Erano vestite tutte uguali le nostre nonne. La stoffa da tagliare e cucire arrivava dalle Americhe, spedita da parenti emigrati che non dimenticavano chi era rimasto in paese. Non sorridono Ciccia, Femia e Mica, in posa nell’unica fotografia dei primi anni Venti che le ritrae insieme ai genitori Rosa e Carmine, al piccolo di casa Ciccio e alla zia Francesca, sorella della madre. Il lampo al magnesio le disorienta.
Carmine e Rosa sono sopravvissuti al terremoto del 1908, così come Francesca, che vive con loro e che invece non supererà il secondo parto, a soli 29 anni.
Carmine è un reduce della Prima guerra mondiale, ma non sa che farsene dell’encomio solenne ricevuto per la ferita da shrapnel alla mano destra nella Seconda battaglia dell’Isonzo. A quel tempo aveva già una moglie e una figlia di un anno che lo attendevano a casa. Un contadino analfabeta dell’Aspromonte era già un eroe senza bisogno di lanciarsi contro le trincee austriache. Il suo orizzonte abbracciava la famiglia e il lavoro a giornata nei campi e nelle carbonaie; le terre irredente non sapeva neanche cosa fossero.
La primogenita Ciccia e la seconda figlia Mica portano i capelli con la riga di lato, Ciccio ha il caratteristico “cannolo” dei maschietti. Femia ha i capelli molto corti: forse ha preso i pidocchi, per cui si è resa necessaria una rasatura.
Francesca tiene una mano appoggiata sulla spalla di Ciccia. Quasi un presagio. Anni dopo sposa infatti Mico, lavoratore a giornata e carbonaio anche lui, dal quale ha due figli. Quando muore, un mese dopo la nascita di Ntoni, la nipote ha già 17 anni: tocca a Ciccia allevare la prole mentre i maschi della casa sono a lavoro. A quel punto, il matrimonio con lo zio di undici anni più grande diventa una conseguenza naturale, necessaria: amore o non amore, funziona così nelle famiglie strette dal bisogno. Senza troppe domande. Arrivano cinque figli, ma tre se li porta via il destino dopo pochi mesi di vita, negli anni a cavallo della Seconda guerra mondiale, vissuta da Mico in Libia.
Sono tempi in cui la morte si respira e in fondo si accetta. Le piccole bare portate sulla testa dalla “pulicia rizza” sono l’immagine frequente di un dolore silenzioso e rassegnato.
Anche Mica e Femia si sposano. Mica non si tira mai indietro quando c’è da lavorare. Vive in simbiosi con Diego le giornate pesanti nelle carbonaie fumanti e nei campi dell’Aspromonte, addolcite dopo il tramonto dal ritmo della tarantella; più tardi nel Nord-est della Francia, dove raccolgono barbabietole insieme ai figlioletti, curano le piantine in una serra, trovano impiego in una fabbrica che produce compensato, alloggiati accanto per mantenere accesa la caldaia giorno e notte.
Femia non emigra, il suo regno è a “Crasta”, dove con Nino lavora la terra per tutta la vita: senza un lamento, senza essere mai sfiorata dal pensiero che quella non sia una vita piena. Una concezione sacra del lavoro, che mette in pari perché la dignità ha la nobile ruvidezza dei calli delle proprie mani.
Ciccio segue le orme del padre e del cognato. Carbonaio pure lui, prima del trasferimento a Morlupo, dove con il padre e con il cognato trova impiego come operaio. Ma è solo una parentesi.
Carmine, nonostante i suoi quasi sessant’anni, decide di partire per l’Argentina. L’idea è quella di fare qualche soldo e poi farsi raggiungere dal resto della famiglia. Lo segue il figlio, quasi subito. La moglie invece si ammala di tracoma e perde la vista, per cui la commissione che valuta lo stato di salute degli emigranti la dichiara inabile.
Carmine muore a Buenos Aires qualche anno dopo. Del figlio, il cui matrimonio per procura con Peppina naufraga al momento del ricongiungimento in Argentina, giungono a casa sporadiche notizie finché la madre resta in vita, accudita da Ciccia. Poi più niente. Il filo si spezza e Ciccio scompare, inghiottito dalle fauci di qualche oscuro barrio.
Messaggi di “lingue tagliate”
Messaggi di “lingue tagliate” è il titolo di un articolo di Gesualdo Bufalino, confluito nel libro La luce e il lutto (Sellerio, 1996), che interpreta una singolare lettera datata 2 novembre 1973: un foglietto a righe, riempito di disegnini e spedito da una donna siciliana analfabeta al marito emigrato in Germania.
Nei paesini e nelle “rughe” era consuetudine rivolgersi a chi aveva un minimo di alfabetizzazione, per fare scrivere sotto dettatura le lettere da inviare ai parenti emigrati e per farsi leggere quelle ricevute. Si trattava di figure importanti, che svolgevano una funzione dal riconosciuto valore sociale. Alcuni lo facevano a pagamento, la maggior parte per amicizia e per quel senso di solidarietà molto sviluppato nei microcosmi rurali del tempo. Mia nonna Ciccia, con la sua quinta elementare conseguita negli anni Venti del 1900, era un punto di riferimento per parenti e vicini di casa, nonostante qualche comprensibile errore ortografico e sintattico.
La coppia del racconto però non si fida, o comunque non vuole dare conto delle questioni familiari a persone estranee. Pertanto ricorre ad una comunicazione – sottolinea Bufalino – che rimanda «indietro di qualche millennio: a un tempo prealfabetico, di balbuziente innocenza, quando la scrittura era di là a venire».
In una paginetta, la donna informa il marito sulla vita quotidiana del paesino. In primo piano vi è il suo cuore trafitto per la lontananza del consorte e i tre figli da accudire. Il più piccolo ha un lieve problema di salute: infatti la sua postura è inclinata. Aggiorna poi lo sposo circa l’andamento dell’economia domestica: in particolare dettaglia le entrate e le uscite della stagione olearia, conclusasi con un saldo positivo. Ma riferisce anche il risultato delle elezioni comunali, che hanno visto trionfare la Democrazia Cristiana, sponsorizzata dal parroco, sul Partito Comunista. Il commento “politico” è un’istantanea amara del Sud immobile, con la povera gente rassegnata al duro lavoro nelle terre, al di là del responso dell’urna. Dopo un riferimento all’imminente Natale, la chiusura è dedicata al sentimento dell’amore: un vincolo indissolubile rappresentato da due fedi intrecciate, capace di sopravvivere alla distanza e alle difficoltà.
La macchina del tempo azionata dalla lettera sembra riportare il lettore addirittura all’antico Egitto, con i suoi papiri fitti di geroglifici. Eppure tutto questo accadeva cinquant’anni anni fa. Ieri.
Di seguito, l’interpretazione che Bufalino dà del testo scritto dalla donna:
«Amore mio caro, il mio cuore è trafitto dal tuo pensiero lontano, e ti tendo le braccia insieme ai tre figli. Tutti in buona salute, io e i due grandicelli, indisposto, ma non gravemente, il piccino. La precedente lettera che t’ho spedito non ha ricevuto risposta e ne soffro. Tua madre, colpita da un male, si trova in ospedale, dove mi reco a trovarla. Non temere che ci vada a mani vuote; né sola, dando esca a malelingue: m’accompagna il figlio mezzano, mentre il maggiore rimane a guardare il minore. Il nostro poderetto, ho provveduto che fosse arato e seminato. Ai due “giornalieri” ho dato 150.000 lire. Si son fatte le elezioni per il Comune. Ho votato Democrazia Cristiana, come il parroco m’ha suggerito. Per la Falce e Martello la sconfitta è stata grande: come fossero morti, in un cataletto.
Ma che vincano gli uni o gli altri, è tutt’una. Nulla cambia per noi poveretti: abbiamo zappato ieri, zapperemo ancora domani. Molte ulive quest’anno, dai nostri ulivi. L’uomo e i due ragazzi che ho assunto, l’uno per bacchiarle, gli altri per raccoglierle a terra, mi sono costati 27.000 lire. Altre 12.000 lire le ho spese per il frantoio. Ne ho ricavato tant’olio da riempire una giara grande e una piccola. Posso ricavarne il prezzo corrente che è di 1.300 lire al litro.
Amore lontano, il mio cuore ti pensa. Ora, soprattutto, che viene Natale e vorrei essere insieme a te, cuore a cuore. Un abbraccio, dunque, da me e dai tre figliolini. Arrivederci, amore caro, il mio cuore è tuo e ti sono fedele, unita a te come i nostri due anelli».
La Varia di Sant’Eufemia d’Aspromonte
Un secolo fa anche Sant’Eufemia d’Aspromonte aveva la sua “Varia” o “Carro trionfale”, come si legge nella didascalia dell’unica immagine arrivata ai nostri giorni. La fotografia, che documenta il passaggio della Varia sul corso Umberto I il 4 agosto 1929, è stata pubblicata dal periodico “Incontri” (edito dall’Associazione culturale “Sant’Ambrogio”) sul numero di gennaio-marzo 1995, a corredo della preziosissima ricostruzione storica del professore Luigi Crea.
Autore dell’opera e della sua messa in funzione fu, negli anni Venti e Trenta del 1900, Giuseppe Forgione, artigiano del legno noto con il soprannome “Sticchiarella”. Molto abile nella costruzione di macchine ad ingranaggi, tra le sue creazioni si ricordano inoltre un presepe con i pastori in movimento, una Varia più piccola, che veniva portata in processione in occasione della festa di San Giuseppe, e una costruzione meccanica con le statuette di San Giuseppe, la Madonna e Gesù adolescente.
La Varia era dedicata ai SS. Cosma e Damiano, il cui culto a Sant’Eufemia ha origini antiche ed è molto sentito: in particolare a partire dal 1837, quando i due santi ascoltarono le suppliche dei fedeli e il paese non fu toccato dall’epidemia di colera che stava seminando la morte nel circondario di Palmi. Un altro evento miracoloso risale invece al 7 ottobre 1843, giorno in cui coloro che si trovavano all’interno della chiesa si accorsero con stupore che le statue, realizzate nel 1816 dall’artista di Serra San Bruno Vincenzo Zaffiro, aprivano e chiudevano gli occhi, li alzavano al cielo e li abbassavano.
La costruzione meccanica era alta 12-13 metri ed era trainata da sei paia di buoi; un altro paio, posizionato nella parte posteriore, fungeva da freno. Sulla base della costruzione venivano disposte una ventina di ragazzine vestite di bianco, in genere provenienti da nuclei familiari poveri o orfane di guerra, insieme agli “ammalati” dei SS. Cosma e Damiano.
Posizionate sui lati della macchina, due coppie di angeli venivano fatte scorrere verso l’alto e verso il basso. Le colonne che si innalzavano dalla base si univano in cima, formando degli archi che sorreggevano la piattaforma sulla quale stavano sedute altre due file di bambine. Al di sopra vi era il globo terrestre, attraversato da un asse che faceva girare il sole e la luna. Infine, sopra le nuvole e i visi degli angeli, dominava la statua del Padre Eterno con una bambina al suo fianco.
Sull’argomento:
- Luigi Crea, Il Carro Trionfale o Varia di S. Eufemia d’Aspromonte, “Incontri”, anno 7 – n. 1 (gennaio-marzo 1995).
- Carmela Cutrì – Eufemia Tripodi, Cosma e Damiano. Medici-Martiri-Santi nella storia del culto in S. Eufemia d’Aspromonte, Virgiglio Editore, Rosarno (RC) 1998.
Novecento
Tra le tante cose scritte nel 2020, oggi mi è capitato di rileggere un pensiero dedicato al mio paese, una comunità composta da gente laboriosa, molto distante dall’etichetta approssimativa e ingiusta che le è stata appiccicata addosso. Mentre scrivevo, pensavo ai sacrifici delle generazioni del secolo scorso e alla validità della loro lezione per i giovani di oggi.
NOVECENTO
Non volevamo il cielo
ma zolle da dissodare
fragranza di pane
stanze tiepide.
Sui sentieri di spine
abbiamo piantato i nostri anni
madidi
spazzati e germogliati
altrove.
Parlavamo l’idioma universale
del lavoro
della dignità,
le creature aggrappate
a mani intarsiate
dalla fatica del futuro.
Tenete a mente
i nostri volti riarsi
portateli a spalla
come una reliquia.
4 giugno 2020
Ora d’aria
Sapessi, zio Pino
Sapessi, zio Pino, le festività pasquali di quest’anno. Simili a quelle dell’anno scorso, del resto, ma con molta più stanchezza nello spirito per la lucina che non si intravede. Da tempo viviamo le “ultime due settimane di sacrifici”. Come Godot, la fine dell’emergenza forse arriverà domani.
Ti ho pensato. Mi sono tornati in mente la colomba e lo champagne a casa tua, dopo la veglia, tutti gli anni per tantissimi anni. E le nostre pasquette di comitive variabili nell’arco della stessa giornata. Perché la pasquetta, come il ferragosto, non è mai stata pratica da risolvere in poche ore. Si iniziava la mattina e si finiva col buio. Chi arrivava, si univa a chi già alle dieci aveva acceso il fuoco. Ricordo la più “affumicata”, quella volta che per la pioggia non potemmo salire in Aspromonte e decidemmo di improvvisare una grigliata nel caminetto di casa tua. Impregnati di fumo di carne arrostita, ad ascoltare i tuoi improbabili racconti sul “saggio” che avevi scritto e la storia fantastica di Morlupo. Ci scendevano le lacrime per quanto ridemmo.
Ora non si può più, non solo per il Covid. Negli ultimi due anni ti sei perso parecchio. Forse è meglio così, per te che avevi l’indignazione sempre pronta e che avresti reagito male, con molto dispiacere, nel sapere che qualcuno, tra quelli che mangiavano e bevevano con noi, è stato tirato dentro vicende assurde. Vorrebbero insegnarci chi sono persone che conosciamo da una vita, chiarire cosa fanno o non fanno. Attribuire addirittura nomi e soprannomi diversi da quelli che abbiamo sempre saputo. Sì, sono al corrente della prassi del “politicamente corretto”. Non si può contestare, si deve soltanto subire e attendere il tempo galantuomo. Un espediente ipocrita e vigliacco, a dirla tutta.
Insomma, zio, qua si è stanchi e soli. Il giorno di pasquetta, proprio dall’altro lato della strada, se n’è andata “zia Concetta”, che ti voleva bene, così come ne ha voluto a tutti quelli che hanno avuto la fortuna di conoscerla. Nella “ruga” siamo passati in tanti dalle sue mani per le iniezioni, quando ancora la siringa era in vetro e si doveva bollire per la sterilizzazione. Neanche un funerale ha potuto avere, lei che era così religiosa.
Penso a quanto sia triste, quando giunge il momento di andare, non potere tenere la mano a questi anziani che a lungo hanno riscaldato le nostre, ci hanno accarezzato la testa, ci hanno raccontato storie della notte dei tempi.
È capitata la stessa dolorosa sorte a Sofia, di là dello Stretto, che non ha potuto avere il conforto della figlia. A me tutto questo sembra un grave sconvolgimento nell’ordine dell’universo. Anche questa è una crudele ingiustizia, dura da accettare.
Forse ho divagato, zio Pino. È che quando arriva una raffica di nostalgia non la puoi controllare. Come il cucchiaio di vetro del Poeta, che scava nelle nostre storie colpendo a casaccio.
E pensare che il principio della presunzione di innocenza esiste dal 1948
Con cinque anni di ritardo, due giorni fa la Camera ha recepito la direttiva europea 2016/234, dedicata al “rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”. Merito dei deputati Enrico Costa (Azione) e Riccardo Magi (+ Europa), firmatari dell’emendamento approvato; ma merito anche di Marta Cartabia, che sin dall’insediamento in via Arenula ha impresso una forte discontinuità rispetto ai due governi Conte. Già in occasione della presentazione delle linee guida del suo ministero, la titolare della giustizia era stata tranchant: «A proposito della presunzione di innocenza, permettetemi di sottolineare la necessità che l’avvio delle indagini sia sempre condotto con il dovuto riserbo, lontano dagli strumenti mediatici per un’effettiva tutela della presunzione di non colpevolezza, uno dei cardini del nostro sistema costituzionale».
Inutile nascondersi che senza provvedimenti consequenziali, la direttiva rischia la fine dell’articolo 27 della costituzione (“L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”), forse il più bistrattato nell’ordinamento italiano. Lettera morta. Per cui sarà necessario attendere (oltre all’approvazione del senato) i decreti attuativi, che prevederanno opportune sanzioni per coloro che disattenderanno la normativa. È stato fatto un piccolo passo in avanti, ma tanti altri ancora ne occorreranno per smaltire le scorie del feroce giustizialismo che, da Mani pulite in poi, ha monopolizzato il dibattito politico in Italia.
Il testo della direttiva europea sancisce il principio, tanto ovvio quanto quotidianamente calpestato, della non colpevolezza fino alla condanna definitiva: «La presunzione di innocenza sarebbe violata se dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche o decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza presentassero l’indagato o l’imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata. Tali dichiarazioni o decisioni giudiziarie non dovrebbero rispecchiare l’idea che una persona sia colpevole».
Finiranno le gogne pubbliche, lo show mediatico delle conferenze stampa e delle sfilate in manette, l’asservimento dell’informazione alla tesi accusatoria che, è bene ribadirlo, è un’ipotesi investigativa da comprovare nelle aule dei tribunali?
Filiazione diretta della mortificazione della presunzione d’innocenza è la carcerazione preventiva, uno strumento di tortura legalizzata. Anche a me è capitato di considerare che “se l’hanno arrestato, qualcosa avrà fatto”. Mi sono ricreduto quando ho conosciuto persone assolte in primo grado “per non avere commesso il fatto”, ma rovinate psicologicamente, economicamente e socialmente dopo quattro anni di custodia cautelare in carcere. Ho visto i loro occhi bassi e ascoltato le loro drammatiche storie.
I mille casi all’anno di ingiusta detenzione in Italia, di fatto derubricati a “effetto collaterale” della lotta alla criminalità, sono uno scempio. Mille non può essere soltanto un freddo numerino: dietro quella cifra che dovrebbe togliere il sonno a chi ha fatto arrestare ingiustamente degli innocenti, pulsa il cuore di uomini e donne in carne ed ossa, c’è la disperazione di famiglie distrutte, sanguina la ferita di chi lotta per riannodare il filo di vite scosse. Spesso si è portati a guardare con distacco a problemi che possono toccare ad altri, mai a noi: per questo manca la percezione dell’enormità di un errore giudiziario. Anche perché, se va bene, si tratta di notizie riportate in un trafiletto di giornale, non certo in prima pagina.
Il folle volo di Ulisse
Italo Calvino definiva classico “un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”. La letteratura è sempre contemporanea, perché parla al presente: interroga, risponde, emoziona. I poeti hanno la capacità di pescare nel profondo dell’anima le parole che noi comuni mortali non riusciamo a trovare. In un celebre dialogo del film “Il postino”, Mario confida a Pablo Neruda: «A me mi piaceva pure quando avete detto “Sono stanco di essere uomo”, perché è una cosa che pure a me mi succede però non lo sapevo dire».
Il dialogo dell’umanità con Dante va avanti da sette secoli. I versi della Divina Commedia risuonano attuali: basti pensare all’invettiva “Ahi serva Italia, di dolore ostello/ nave sanza nocchiere in gran tempesta/ non donna di provincie, ma bordello!”, quando si vuole mettere alla berlina l’incapacità della nostra classe politica.
Per onorare il “Dantedì” scelgo il XXVI canto dell’Inferno, luogo di espiazione dei consiglieri fraudolenti: coloro che, avendo in vita raggirato il prossimo con le parole, per l’implacabile legge del contrappasso hanno assunto le sembianze di una lingua di fuoco. Tra di loro, Dante incontra Ulisse e Diomede, avvolti in una fiamma bicorne poiché complici nell’inganno che convinse Achille a combattere contro i troiani e nel furto del Palladio. Per questo sono condannati a scontare insieme, in eterno, la propria pena.
La vita è un viaggio, raffigurato da Dante come l’ascesa verso la luce della salvezza. Molti critici contrappongono il viaggio di Dante a quello di Ulisse. Il primo autorizzato da Dio, il secondo blasfemo nel suo tentativo di esplorare l’emisfero sud della terra per giungere al monte del Purgatorio.
Dopo le peripezie della sua vita, Ulisse avrebbe potuto godersi un meritato riposo. Ma un demone, dentro, lo divora e lo spinge all’azione: vuole oltrepassare il finis terrae delle colonne d’Ercole, confine estremo delle terre esplorabili e metafora del limite posto da Dio alla conoscenza umana. Per convincere i compagni a seguirlo ricorre, per l’ultima volta, alla sua abilità oratoria: «Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti/ ma per seguir virtute e canoscenza».
Nel “folle volo” i remi si trasformano in ali, il viaggio diventa una corsa ad impattare contro la punizione divina del naufragio: “infin che ’l mar fu sovra noi richiuso”, il verso finale che sembra il coperchio di una bara.
Il folle volo è un azzardo fatalmente destinato al fallimento. Eppure la sete di conoscenza è il motore dello sviluppo dell’umanità. L’elevazione della condizione umana deve molto ai visionari che si lanciano nel vuoto e spingono più in là il limite.
Più in generale, ci lanciamo in un folle volo ogni volta che troviamo dentro di noi la forza per affrontare l’ignoto. Ogni volta che la vita ci pone davanti ad un cambiamento. Ogni volta che ne misuriamo le difficoltà con la paura nel cuore. Spesso il limite è nella nostra mente, nelle ubbie che ci tormentano o nelle convenzioni che accettiamo passivamente, per viltà o per quieto vivere. Rinunciando al viaggio, rinunciamo a noi stessi. E rimane il rimpianto.
Le tre croci
C’è un innocente sulla croce in ogni angolo della terra dove la giustizia diventa arbitrio, dove il giudizio è pregiudizio, dove si tengono gli occhi chiusi. Perché deve essere così. Perché non può essere diversamente. Perché la terra è un marchio di colpa impresso a fuoco sulla carne.
La mela non cade lontano dall’albero e l’albero, in certi posti maledetti, produce sempre frutti velenosi. Viene ripetuto con il tono definitivo dell’essere superiore, verità assoluta sulle labbra di un’entità etica che può permettersi di puntare il dito. Che deve puntare il dito, perché investito di una missione palingenetica. Il moralista che si incarna nella Morale salverà il mondo, dall’alto del suo immacolato trono. Spazzerà strade e piazze dagli scarti umani che la insozzano per il solo motivo di essere nati, qui e non in un altro posto.
Sulla croce pende un uomo in agonia, condannato dal popolo che salva Barabba e condanna l’innocente. Non ci vuole molto. Basta trovare le parole giuste, gli slogan che aizzano la folla al “crucifige”. Dal pulpito, dai giornali, dagli schermi televisivi.
Il pasto è pronto per essere servito: afferrare il proprio brandello di carne e saziarsi è pura catarsi. Il menu della trattoria della gogna offre un’ampia scelta. Persino la carne del ladrone buono, sulla croce alla destra dell’innocente; o quella del cattivo, appeso alla sua sinistra. Ladroni per non avere potuto scegliere un’altra strada o perché decisi ladroni da altri, accanto ai ladroni per indole criminale.
Ai piedi delle tre croci si piange uguale dolore: per gli innocenti, per i buoni e per i cattivi. Sciogliendo il dolore dell’uomo nella metafora di una resurrezione impossibile senza calvario.
Un’altra storia inizia qui
Giustizia riparativa: sono le due paroline risuonate, tra le altre, nell’intervento della ministra Marta Cartabia in Commissione giustizia alla camera dei deputati. Che sia giunto finalmente il momento di dare attuazione al principio costituzionale secondo il quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”?
Nell’esposizione delle linee programmatiche della sua azione ministeriale, Cartabia ha trattato diverse questioni “spinose”, non più procrastinabili per uno Stato che ancora voglia considerarsi di diritto. In prima battuta, il tema dell’esecuzione penale, secondo una prospettiva che superi “l’idea del carcere come unica risposta al reato”. Certezza della pena non può e non deve essere sinonimo di certezza del carcere: «Per gli effetti desocializzanti che comporta, deve essere invocata quale extrema ratio. Occorre valorizzare piuttosto le alternative al carcere, già quali pene principali».
La ministra della giustizia ha anche riservato una stilettata al cortocircuito mediatico-giudiziario: «A proposito della presunzione di innocenza, permettetemi di sottolineare la necessità che l’avvio delle indagini sia sempre condotto con il dovuto riserbo, lontano dagli strumenti mediatici per un’effettiva tutela della presunzione di non colpevolezza, uno dei cardini del nostro sistema costituzionale». In soldoni, sì alla presunzione di innocenza, no ai processi celebrati sui media. I processi si svolgono nelle aule dei tribunali, il luogo in cui, al termine del contraddittorio tra le parti, si forma la prova. Ovvietà per chi abbia letto la Costituzione. Un miraggio, nel clima ammorbato dalle pulsioni giustizialiste dei Saint-Just che si annidano tra procure e redazioni giornalistiche.
“La giustizia come ricomposizione” è il sottotitolo di “Un’altra storia inizia qui”, il volume pubblicato nel 2020 da Bompiani, che contiene le relazioni di Marta Cartabia e del criminologo Adolfo Ceretti esposte nella “Martini Lecture” del Centro “C. M. Martini”.
Il libro trae spunto dalle riflessioni del cardinale Martini sui temi della pena detentiva e della condizione di vita nelle carceri. Per rendersi conto della condizione delle prigioni è sempre valido il monito di Piero Calamandrei: “bisogna vederle, per constatare qual è la condizione materiale e psicologica dei reclusi”. Una raccomandazione raccolta dal cardinale Martini negli anni del suo episcopato, ma anche da Marta Cartabia membro e presidente della Corte costituzionale. Dopo averle visitate, non si può che prendere atto di quel “mondo sottosopra” e porsi le stesse domande del cardinale: «È umano ciò che stanno vivendo? È efficace per un’adeguata tutela della giustizia? Serve davvero alla riabilitazione e al recupero dei detenuti? Cosa ci guadagna e cosa ci perde la società da un sistema del genere?».
La giustizia riparativa ha come fine il recupero della dignità umana. Non può pertanto fondarsi “semplicemente sulla ritorsione, sulla pena fine a sé stessa, sull’emarginazione”, né essere crudele. Un pensiero perfettamente in linea con il dettato costituzionale e suffragato dalle statistiche sulle recidive, in calo tra i detenuti che hanno accesso a misure alternative.
La pena, conclude Cartabia, per avere un senso deve ispirarsi alle parole di Papa Francesco (“mai privare del diritto di ricominciare”) e guardare al futuro perché “il tempo della pena è il tempo di un percorso: dopo la sentenza deve iniziare un’altra storia, deve poter incominciare qualcosa di nuovo, un’altra possibilità, un’altra fase del cammino”.