico sul filo della malinconia, i pensieri seguono lenti il sole che si intasca nell’orizzonte, con un tuffo muto.

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Dalla parte dei relitti

Mi sono iscritto a “Nessuno tocchi Caino – Spes contra Spem”, l’associazione fondata nel 1993 dal Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito che ha come obiettivo principale “l’abolizione della pena di morte, della pena fino alla morte e della morte per pena” e che “realizza progetti nell’ambito della cooperazione allo sviluppo, particolarmente inteso come sviluppo di istituzioni e regole democratiche, affermazione e promozione dei diritti umani”.
“Nessuno tocchi Caino” non vuol dire stare dalla parte dei delinquenti, bensì dalla parte della giustizia e dell’umanità, in un’epoca di imbarbarimento sociale, di chiavi della galera che si vorrebbero buttare, di detenuti per i quali l’unica prospettiva auspicabile, secondo la vulgata giustizialista e populista, dovrebbe essere quella di marcire in galera. Per questo NTC propugna l’abolizione dell’ergastolo, definito da Papa Francesco come una pena di morte “nascosta”.
“Spes contra spem”: sperare contro ogni speranza, come Abramo che “ebbe fede sperando contro ogni speranza”. Sperare nella possibilità di un cambiamento e di una riconversione, attraverso la costituzione di laboratori nelle carceri, per realizzare il dettato costituzionale secondo il quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Nei giorni scorsi ho letto un saggio di Stefano Natoli, giornalista, volontario nelle carceri milanesi e membro di NTC: “Dei relitti e delle pene. Giustizia, Giustizialismo, Giustiziati. La questione carceraria fra indifferenza e disinformazione” (Rubbettino 2020; con prefazione di Giuliano Pisapia).
Un libro illuminante sulla questione carceraria, della quale l’opinione pubblica sa poco, a meno che qualche rivolta non attiri l’attenzione dei media. Non conosce niente del sovraffollamento, dei suicidi e dei tentativi di suicidio, dell’umiliante disumanità della detenzione, dei diritti negati. Non sa che sono chimere principi quali rieducazione, reinserimento, trattamento umano. Né sa che la Corte europea dei diritti dell’uomo in più occasioni ha condannato l’Italia per trattamenti “disumani e degradanti”.
I penitenziari (“il cimitero dei vivi”, secondo la definizione di Filippo Turati) sono discariche sociali frutto di una visione carcero-centrica che considera “giuste” la sofferenza e l’eliminazione dei diritti della persona umana. Anche per chi in carcere non dovrebbe starci (detenuti sottoposti a carcerazione preventiva, condannati ingiustamente): «Dal 1992 al 2019 – ricorda Natoli citando Annalisa Cuzzocrea – si sono registrati oltre 27.000 casi di persone che finiscono in galera da innocenti» (con un costo per lo Stato, in risarcimenti, di oltre 700 milioni di euro, circa 29 milioni di euro all’anno).
Il carcere non dovrebbe essere soltanto un luogo di espiazione e una giustizia vendicativa non è giustizia. Difendere Caino non per “fare il tifo” per l’assassino, ma per superare una concezione tribale della giustizia attraverso la difesa del valore dell’essere umano e della sua dignità, sempre.

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Il servizio di Report sulle carceri italiane

La puntata di Report di ieri sera ha il merito di avere squarciato il velo dell’ipocrisia e dell’indifferenza sul tema della condizione delle carceri italiane. Vi consiglio di guardarla quest’ora di servizio giornalistico. Anche se non è tutto. Perché il carcere è repubblica a sé: molto poco di ciò che succede là dentro filtra all’esterno. Nessuno vede l’acqua marrone che sgorga da fetide docce comuni, né sente i miasmi della spazzatura sotto la finestra, assaltata da decine e decine di gabbiani stridenti. E se, ad esempio, per venti giorni presenti una domandina per potere telefonare a casa e non vieni autorizzato, devi stare zitto e subire. Mica c’è il protocollo che registra la domanda: il foglio può passare dalle tue mani al cestino della spazzatura; ed è come se non sia mai stata presentata. Non arrivano fuori dal carcere neanche le parole sghignazzate: «Hai lo stesso cognome di Padre Pio. Solo che lui faceva miracoli; mentre tu fai danni, altrimenti non saresti qua».
La questione carceraria è molto impopolare e di facile strumentalizzazione. Chi solleva il tema viene facilmente additato come “amico” dei criminali. Eppure il rispetto dei diritti umani altro non è che la difesa dello stato di diritto e della civiltà giuridica nata con l’illuminismo.
Il carcere è un luogo dove la dignità umana viene quotidianamente calpestata. Che tu sia colpevole o innocente, non fa differenza: dopo averne varcato il cancello, non sei più nessuno. Sei soltanto un delinquente uguale a tutti gli altri. La tua vita precedente viene cancellata. Se non ce la fai a sopportare il peso dell’angoscia personale e la pressione psicologica del regime carcerario, puoi sempre imbottirti di psicofarmaci o impiccarti.
Le vorrei conoscere le statistiche sul consumo di psicofarmaci nelle carceri. Quelle sui suicidi tra le sbarre sono invece note: 56 nel 2020. E se lo Stato si è sbagliato, pazienza. Tutte le guerre registrano “vittime collaterali”: bombardi un deposito di munizioni e muoiono anche gli inquilini di qualche palazzo vicino. Con la giustizia accade la stessa cosa, tanto c’è il risarcimento per ingiusta detenzione. Come se la serenità mentale e fisica si possa davvero misurare in soldi. Per la cronaca, gli ultimi dati disponibili per il 2019 assegnano alla provincia di Reggio Calabria la spesa più alta per risarcimenti: quasi 10 milioni di euro per 120 casi accertati.
Nel 2020 ho capito tre cose. La prima: il carcere serve per nascondere sotto il tappeto la polvere del fallimento dello Stato, delle sue politiche scolastiche, educative ed occupazionali. La seconda: la funzione rieducativa della pena esiste soltanto sulla carta, all’articolo 27 della Costituzione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Piccolo paradosso: per i detenuti giudicabili va peggio che per i condannati in via definitiva. La terza: chi è colpevole, dopo avere scontato la pena probabilmente uscirà dal carcere ancora più delinquente; chi sconta una pena da innocente, di certo – se non comincerà a delinquere – vedrà nello Stato un nemico.

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Renzi il ganassa

Nel mio piccolo ho avversato Renzi quando guidava un partito che aveva il 40%, era il Re Mida della politica italiana e il popolo gli sbavava dietro. Non era facile essere minoranza nel Partito Democratico e qualche prezzo, per questo, l’ho pure pagato.
D’altronde la storia italiana insegna che sotto il balcone del potente di turno si raduna la stessa folla osannante che poi piscerà sul cadavere di colui che fu uomo della provvidenza: più che altro per emendare le proprie colpe.
Non ho mai creduto alla contrapposizione tra una società civile buona e una classe politica cattiva. I politici ipocriti, opportunisti e voltagabbana sono espressione del popolo che li sceglie. Pertanto non credo alla genuinità della marea di indignazione che sale e sorrido ascoltando il grido “dagli all’untore”.
Non sono Montanelli, che sosteneva di stare dalla parte delle streghe quando si accendevano i roghi. Tuttavia, perché questo stupore e questa indignazione? Renzi fa il Renzi: non è che sia diventato un ganassa oggi. Era un bulletto quando aveva l’Italia ai suoi piedi e tale è rimasto ora che guida un partito che in caso di elezioni non entrerebbe neanche in Parlamento. Incoerente, cinico, dotato di un ego smisurato. Destrutturato, privo di alcuna idea forte, gommoso come la plastilina. Oggi si professa addirittura garantista, dopo avere alimentato la gogna mediatica contro Marino e proposto a ministro il campione nazionale del giustizialismo.
Renzi è l’emblema della politica ridotta a lotta di potere, a scontro personale, a mortificazione dell’interesse generale. Il potere per il potere: quindi può essere (come è già stato) tutto e il contrario di tutto. Come l’altro Matteo, come Di Maio, come la corte di nani che da qualche decennio occupa la scena politica italiana.
Verrebbe davvero voglia di andare ad elezioni, pur di toglierlo dai piedi. Ma non accadrà, non ora. Ne è consapevole lo stesso Renzi, che altrimenti non farebbe la voce grossa, né correrebbe il rischio di scomparire a causa della sua invidia penis.

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Le palline di carta

Dei miei anni alle scuole elementari ricordo con tenerezza una circostanza che si ripeteva ogni mattina. La classe disposta su due file all’ingresso, i bambini in coppia pronti a recarsi in aula. Se chiudo gli occhi sento ancora la mano calda e sudata di Nino, con il suo caschetto biondo, il grembiulino e il fiocco a pois blu. Quel tenersi stretti per mano faceva parte della complessa crescita di due bambini che si affacciavano alla vita.
La scuola non è soltanto didattica, lo sappiamo tutti che è molto altro. Facevo questa riflessione stamattina, quando per pochi minuti mi sono ritrovato a sbirciare mio nipote, che frequenta la terza elementare, impegnato nelle sue lezioni al computer. Ho provato ammirazione per la fatica che costa agli insegnanti e agli alunni.
Non è facile controllare una classe da dietro un monitor, tenere alta la concentrazione dei bambini, non farsi prendere dallo sconforto e continuare, nonostante tutto, nella magnifica missione educativa e formativa di generazioni che dovranno affrontare un mondo oggi rarefatto, avvolto dall’angoscia e dal mistero.
Ho provato malinconia per mio nipote e per tutti gli altri bambini che immagino seduti al tavolino, da soli. Per loro, che stanno crescendo senza avere contatti fuori dalle mura domestiche e che hanno poche occasioni di interazione: e che si vedono così precluso un aspetto importantissimo di crescita individuale. Perché gli altri ci sono, esistono e da grandi – in qualche modo – bisognerà farci i conti.
Chissà quanto durerà questo vivere a metà: senza potersi lanciare una pallina di carta da un banco all’altro, senza poter condividere con il compagno la merenda, senza poterci litigare. Senza crescere esercitando nella vita di tutti i giorni la dimensione interpersonale. Di meno alle elementari, di più alle superiori, a quanto pare. Bambini e adolescenti sono le “vittime” silenziose della pandemia e, più o meno consciamente, lo sanno anche loro. Infatti preferirebbero le lezioni in presenza.
Ma le polemiche sulla scuola appaiono antipatiche, irrispettose e surreali. Inoltre, non aiutano: mentre ci sarebbe un grande bisogno di aiuto, di collaborazione e di responsabilità tra istituzioni, scuole e genitori per limitare al massimo i danni di un’attività che – oggettivamente – si scontra con mille difficoltà. Meglio non caricarci sopra anche le ubbie di un mondo ideale lontanissimo dalla realtà. Nella speranza di vedere nuovamente volare, presto, le palline di carta appallottolata.

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Domenico Antonio Tripodi e Dante Alighieri

Monte Purgatorio

Cosa lega Dante Alighieri a Sant’Eufemia d’Aspromonte? Posta così, la domanda potrebbe sembrare bizzarra. Eppure la relazione esiste, grazie al genio di Domenico Antonio Tripodi, noto come “L’Aspromontano”, che dal 1995 risiede a Roma, dopo avere vissuto in Toscana e a Corbetta (Milano). Il pittore eufemiese, celebre per il suo dipinto “Il filosofo”, finito anche in un volume della Storia della filosofia e delle religioni – Enciclopedia Tutto sapere (Edizioni Paoline-Saie), ogni estate fa ritorno nell’abitazione di via Nucarabella, dove è nato novant’anni fa. La sua lunga carriera artistica, che gli è valsa riconoscimenti e premi in tutto il mondo, si è sviluppata nei tre cicli del mito e dell’umanesimo, della tematica “ecologica” e, infine, della stagione dantesca. Della “riscoperta” di Dante, prima ancora che si avviassero i preparativi per i 700 anni dalla morte del Sommo Poeta (1321), Tripodi è stato un precursore, visto che all’interpretazione pittorica della Divina Commedia ha dedicato quasi trent’anni di ricerche, studi e sperimentazioni. Il risultato di quest’attività indefessa è un ciclo pittorico monumentale, che si compone di 150 opere tra disegni e pitture e che sono già noti sia in Italia che all’estero: memorabile la presentazione del 2005 presso la biblioteca centrale di Mosca.
Il paragone con gli artisti che nel tempo hanno dato forma alle terzine della Divina Commedia viene quasi naturale. La critica però concorda nell’escludere per Tripodi la qualifica “riduttiva” di illustratore: le sue opere non illustrano, bensì interpretano il pensiero di Dante. Ne è convinto, ad esempio, lo storico e critico dell’arte Claudio Strinati, dal 1991 a 2009 soprintendente per il Polo museale romano: «Nella lunga e complessa vicenda delle letture figurative di Dante, Tripodi ha saputo iscriversi da par suo, con una personalità spiccata e originale. […] Il pittore scende, in effetti, alle radici stesse dell’opera dantesca e ne rintraccia l’immane dottrina e la profonda e autentica spiritualità. Quel singolare equilibrio tra immediatezza e meditazione che caratterizza così bene la poetica dantesca, si rintraccia bene nella impostazione figurativa di Tripodi. A lui mai si potrebbe attribuire la qualifica di illustratore. Egli non illustra, infatti, ma rivive la vicenda dantesca, e la sua pittura è un bell’esempio di vicinanza tra nobili spiriti che pensano la stessa cosa in modi diversi e ritrovano una sintonia profonda a distanza di secoli».

L’indovino Tiresia
La fine di Ulisse
Minosse
La città dolente

*Le immagini dei quadri sono tratte dal Catalogo: Domenico Antonio Tripodi, Il colore nella Divina Commedia (2018).

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Il terremoto del 28 dicembre 1908 nella testimonianza del medico Bruno Gioffrè

Chiesa di Sant’Eufemia V.M.

Alle prime ore del 28 dicembre 1908 Sant’Eufemia fu squassata da un terremoto di magnitudo 7,5: la scossa tellurica durò 46 lunghissimi secondi e, abbattendosi su abitazioni già colpite nel 1894, nel 1905 e nel 1907, causò una tragedia di enormi proporzioni. Il numero delle vittime non è mai stato accertato con esattezza, poiché sono discordanti le testimonianze dirette e i dati riportati dagli storici. Furono circa 700 per la giunta comunale, che il 14 ottobre 1911 inviò al governo il documento “Per la riedificazione di Sant’Eufemia d’Aspromonte”. Secondo altre fonti, i morti potrebbero essere stati molti di più, un migliaio o anche oltre. L’elenco stilato dall’arciprete Luigi Bagnato, a sette mesi dalla tragedia, riporta invece i nominativi di 530 vittime, un dato molto vicino a quello di 537 fornito da Vincenzo Tripodi nella sua “Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte”. I feriti furono più di duemila, il patrimonio edilizio perduto pari all’85%: le abitazioni crollate e quelle demolite in un secondo momento furono complessivamente 1.100; un centinaio quelle parzialmente distrutte.

Il medico condotto Bruno Gioffrè in una foto del 1906

Drammatica la testimonianza del medico condotto Bruno Gioffrè (1865-1931), riportata nel suo “Quarant’anni in condotta” (pp. 89-93): «Come trascorsi la nefasta giornata io non so dirlo. Quanti feriti soccorsi, e quali? E di quante sciagure fui spettatore? Non ne ho chiara memoria. Solo ricordo che vestito sommariamente, con camicia da notte, senza cappello, digiuno, vagai fino alla sera, tornando inebetito al lume di una lucerna all’antro ospitale che trovai pieno di rifugiati avviliti e taciturni. […] E si taceva tutti, mentre per l’aria gelida ed umida giungevano urli e sospiri e la terra era tutto un fremito per le scosse che si susseguivano senza tregua. Mi si apprestò un giaciglio con qualche straccio a terra, e nella quasi oscurità passarono non so quante ore. Ma più alte grida ci scossero. Uscimmo dalla baracca e vedemmo non lungi colonne di fiamme che rompevano la notte. Più case ardevano, sotto una delle quali era seppellita tutta una famiglia e sotto un’altra una vecchia signora inferma che avevo curato in quei giorni. Terrore e strazio! Così passò la spaventevole notte. E venne l’alba, funebre anch’essa, ed io ripresi il mio triste lavoro. […] Il più esasperato sconforto invase gli animi. Alcuni dei migliori cittadini si spinsero fino a Palmi, capoluogo del circondario, e informarono le poche autorità superstiti della immensa sciagura del paese […]. Ma nulla giunse nei quattro giorni finali dell’anno sciagurato: non un pane, non un farmaco. Solo il primo gennaio del 1909, Capodanno tristissimo, si vide la prima faccia umana, e fu il Vescovo della Diocesi, Monsignor Morabito, con un carro di viveri e con parole di soave conforto».

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Il mio 2020 in otto L

LIBRI – Libri letti. Devo ad André Malraux, tratta da “La condizione umana”, la più efficace definizione di prigione: «il luogo in cui si arresta il tempo che altrove continua». Giorni sempre uguali a sé stessi, ripetitivi e interminabili. I libri sono distrazione e allenamento: ho avuto come coach Borges, Voltaire, Tabucchi, Carlo Levi, Vittorini, Sciascia, Sofri, Balestrini, Consolo, Bufalino, Hosseini e tanti altri. Libri da scrivere. Come quello interrotto il 25 febbraio, ora ripreso e quasi completato.
LASAGNE – Ricky Albertosi dichiarò di avere mangiato in cella i bucatini all’amatriciana più buoni della sua vita, probabilmente esagerando per non uscire dal suo ruolo di guascone. Io ho invece provato tanta tenerezza nel vedere l’impegno e la pazienza di chi cucina le lasagne, così come la pizza, le torte e tutto ciò che va cotto al forno… senza avere il forno, sopra un fornellino da campeggio. Lasagne che si condividono: un modo per farle viaggiare da un lato all’altro della sezione si trova sempre, se necessario anche con il metodo della canna da pesca.
LUNA – «Nei mari della luna i tuffi non si fanno»: a volte è grandissima e ti ci vorresti tuffare lo stesso, a dispetto dei Mercanti di Liquore. Ma nelle notti infinite è un puntino che forse ti guarda, forse no. Sta là, tutta compresa dentro un quadratino della rete della finestra. Stretta, stretta, come noi in sei passi avanti e sei indietro. Il blindo è un coperchio di bara fino al mattino successivo. A fendere la notte, la luce della torcia come un lampo o l’interruttore carogna, mentre dormi.
LOTTA – Lotta impari, contro un “dominio assoluto” che incredibilmente ha la faccia dello Stato. Lotta per avere riconosciuto anche il diritto di telefonare, quando ti viene negato con pretesti assurdi. Mentre le domandine vengono ignorate, oppure non si trovano e ogni giorno bisogna ripresentarle. Si aspetta, si aspetta, in una realtà nella quale nessuno è responsabile e tutti “eseguono degli ordini”. Eppure non si arretra, anche a costo di una punizione, per non perdere l’ultimo briciolo di dignità.
LUCE E LUTTO – Tra i libri letti, ho molto apprezzato “La luce e il lutto” di Gesualdo Bufalino, il cui intento è proporre emozioni, più che esporre ragioni: «Lusingandomi – precisa – che quelle sappiano non meno di queste spiegarci agli altri e, prima che agli altri, a noi stessi». A pagina 124 ho cerchiato di rosso una frase, definitiva: «Qualunque violenza inflitta a un innocente in nome d’un interesse o principio o puntiglio (uno dei tanti che volubilmente di secolo in secolo appassionano i potenti) è altrettanto empia che inutile».
LENZUOLO – Il rumore della battitura mette i brividi. Sgabelli, brande e pentole contro finestre e cancelli. Le voci sono una babilonia di rabbia: «Vergogna! Vergogna!». Vergogna per un suicidio annunciato, già tentato qualche giorno prima. Il lenzuolo come un cappio, annodato alle sbarre della finestra. Finalmente libero. Non è il primo e non sarà l’ultimo, tra questa umanità dannata, stordita da un consumo spropositato e incontrollato di psicofarmaci, purché sia sonno.
LIBERTÀ – La libertà violentata nel cuore della notte ha la voce sorda di colpi violenti sulla porta, come tonfi nell’anima. I polsi fanno male, ma non quanto gli scatti delle macchine fotografiche, schierate come un plotone d’esecuzione che mitraglia contro la scalinata della questura. Non c’era nessuno sette mesi dopo, quando le porte si sono aperte. Nessuno a fotografare la valigetta di plastica e la borsa con cerniera a quadretti rossi e neri. Nessuno nel chilometro di strada percorso a piedi come un profugo, fino al bar più vicino.
LETTERE – Lettere ricevute e lettere scritte, tantissime e provvidenziali: pacca sulle spalle e terapia. Per volare con il pensiero oltre il filo spinato. Per ingannare la routine concentrazionaria che mina quotidianamente la dignità di un detenuto attraverso il controllo del suo corpo. Per continuare a vivere, con la speranza che pulsa dentro il petto all’avvicinarsi della guardia. Per trovare nella solidarietà altrui la conferma alle parole di Camus: «Nella profondità dell’inverno, ho imparato alla fine che dentro di me c’è un’estate invincibile». La verità è un’estate invincibile.

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