Avrei voluto osservarti da vicino, starti accanto, in quella foto del 1925 che sembra una premonizione. Ci sono tuo padre, sopravvissuto alla carneficina del Carso nel ’15-’18, tua madre, le tue due sorelle, tuo fratello e, dietro di te, tua zia con la destra appoggiata alla tua spalla. Come un’investitura per te che, con i tuoi undici anni e con quegli occhi neri arrivati fino a me, gli accidenti della vita non potevi nemmeno immaginarli. Lei morta di parto, tu madre dei suoi figli a diciannove anni, più tardi sposa di suo marito.
Uno scampolo di stoffa diviso per tre rendeva le bambine uguali, un po’ impaurite o forse soltanto stupite dal magnesio della macchina fotografica che scattò l’unica immagine che ritrae tutta la tua famiglia.
Avrei voluto essere con te tra i banchi della scuola elementare, che sei riuscita a completare in un’epoca di analfabetismo dilagante, che non contemplava l’istruzione dei figli tra le priorità dei genitori. Guardarti mentre leggevi le lettere che parenti e amici ricevevano dai congiunti emigrati, osservarti china sul foglio quando eri la penna che portava lontano i racconti delle vite di qua. O con in mano la siringa di vetro, fatta sterilizzare nell’acqua bollente del suo contenitore in acciaio, prima di una puntura a grandi e piccoli della “rruga”.
Con te, mentre raccoglievi le olive o quando davi una mano nelle terre a “Crasta”, quando attendevi il ritorno di tuo marito dall’Aspromonte, una volta che aveva finito di sorvegliare la carbonaia. Un legno ruvido che la guerra nel Nordafrica e le mani callose avevano portato al comunismo e all’utopia di un mondo più giusto, dignitoso per gli ultimi della terra. Sul comodino, i ritratti severi di Stalin e Togliatti, ai quali contrapponevi rosario e libro delle preghiere, in una sorta di esorcizzazione domestica. Con te, quando mensilmente facevi il pane nel forno della “capurala” e poi lo sistemavi nella “cascia”.
Quella stessa cassapanca contiene oggi il poco che abbiamo potuto conservare della tua casa, della tua vita. Che era concentrata in due stanze, il gabinetto, il cucinotto con il fornello a tre fuochi e un piccolo giardino sul retro, pochi metri quadrati con piante e fiori di ogni specie. E poi, due figli da allevare, arrivati ad un’età per quei tempi avanzata: la piccola di casa da coccolare con la tazza di latte e le fette di pane portate nel letto. Sotto le lenzuola, per riscaldarle i piedi, un mattone tirato fuori dal braciere e, in caso di mal di gola, un calzino riempito con cenere viva da tenere arrotolato al collo come fosse una sciarpa.
C’ero, però, quando hai trasferito sui tuoi nipoti premura e generosità. Le ricorrenze segnate su un quaderno, da onorare estraendo per loro dal porta zecchini nero le banconote arrotolate a sigaretta. L’uscio sempre spalancato per i bambini che dal cortile si fiondavano dentro accaldati e sporchi. La merenda con pane, sale e olio. L’orzata, dolcissima, nel bicchiere che portava stampate sul vetro macchinine d’epoca. I gelati dal “grugno” o dalla “rofalazza”, annotati sulla “libretta” per quando saresti passata tu a saldare i conti. Ero rapito dalla treccia lunghissima che tenevi arrotolata sulla testa, fissata con tanti ferretti. Una corona nascosta sotto il foulard che, dopo la morte del nonno, restò per sempre nero.
E c’ero quando ormai non c’eri più, nuovamente bambina nel letto dei tuoi ultimi anni. Quando parlavi con persone che soltanto tu riuscivi a vedere. Quando chiamavi mamma tua figlia. Quando strapazzavi il bordo della maglia, nel tentativo di srotolare una veste immaginaria. Chissà, forse proprio quella dei tuoi undici anni.
Totò-Gol
Tutto in una estate. L’estate del sogno infinito, del cuore in gola, delle sfilate per le strade del paese al suono assordante dei clacson. “Negli occhi tuoi voglia di vincere”, urlavano Edoardo Bennato e Gianna Nannini, come se avessero saputo in anticipo che due occhi spalancati avrebbero fatto innamorare l’Italia intera.
Totò Schillaci è stato tutto ciò che noi ragazzi avremmo voluto essere. Uno che si era fatto largo con la forza della volontà. Un potenziale delinquente che il calcio aveva tirato fuori dai pericoli della strada, a conferma della potenza salvifica dello sport.
Un mese per entrare nella storia come una rasoiata. Come un guizzo dei suoi, rapidissimo. Il difensore si distrae un attimo e Totò-Gol, in qualche modo, la butta dentro: di testa, di piede, di spalla, di stinco. Alla Inzaghi, se non fosse che Superpippo sarebbe arrivato qualche anno dopo.
Le notti magiche di Schillaci sono una felicità bruciante, uno stato di grazia irripetibile: “l’istante in cui scocca l’unica freccia/ che arriva alla volta celeste/ e trafigge le stelle”, come nella canzone di Ivano Fossati.
Nell’estate del 1990 due ragazzi piangono sul tetto del bar mentre staccano da un palo la bandiera dell’Italia, dopo la sconfitta ai rigori nella semifinale contro l’Argentina. Il calcio era tutta la loro vita, consumata su campi terrosi, nelle piazze, nelle strade, in pineta, ovunque si potessero immaginare due porte e correre dietro ad un pallone fino a quando non faceva buio.
Totò Schillaci è nostalgia per un tempo in cui tutto sembrava possibile, prima che la gioventù svanisse in un battito di ciglia.
Settembre
«Settembre, andiamo. È tempo di migrare». Come i pastori di D’Annunzio, transumanti dalla montagna alla pianura, si parte. Da Sud a Nord. Chissà se è più amara la malinconia di chi va via o se lo sconforto opprime maggiormente chi resta. Se si riesce ancora a provare tristezza. Se ormai non sia soltanto rassegnazione. Nel 2023 la Calabria ha guadagnato il terzo gradino del podio nella speciale classifica delle regioni con la maggiore riduzione dei residenti (1.838.000, -4.6 per mille rispetto al 2022), dietro Sardegna e Basilicata. Dati ufficiali, che non tengono conto delle decine di migliaia di fuorisede, lavoratori o studenti che siano. Giovani che “magari tra qualche anno torno” e mantengono per questo la residenza nei comuni di origine.
Sempre più laureati e diplomati, ad arricchire di professionalità altre regioni e ad impoverire una terra disgraziata. Destinata allo spopolamento, costretta a subire politiche economiche sciagurate e responsabili del mantenimento di un’atavica condizione di inferiorità, che favorisce l’espulsione dei giovani. Non un grande novità, a leggere da Sud la storia d’Italia dall’Unità ad oggi.
Siamo passati dai viaggi in terza classe all’aereo, ma che abbiamo fatto la rivoluzione emigrando, diciamocelo: è una gran truffa. Abbiamo fatto e continuiamo a fare scelte legittime, per molti obbligate, ma dall’incidenza esclusivamente individuale, che nulla spostano sul piano generale.
Briganti o migranti, è stato sentenziato. E tali siamo rimasti. Bestie da fatica nel secolo scorso, professionisti qualificati nel nuovo millennio. Comunque banditi, nell’accezione pasoliniana del termine: banditi da una società che sta dalla parte dei potenti e degli ascari meridionali, servi o utili idioti dello status quo.
Non ci sono più lacrime, non c’è più rabbia. Forse è questo ciò che fa più male. Assuefatti ai treni pieni e alle colonne interminabili di automobili sull’autostrada, ci consoliamo con i logori cliché sui tramonti, la natura e le delizie culinarie dei nostri borghi. Come se davvero fosse possibile nascondere lo sradicamento e la soppressione di culture millenarie, sacrificate sull’altare di una omologazione feroce e cinica.
Il disincanto ci rende muti: incapaci di parlare tra di noi, a noi, continuiamo ad eludere il monito di Franco Costabile sulla necessità di “ragionare davvero con calma/ da soli/ senza raccontarci fantasie/ sulle nostre contrade”. Da questa incomunicabilità ha origine la frattura nella connessione con lo spirito dei luoghi, il loro abbandono esistenziale prima che fisico.
Settembre è nostalgia lacerante. Qualcosa finisce, qualcosa (forse) inizierà. In sottofondo, la triste melodia di ciò che era e più non sarà.
La colonia estiva dell’Agape 2024
Si è conclusa nel cortile della Scuola dell’infanzia paritaria “Padre Annibale Maria di Francia” l’edizione 2024 della colonia estiva dell’Agape. Una serata di canti, balli, giochi, rustici, dolci e tanti, tanti sorrisi. Il magone alla fine resta sempre, ma anche la determinazione nel darsi tutti appuntamento alla prossima estate.
Quest’anno è stata dura, inutile nasconderlo. Ma forse proprio per questo è stato più bello riuscirci ancora, perché la forza di volontà davvero è capace di smuovere le montagne. Abbiamo fatto del nostro meglio, siamo stati ripagati dalla felicità dei ragazzi. Questo conta.
C. con le sue mille domande, R. che barcolla ma non crolla, G. che aspetta in piedi dietro la porta l’arrivo del furgone, anche quest’anno generosamente messo a disposizione dalla “Annibale Maria di Francia”. T. lo “sdraiatore”, improvvisatosi anche venditore ambulante, per la gioia di tutti. N. che ha provato senza braccioli né ciambella: «Tienimi stretto». Certo che ti teniamo stretto, basta il tuo “ciauwu” ad aprire il cuore. Bastano i tuoi occhi, quando ti abbiamo detto che era l’ultimo giorno di mare.
E poi l’esordio della sedia job ricevuta in dono, a conferma di quanto importante sia il contributo della comunità e dei privati che da sempre sostengono questa iniziativa, in silenzio o partecipando al veglione di fine anno, che di fatto finanzia la colonia. Ancora una volta a Bagnara, quest’anno in due tempi: fine luglio e fine agosto, per riuscire in qualche modo a completare due settimane.
Quest’anno siamo stati in pochi, troppo pochi, anche se tre nuove volontarie hanno avuto modo di provare questa esperienza. Ma non si può fare volontariato, così come partecipare alle attività di qualsiasi associazione, se non si è disposti a rinunciare a qualcosa. Non si tratta di coprire un buco nelle proprie vite, quanto di aggiungere qualcosa che le arricchisca di senso.
Esistono sempre validi motivi che portano altrove: impegni di lavoro e di famiglia, difficoltà ad incastrare giorni ed ore. Ma ne esiste sempre almeno uno in più per non tirarsi indietro, per esserci. E per rispondere al dolore recente degli addii di Cosimo e Angela con l’allegria di questi giorni, che a loro dedichiamo.
Una giustizia disumana non è giustizia
Bastassero l’indignazione e la rabbia. L’indignazione per i 165 morti in carcere, dal primo gennaio ad oggi, in un Paese sedicente civile, vigliacco di fronte all’emergenza drammatica che si vive quotidianamente nei penitenziari italiani. Dove, secondo i dati di “Ristretti Orizzonti”, nel 2024 sono già 67 i detenuti che si sono tolti la vita (due in meno rispetto a tutto il 2023), mentre altri 98 sono deceduti per “altre cause” (ben oltre i morti registrati nell’intero anno passato). La rabbia nei confronti di una classe politica imbelle, a destra come a sinistra pronta a strumentalizzare fatti e persone per puro calcolo politico, a seconda che si trovi al governo o all’opposizione. Perché il dato incontrovertibile è che nessuno ha mai fatto niente per porre fine alla sistematica violazione dei diritti umani che si verifica nelle carceri italiane, certificata da un sovraffollamento medio del 130% e dall’insufficienza cronica di personale penitenziario e sanitario. Lo stiamo vedendo in questi giorni: ogni ipotesi deflattiva, anche di infima entità, diventa una “svuota-carceri”.
«Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo», stabilisce l’articolo 40 del codice penale, richiamato da “Nessuno tocchi Caino” nella denuncia-esposto-provocazione contro il ministro della Giustizia Nordio e i sottosegretari Delmastro Delle Vedove e Ostellari, le figure istituzionali sulle quali ricade la responsabilità della custodia dei soggetti ristretti in carcere.
Gonfiamo il petto per “la Costituzione più bella del mondo” e non siamo capaci di difenderla da chi la calpesta, nonostante dovrebbe rappresentarne spirito e applicazione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità». Umanizzazione delle pene, lo suggerisce la parola stessa, significa considerare il detenuto una persona, non un anonimo numero di matricola. Si dimentica o non si vuole comprendere che in carcere entra l’uomo, non ciò che di illecito ha commesso. Il reato resta fuori dalla recinzione, a nutrire l’autocompiacimento dei legni dritti. Chi non è mai entrato in un carcere non ha idea di quante vite un “delinquente” possa salvare, con un gesto o con una parola.
“Le” pene (non “la” pena), afferma la Costituzione. Che non dovrebbero pertanto consistere esclusivamente nella reclusione in carcere. Che potrebbero essere altro. Che sarebbe meglio fossero altro, come anche le statistiche sulle recidive suggeriscono. Misure diverse non vuol dire “tutti liberi”, né che chi sbaglia non debba pagare. Se la finalità delle pene è tutelare la sicurezza pubblica evitando il reiterarsi di comportamenti contrari alla legge, esistono oggi strumenti di controllo efficacissimi, che non richiedono necessariamente la detenzione carceraria.
Manca il coraggio per riuscire a superare la visione carcerocentrica dell’esecuzione penale. Stare dalla parte dei reietti non porta voti. Mentre si propone di costruire più strutture penitenziarie (tra due, tre anni), di carcere si muore. L’ingiustizia di una giustizia disumana è in questi numeri drammatici e nella responsabilità di chi consente afflizioni gratuite, inutili, ignobili.
La serata commemorativa in onore di Carmelo Tripodi
L’omaggio a Carmelo Tripodi, nel centocinquantesimo anniversario della nascita, è stata l’occasione per ripercorrere la storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte tra il XIX e il XX secolo. Una comunità semplice, in prevalenza composta da contadini, braccianti agricoli e pastori, pur con la presenza di un diffuso artigianato, i cui manufatti venivano venduti nei due mercati settimanali che si tenevano in piazza Purgatorio.
Quando nacque Tripodi (28 aprile 1874), Sant’Eufemia contava poco più di seimila abitanti, concentrati nel “Vecchio Abitato”, nel “Petto” e nelle campagne, prima che il terremoto del 1908 determinasse l’edificazione della vasta area denominata “Pezza Grande”. Le abitazioni erano prive di servizi e per l’approvvigionamento dell’acqua i cittadini si servivano delle fontane pubbliche e dei lavatoi, dove le massaie facevano il bucato. Di notte regnava il buio, tranne che nelle poche strade e piazze illuminate dai circa trenta lampioni ad olio che il “lampionaio” accendeva e spegneva aiutandosi con una lunga asta. Sindaco era Paolo Capoferro, cognato di quel Michele Fimmanò che dominò la scena politica e amministrativa del paese per quasi sessant’anni.
Sin da piccolo Tripodi si appassionò alla pittura e al disegno, grazie alla frequentazione della bottega d’arte di un artista locale, Giosuè Versace. Nel 1895 si iscrisse all’Accademia di Belle Arti di Messina, dove seguì gli insegnamenti di Francesco Paolo Michetti, prima di fare ritorno in paese per aprirvi uno studio di pittura, di scultura e, in seguito, di fotografia. Artista poliedrico, vincitore di premi nazionali e internazionali, il valore etico della sua attività emerge nei ritratti e nelle fotografie, in particolare negli scatti unici e straordinari che documentano il disastroso sisma del 1908.
Carmelita Tripodi, nel commentare con competenza tecnica le immagini montate da Carmela Cutrì, si è soffermata sul genio del nonno, mentre dietro al tavolo dei relatori scorrevano il “Galileo Galilei”, “Cristo sulle acque”, i ritratti di alcune donne e quello del padre, le pale di un altare, l’altare monumentale della chiesa di S. Maria delle Grazie, il disegno della vecchia “Via della Fontana” (oggi via Nucarabella) e quello della “Varia”.
Marzia Tripodi ha quindi ordinato con delicatezza da nipote ricordi e testimonianze toccanti, che hanno esaltato la cifra umana ed esistenziale del grande artista eufemiese.
Le musiche di Angela Luppino, che ha eseguito alcune arie di Puccini e Mascagni, hanno infine conferito alla serata un’atmosfera piacevole ed originale.
Omaggio a Carmelo Tripodi
Lunedì 5 agosto verrà ricordata la figura di un grande eufemiese, Carmelo Tripodi, nel centocinquantesimo anniversario della sua nascita. Pittore e scultore, le sue opere guadagnarono nel primo decennio del secolo scorso la ribalta nazionale e internazionale.
Tripodi fu artista dal “multiforme ingegno”, capace di spaziare anche nel campo della musica e, soprattutto, in quello della fotografia, che a cavallo del Novecento registrava uno sviluppo portentoso.
Ad oltre un secolo di distanza, straordinario è il valore storiografico delle fotografie che testimoniano la distruzione di Sant’Eufemia d’Aspromonte e la sofferenza della popolazione in occasione del terremoto del 1908.
L’omaggio a Tripodi avrà luogo in piazza “Giorgio La Pira”, a partire dalle ore 21.30. Un video, realizzato da Carmela Cutrì, ci farà toccare con mano la dimensione artistica di questo nostro illustre concittadino. Attorno alla sua proiezione, che sarà intervallata dal commento musicale curato da Angela Luppino, si svilupperà la conversazione con le nipoti Carmelita e Marzia Tripodi.
Le babbucce di Carminuzza
Sono nato in Australia nel mese di luglio, ed era inverno. Un inverno senza feste comandate, senza quei crudeli segnatempo carichi di malinconia per gli anni volati via, per volti e ricordi in dissolvenza. E sempre d’inverno sono arrivato, a quattro anni e mezzo, in questo paese che è diventato il mio guscio, alla vigilia di un ormai lontanissimo Natale. Non conoscevo nessuno, ma le rrughe di un tempo conoscevano i bambini prima ancora che nascessero. Così, le babbucce di lana lavorate ai ferri da Carminuzza hanno tenuto caldi i miei piedi, difendendoli dal freddo. C’era la neve: non l’avevo mai vista, né avevo mai sentito al tatto il suo gelo. Cominciai allora a sviluppare l’interesse per ciò che non conosco.
Oggi che porto sulle spalle il peso di parecchi anni in più, mi rassicura verificare intatta la curiosità di quel bambino. Lei muove tutto. Spinge a guardare dietro, oltre e in profondità. Raramente ciò che appare chiaro è verità: quando va bene è parte di una verità, che ha tante facce quante sono le angolazioni dalle quali si osservano fatti e persone. L’illusione di possederne una a portata di tasca è la presunzione di Icaro, con le sue ali di cera squagliate dal Sole.
La vita sa essere sorprendente, nel bene e nel male. È polvere e altare. La ricerca spasmodica della Felicità con la effe maiuscola crea insoddisfazione e incapacità di coglierne l’essenza, che è intrisa di normalità.
«Perché dovrebbe essere felice? Chi le ha detto che si viene al mondo per essere felici?», risponde il Cardinale al regista in crisi («Eminenza, io non sono felice»), in una celebre scena del film “8½” di Federico Fellini. Spesso siamo felici, ma non ce ne accorgiamo, salvo rimpiangere molto tempo dopo ciò che è stato, quando realizziamo di non averne saputo godere mentre la sua routine svanita si srotolava. Il paesaggio osservato sfrecciando a 180 all’ora non è uguale a quello che assaporiamo attraversandolo a piedi. La differenza sta nella fretta, nell’ansia di fare e di arrivare. Dove?
Tiziano Terzani ci ha insegnato che “contento” è un vocabolo molto più calzante di “felice”. Accontentarsi significa non sottomettersi ad un sistema che produce sempre nuovi desideri, per lo più inutili, che generano frustrazione e tristezza. È il legno al quale aggrapparsi per non affondare quando le onde incombono altissime e minacciose, pronte a travolgere tutto.
Non si può scappare dalla vita, bisogna viverla qui e ora. Inseguendo la propria serenità, cercando di rendersi utili per qualcosa o per qualcuno. Tenendo a mente – con Georges Clemenceau – che i cimiteri sono pieni di persone indispensabili. Ostinandosi ad abbracciare l’umanità delle strade storte, a trarre insegnamenti dal prossimo e da ciò che accade (perché desiderato o contro la propria volontà), dagli errori, dalla miriade degli impercettibili miracoli quotidiani.
Mantenendosi seri, senza prendersi troppo sul serio.
Quello che conta
Non credo che la felicità sia l’altra faccia del dolore, che gioia e sofferenza vadano intese in contrapposizione, né – tantomeno – che la vita possa considerarsi un gioco a somma zero, un flipper dalla pallina sballottata tra sentimenti così lontani. Talmente estremi da potersi toccare, piuttosto: una sorta di convivenza necessaria. Nonostante oggi si faccia molta fatica ad accettare ciò che genera malessere. Abbiamo confezionato un mondo perfetto e falso, e ci sguazziamo come pesci dentro l’acquario, senza neanche accorgerci di quanto le nostre menti siano offuscate dal bisogno di apparire uomini e donne felici, dalla vita piena e soddisfacente.
Da ciò che di noi facciamo vedere, celebriamo vite invidiabili. Sul posto di lavoro, in famiglia, nella società. Con la cannuccia del cocktail stretta tra i denti, spettatori di tramonti incantevoli o sotto un palco a cantare a squarciagola, passiamo da un successo all’altro. Una tensione spasmodica alla competizione e all’affermazione al fine di soddisfare l’urgenza di dimostrarci i migliori, dal momento che, nelle nostre ammirevoli esistenze, non può esserci spazio per la tristezza e per il fallimento.
Sappiamo che non è così. Ne siamo consapevoli, ma non lo accettiamo. Apparenza e reputazione sono il nuovo oppio dei popoli, una gabbia mentale dalla quale è difficile evadere. Ma lo iato fra realtà e aspettative produce frustrazione e rancore. Si fatica a valutare obiettivamente ciò che si muove attorno a noi, al di là di noi, perfino contro di noi che – chini su noi stessi – ci contempliamo l’ombelico, addirittura convinti di essere gli unici al mondo a possederne un esemplare così bello.
Andrebbe invece reclamato il diritto a non essere i migliori, a non soffrire ansie da prestazione. A rivendicare l’utilità della sconfitta nel percorso di crescita personale, la sua dignità e la grandezza morale dell’averci provato a trovare una strada. Che esiste, dietro una curva imprevista, nemmeno immaginata.
Vantiamo radici greche e dimentichiamo che gli eroi del mito sono dei perdenti: Achille, Ettore, Agamennone. Tutti mortali, tutti vinti. Angosciati e fragili.
Fragili come chi lotta ogni giorno per aggiungere tempo al proprio tempo. Eppure in grado di convivere con la sofferenza che accompagna il declino. Pronti ad amare e a sorridere, a gioire di ogni conquista in apparenza insignificante: riuscire a portare la forchetta alla bocca, muovere qualche passo, godere di un’ora d’aria, essere presenza per qualcun altro. Incantati dal prodigio di una vita ridotta alla sua essenza, che nel poco riesce ad ammirare il tutto. Capaci di bastarsi.
A Paolo
L’espressione del viso, impressa nella fotografia scattata cinquant’anni fa, conferma la frase vergata sul retro da mio padre: «I due disperati». Tre parole per esprimere con ironia l’affetto, l’amicizia, la condivisione di un riscatto cercato e trovato lontano dall’Italia, in quell’Australia che ha accolto e dato a molti italiani la possibilità di un futuro che non fosse miseria.
La notizia ci è arrivata addosso come una secchiata d’acqua gelida, nonostante il sospetto. I social sono uno strumento utile, ma in casi come questi crudele: è bastato ricordare i nomi dei figli e percorrere a ritroso la cronologia dei loro post per imbattersi in Paolo Rao sorridente accanto alla figlia Agata, a dispetto dell’annuncio della sua morte nel 2021. Da tempo non ricevevamo le sue periodiche telefonate, mentre i nostri tentativi si infrangevano contro il silenzio del suo cellulare. Lo sconvolgimento degli ultimi anni ci aveva impedito di andare più a fondo nella ricerca, ma ora, nonostante tutto, sarebbe stato il momento di una boccata d’ossigeno. Non è andata così ed è un dolore che punge, per quanto differito. Sono gli occhi di mio padre, che dicono tutto di quell’alchimia unica con Paolo e con mio zio Stefano, del vuoto lasciato da entrambi in sua assenza. L’ennesima ingiustizia.
Impetuosa è l’onda dei ricordi, che riaffiorano insieme al tono della voce di Paolo nell’imprecazione “maledetto vento!”, masticata mentre con la mano cercava di sistemarsi i capelli nel deserto australiano.
Si erano conosciuti da “Bendinelli & Carlini”, la ditta di un fiorentino e di un romano che pitturava le case a Melbourne e dintorni. Paolo di origini siciliane, mio padre dall’Aspromonte: entrambi con addosso il culto del lavoro che ha scritto le pagine più belle e dignitose dell’emigrazione italiana.
Tra le altre “imprese”, ricorreva spesso il ricordo del viaggio epico attraverso la “Nullarbor Plain”, oggi proposto nei pacchetti vacanze riservati ai turisti che amano l’avventura.
La notte di Natale del 1974 il Nord Territorio era stato devastato dal ciclone Tracy, le cui raffiche di vento raggiunsero i 240 km/h: l’80% della capitale Darwin (dove morirono 66 persone) fu distrutto, il 94% delle abitazioni dichiarato inabitabile, la stima dei danni ammontò a 837 milioni di dollari.
E a Darwin i due amici decisero di recarsi. A neanche trent’anni e con la storia che si erano lasciati alle spalle, i 9.000 km di strada da percorrere in macchina non erano fonte di apprensione.
Per ricostruire le città servivano muratori, carpentieri, idraulici, elettricisti e ovviamente imbianchini. Come loro due. Uno sguardo d’intesa e via, a bordo della possente Ford Falcon 500 di mio padre.
A Darwin non ci arrivarono. C’era da ricostruire anche a Port Hedland, in Australia Occidentale, raggiunta dopo i circa 7.000 km percorsi per tagliare da Est a Ovest e risalire a Nord. Quattro giorni a snocciolare il rosario delle città attraversate, una volta partiti da Melbourne: Adelaide, Ceduna, Norseman, Perth, Geraldton, Carnarvon, Broome. Sul tavolo, ora, tra le mie mani un cartello indica il 26° Parallelo, un altro segnala la linea del Tropico del Capricorno, Paolo pesca dalla battigia con una lenza i pesci per il sontuoso barbecue da consumare insieme agli altri operai, mio padre pennella dalla scala a forbice, entrambi sorridono con una birra in mano.
La pianura di Nullarbor si estende per oltre 1.200 km di deserto tra Ceduna a Norseman. La “Eyre Highway” che l’attraversa è una linea retta infinita e senza dislivello, dall’effetto ipnotizzante. Non essendo al tempo asfaltata, il passaggio delle auto sollevava un polverone di terra rossa e sottile capace di resistere per mesi anche ai lavaggi più accurati. Ogni 200 km circa, la presenza di una “Road House” dava la possibilità di fare rifornimento, mangiare e bere qualcosa.
A dispetto dell’etimologia (dal latino: “senza alberi”), puntini in lontananza indicavano la presenza di qualche acacia, dall’ombra delle quali potevano saltare fuori aborigeni in costume tradizionale e armati di lance, che andavano incontro all’auto con l’intento di piazzare strumenti musicali tribali (“didgeridoo”, “bullroarer”) e i “boomerang”, dopo una serie di lanci dimostrativi.
A Port Hedland soggiornarono in una roulotte per un mese e, alla fine del lavoro, rientrarono a Melbourne. Per la gioia dei bambini, anche se Fanny – nonostante i tentativi di corruzione con caramelle e cioccolatini – faticò a perdonare il capellone simpatico e pieno di vita che aveva avuto il torto di portare via suo zio.