Benvenuti nella giungla

A seguito delle proteste per la soppressione o scippo (dipende dai punti di vista) dello svincolo autostradale, il Potere, per benevola concessione, acconsentì al mantenimento di un tratto della vecchia autostrada, in modo che i cittadini di Sant’Eufemia non dovessero scendere a Pellegrina e poi risalire da Ceramida, prima di potersi immettere nel nuovo tracciato. Il progetto originario prevedeva infatti proprio questo: fantastico e lungimirante.
Da ciò conseguì il problema della manutenzione di un tratto di strada ignorato anche dal navigatore satellitare: Anas, Città metropolitana, amministrazioni comunali?
Fino ad ora, a seguito delle insistenze delle amministrazioni comunali e dei politici locali, in qualche modo si era ottenuto almeno lo sfalcio estivo da parte della Provincia, poi Città metropolitana. Se non a giugno, ad agosto: in modo, insomma, che i turisti non si dovessero dotare di machete per potere andare al mare.
Noi stanziali invece non abbiamo di questi problemi, essendo specialisti delle gimkane. Se non guidiamo col brivido non ci prendiamo gusto. Abbiamo bisogno delle scariche di adrenalina da rischio di incidente stradale per vivere bene. Per questo motivo, esultiamo nel constatare il trionfo della vegetazione su guard-rail e asfalto.
Benvenuti nella giungla, per dirla con il titolo di una celebre canzone dei Guns N’ Roses.
Purtroppo, non possiamo contare su nessuno. Per me è una magra consolazione essere sempre stato contrario all’abolizione della Provincia, che era l’ente più vicino alle comunità periferiche, delle quali esprimeva i rappresentanti. D’altronde, se i grandi che fecero l’Italia suddivisero la Penisola in province e non in regioni, un motivo doveva esserci. Vuoi vedere che era proprio quello di dare dignità istituzionale e rappresentanza ai territori di ogni singola provincia?

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San Lorenzo

Più che osservarla cadere, starci in groppa. Accarezzarne la criniera e a strappi di redini disegnare nel buio traiettorie impossibili. Tracciare il profilo di fantastici animali notturni. Senza farla spegnere mai. E che l’alba non sorprenda il bambino, non lo svegli dal sogno.

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La scossa di mastro Mimmo

Domenico Fedele e Maria Bagnato
Pietro Monterosso e Marilena Alescio

Ieri sera ha avuto luogo in Piazza Libertà l’evento “Festival della Moda 2021”, a cura dell’Associazione regionale sarti e stilisti calabresi e dell’Accademia nazionale dei sartori di Roma. La serata, presentata da Marilena Alescio, si è conclusa con una degustazione di dolci offerta dall’Associazione pasticcieri gelatieri artigiani.
“Niente di straordinario”, avremmo commentato qualche anno fa, quando il cartellone dell’estate eufemiese presentava iniziative a cadenza quasi quotidiana. Non voglio scomodare aggettivi enfatici, vorrei soltanto fare notare che la manifestazione di ieri è stata a mio avviso molto importante. Non si può vivere di nostalgia e di piagnistei, né di rabbia. Bisogna invece trovare la forza per reagire alle difficoltà del momento, all’abbattimento che serpeggia tra i tanti che negli ultimi decenni si sono molto spesi per la crescita culturale e sociale di Sant’Eufemia d’Aspromonte.
Abbiamo subito un duro colpo, non possiamo nascondercelo. Ma io credo che subire passivamente non sia la strada giusta. Né bisogna aspettare “tempi migliori”. I tempi questi sono, e con questi occorre misurarsi e, caso mai, cercare di indirizzarli in un senso più positivo. Ma dobbiamo farlo noi per primi. Se non ci risolleviamo da soli, di certo non lo farà nessuno al posto nostro. Il tempo sarà galantuomo. E con il tempo ogni cosa assumerà la sua reale dimensione. Una dimensione di giustizia, scevra dal pregiudizio.
E allora non nascondo l’emozione provata nell’ascoltare l’intervento iniziale di Domenico Fedele, che è delegato regionale dell’Accademia nazionale dei sartori e presidente dell’Associazione regionale sarti e stilisti calabresi. Un invito rivolto agli eufemiesi, affinché si diano una “scossa” e reagiscano. Che l’abbia fatto “mastro Mimmo” è un segnale molto forte: «Se posso farlo io a 85 anni – il senso delle sue parole – a maggior ragione potete e dovete farlo voi».
Grazie, quindi, a “mastro Mimmo” e grazie a Maria Bagnato e a Pietro Monterosso, due giovani stilisti eufemiesi che da diversi anni operano nel settore, facendoci sentire orgogliosi di appartenere a questa comunità. Possano i nostri tre concittadini essere di esempio e di incoraggiamento per tutti noi.

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Una data per l’autonomia di Sant’Eufemia d’Aspromonte

Il riconoscimento del contributo dato agli studi storici locali dal convegno organizzato nel 1990 dall’Associazione culturale “Sant’Ambrogio” per il bicentenario dell’autonomia di Sant’Eufemia, i cui atti furono pubblicati nel 1997 da Rubbettino, non impedisce di mettere in discussione l’indicazione generica del 1790 (senza giorno e mese) come anno in cui il casale di Sant’Eufemia avrebbe conquistato l’autonomia dalla Contea di Sinopoli. Vincenzo Tripodi è stato il primo a sostenere che «nel 1790 l’Università, oggi Municipio di S. Eufemia, sotto il sindacato di tal Vincenzo Panuccio, intentò e vinse una causa per liberarsi dalla soggezione del Conte di Sinopoli e Principe di Scilla che aveva usurpato il dominio del territorio di essa. In seguito a ciò, essendo il Comune per l’innanzi denominato S. Eufemia di Sinopoli, mutò tal nome, assumendo quello di S. Eufemia d’Aspromonte» (Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte, 1945).
La tesi di Tripodi non è però supportata da alcun documento ufficiale ed appare inoltre avulsa dal contesto storico generale. Più verosimile è invece supporre che l’affrancazione del comune sia stata conseguente all’eversione della feudalità (1806) realizzata nel periodo francese del regno di Napoli.
La “Legge per la circoscrizione dei governi del Regno” del 19 gennaio 1807, n. 14, al primo articolo stabiliva infatti che “ogni governo sarà chiamato col nome di quel luogo, ch’è il primo nel numero delle università, ch’esso comprende, e questo sarà la sede del giusdicente”: conseguentemente veniva istituito il governo di Sant’Eufemia di Sinopoli, del quale facevano parte i comuni di San Procopio, Sinopoli superiore, Sinopoli inferiore, Sinopoli vecchio, Acquaro, Cosoleto, Sitizano, Melicuccà.
Successivamente, il “Decreto per la nuova circoscrizione delle quattordici provincie del regno di Napoli”, n. 922 del 4 maggio 1811, che organizzava gli enti territoriali in province, distretti, circondari e comuni (art. 1), indicava Sinopoli capoluogo del circondario che comprendeva i comuni di Sinopoli superiore, Sinopoli inferiore, Sinopoli vecchio, Cosoleto, Sitizano, Acquaro, San Procopio, Sant’Eufemia, Paracorio, Pedavoli. Il 4 maggio 1811 veniva quindi istituito il comune di Sant’Eufemia, che perdeva la denominazione (“di Sinopoli”) mantenuta durante il periodo feudale.
Va infine sottolineato che uno studio di Gustavo Valente (Dizionario dei luoghi della Calabria, 1973), approvato anche dal Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche, fa riferimento proprio alla data tratta dal Bullettino delle leggi del Regno di Napoli.

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La terra delle ingiuste detenzioni

Ci sono i dati e c’è l’interpretazione dei freddi numeri. Ma la politica, è notorio, su certi temi preferisce fare lo struzzo. Il dato è quello delle ingiuste detenzioni nell’anno 2020 diffuso dal Sole24Ore, che riporta il contenuto della “Relazione sull’applicazione delle misure cautelari personali e i dati relativi alle sentenze di riconoscimento del diritto al ristoro per ingiusta detenzione” redatta dal Dipartimento per gli Affari di Giustizia: 1108 procedimenti e 46 milioni di euro liquidati, quasi 27 milioni di risarcimenti soltanto nelle Corti d’appello di Bari, Catanzaro, Palermo, Roma e Reggio Calabria. Capolista di questa speciale classifica dei risarcimenti, la Corte d’Appello di Reggio con circa 8 milioni liquidati, seguita da quella di Catanzaro (4 milioni e mezzo). Insomma, il Sud la fa da padrona. Si dirà: certo, c’è la mafia. Più reati uguale più arresti, ma anche maggiore possibilità di errori e di vittime collaterali della sacrosanta lotta al crimine.
E quindi? I numeri di matricola schiacciati dai panzer delle procure meritano un moto di indignazione e la ribalta politica, o basta un risarcimento? Scusate e tanti saluti.
Ancora: c’è una ragione se nonostante i rastrellamenti a tappeto di interi paesi la criminalità è viva e vegeta? Sì, c’è. Un motivo semplicissimo: la repressione da sola non è sufficiente e, anzi, gli errori provocati dalla pesca a strascico (o dal napalm: fate voi) fanno soltanto aumentare la sfiducia dei cittadini nelle istituzioni.
Nel suo pregevole La ’ndrangheta come alibi (Città del sole edizioni, 2019), Ilario Ammendolia con coraggio sostiene che la ’ndrangheta è stato ed è l’alibi di classi dirigenti incapaci, funzionale alla giustificazione del disimpegno dello Stato in Calabria. Stato che dà segnali di vita con interventi repressivi, intercettazioni telefoniche di massa, operazioni mediatiche che coinvolgono migliaia di innocenti, provocano assurdi scioglimenti di consigli comunali e interdittive antimafia contro le imprese. È il paradosso di uno Stato che si manifesta con la sospensione dello Stato di diritto e con il ricorso a una legislazione emergenziale.
Nihil sub sole novum: è storia antica, che non ha neanche il pregio dell’originalità. Già la legge Pica (1863), da applicare alle province del Sud dichiarate in “stato di brigantaggio”, non risolse il problema nonostante le migliaia di arresti, fucilazioni sommarie, condanne ai lavori forzati e al domicilio coatto. Un abuso denunciato subito (3 maggio 1863) dal deputato pugliese Giuseppe Massari, uno dei pochi a comprendere la complessità del fenomeno: «Il brigantaggio è stato considerato come questione di forza, e quindi per combatterlo non si è saputo far altro di meglio se non contrapporre forza a forza. Ma in cosiffatta questione la parte militare è accessoria, è secondaria».
Se l’emergenza non viene mai superata, bisognerebbe almeno porsi qualche dubbio sull’efficacia di uno strumento che evidentemente non va alle radici della questione, principalmente perché mischia fenomeno sociale e reati: da qui gli arresti di massa. Occorrerebbe prendere atto che la criminalità è effetto del sottosviluppo, non causa. Un ribaltamento di prospettiva che metterebbe sul banco degli imputati l’intera classe politica italiana, colpevole (non soltanto per incapacità) della mancanza di lavoro, infrastrutture e servizi in una vasta area del Paese.
Servirebbe l’antimafia dei fatti, che si traduce in politiche di sviluppo. E meno antimafia di parata, quella dei vuoti codici etici, degli ipocriti registri della “cittadinanza consapevole” e delle targhe “Qui la mafia non entra”. Togliete alla criminalità il brodo di coltura della disoccupazione e appassirà da sola.

*Pubblicato su CalabriaPost.net, 30 giugno 2021

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Bene i colloqui in presenza, ma manteniamo anche quelli video

IL DUBBIO, 26 GIUGNO 2021

Gentile direttore,
è stato accolto molto positivamente l’annuncio del ministro della Giustizia Marta Cartabia sulla ripresa dei colloqui in presenza nelle carceri. Come si ricorderà, la sospensione a marzo 2020 aveva scatenato le proteste e le rivolte culminate con i morti di Modena, feriti e pestaggi in diversi penitenziari.
Per attenuare l’isolamento dei detenuti, in una fase caratterizzata inoltre dall’interruzione di ogni attività all’interno delle carceri (lezioni scolastiche, palestra, celebrazioni sacre, ingresso di volontari), il governo dispose l’aumento delle telefonate a casa e introdusse le videochiamate, sostitutive dei colloqui visivi, sebbene in numero variabile da penitenziario a penitenziario. Ad ogni modo, la soluzione contribuì a rasserenare gli animi e, cosa più importante, a garantire quel “diritto all’affettività”, in senso ampio, che va riconosciuto al detenuto quale tutela della sua dignità di essere umano. Una giustizia giusta è infatti incompatibile con la concezione della pena in senso esclusivamente afflittivo, tipica invece della “vendetta pubblica”.
La sentenza 26/1999 della Corte Costituzionale ha stabilito una volta per tutte che «l’esecuzione della pena e la rieducazione che ne è finalità – nel rispetto delle irrinunciabili esigenze di ordine e disciplina – non possono mai consistere in “trattamenti penitenziari” che comportino condizioni incompatibili col riconoscimento della soggettività di quanti si trovano nella restrizione della loro libertà». La detenzione non annulla la titolarità dei diritti del detenuto, tra i quali vi è il diritto al mantenimento delle relazioni affettive con il proprio nucleo familiare. D’altro canto, l’articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, richiamato dall’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, afferma che “nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti”. Inumana e degradante è la condizione di chi, già privato della libertà personale, non può avere alcun tipo di contatto con le persone care.
Ecco perché sarebbe auspicabile non abbandonare del tutto l’esperienza nata da una situazione di emergenza che si è rivelata tanto utile quanto umana. Non tutti i familiari di un detenuto hanno la possibilità di svolgere i colloqui in presenza, soprattutto se il penitenziario dista centinaia e centinaia di chilometri dal luogo di residenza. Ciò accade ai coniugi anziani (nelle carceri ci sono molti detenuti ultrasettantenni) con problemi di salute che rendono complicato un eventuale viaggio, in presenza di bambini molto piccoli o di familiari con disabilità, ma anche in realtà di disagio economico: non tutti possono permettersi i costi della trasferta e, a volte, del pernottamento.
Mantenendo entrambe le opzioni, una alternativa dell’altra, chi non avesse la possibilità di svolgere i colloqui visivi potrebbe continuare a vedere il volto dei congiunti attraverso il display di un telefonino. Sembra poco, ma non lo è: né per i detenuti, né per i suoi familiari.

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I referendum sulla giustizia un’occasione da cogliere

Il lancio del referendum per una “giustizia giusta” un primo risultato l’ha già ottenuto. Quello di ricollocare al centro del dibattito politico una questione che sembrava avere segnato il passo, dopo le iniziali aspettative generate dall’insediamento di Marta Cartabia negli uffici di via Arenula. La reazione dell’Anm indica che è stato toccato un nervo scoperto e dice molto sulle resistenze corporative di parte della magistratura.
Ma andiamo con ordine. Quali sono i contenuti dei sei quesiti promossi dal Partito Radicale e dalla Lega? Abolizione della legge Severino in materia di incandidabilità, ineleggibilità e decadenza nel caso di condanna per determinati reati: sarebbe il giudice a decidere, caso per caso, se applicare anche l’interdizione dai pubblici uffici. Limitazione della carcerazione preventiva ai soli reati gravi. Separazione delle carriere dei magistrati: il magistrato sceglierebbe se svolgere la funzione giudicante o quella requirente, senza possibilità di passare dall’una all’altra. Diritto di voto, per avvocati e professori universitari, nella valutazione dei magistrati nei Csm distrettuali. Responsabilità civile dei magistrati: il cittadino potrebbe chiedere il risarcimento dei danni direttamente al magistrato, invece di rivolgersi allo Stato. Abolizione della raccolta delle firme del magistrato che intende candidarsi al Csm, senza l’obbligo di iscrizione a una corrente della magistratura: avete presente “il sistema di Palamara”? Ecco, si abolirebbe quel sistema.
L’Associazione nazionale dei magistrati non l’ha presa bene, come si evince dalla preoccupante dichiarazione del presidente Santalucia: «Il fatto stesso che si porti avanti il tema referendario sembra esprimere un giudizio di sostanziale inadeguatezza dell’impianto riformatore messo su dal Governo; e fa intendere la volontà di chiamare il popolo ad una valutazione di gradimento della magistratura, quasi a voler formalizzare e cristallizzare i risultati dei vari sondaggi di opinione che danno in discesa l’apprezzamento della magistratura. Credo che spetti all’ANM una ferma reazione a questo tipo di metodo».
A me sembrano quesiti ragionevoli, in alcuni casi addirittura insufficienti. Ad esempio, limiterei la carcerazione preventiva ai soli casi di flagranza di reato. Per cui non comprendo questo timore, in presenza dell’esercizio di un diritto garantito dalla Costituzione (art. 75). Piuttosto, rilevo che sono altri i diritti del cittadino privi di reale garanzia: la presunzione d’innocenza e il diritto a non subire processi mediatici, sui quali il Parlamento dovrebbe porre riparo recependo finalmente la direttiva europea 2016/234. Oppure, il diritto del detenuto a non vedere calpestata la propria dignità in carceri spesso invivibili, come segnalano i numerosi casi di suicidi (61 nel 2020) e tentati suicidi, le condanne e i rimproveri subiti dall’Italia per la condizione delle sue prigioni.
L’iniziativa referendaria rappresenta un’opportunità da cogliere, non un ostacolo a riforme che possono invece trarre dalla spinta popolare maggiore slancio: «Da oltre 30 anni – ha osservato Irene Testa – il Partito Radicale chiede alla politica una riforma della giustizia. Il Parlamento in questi anni non ha trovato il coraggio di fare questa riforma, oggi la rivendica, anzi ci viene a dire che il Parlamento è sovrano e che la riforma della giustizia deve farla lui. Ben venga, ma noi nel frattempo abbiamo deciso, insieme a Matteo Salvini, di farla fare a 500mila italiani».
Non ho alcuna simpatia per Salvini, né mi interessa considerare se la sua è un’adesione strumentale: i radicali hanno tradizionalmente trovato estemporanei compagni di viaggio a sostegno delle loro battaglie. D’altronde è sempre valida la massima di Deng Xiao Ping: «Non importa se un gatto è nero o bianco, l’importante è che catturi i topi».

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Ci siamo

Il mio prossimo libro è pronto e tra qualche settimana andrà in stampa. Vi anticipo il titolo: Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età contemporanea. Storia, società, biografie (Il Rifugio Editore). Uscirà con un anno di ritardo, ma poco importa. Ci tenevo a dare organicità agli studi che nel tempo ho condotto sulla storia del mio paese: rivedere, approfondire, scavare ancora e trovare, concludere un ciclo di ricerche iniziato circa quindici anni fa. Da un punto di vista prettamente personale, era per me fondamentale portare a termine un lavoro iniziato a settembre 2019. Perché là, in fondo, ero rimasto.
Il libro si compone di tre parti e abbraccia un arco temporale che va dalla fine del 1700 ai nostri giorni: eventi rilevanti della storia di Sant’Eufemia, aspetti della società nel XX secolo, quattordici medaglioni biografici delle personalità più eminenti. E ancora: testimonianze orali (ad esempio, quelle significative di due centenari) e il recupero di fonti bibliografiche locali introvabili. Ho dedicato il libro alla memoria di Vincenzino Fedele, per quattro decenni presidente dell’associazione culturale “Sant’Ambrogio” (nella foto, insieme al cardinale di Milano Carlo Maria Martini): “infaticabile animatore sociale e culturale, per la sua preziosa attività di promozione delle tradizioni e della storia eufemiese”.

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Punto e a capo

Non sono il primo e non sarò l’ultimo caso di malagiustizia. Dovrei quasi ritenermi “fortunato”, visto che la mia posizione è stata archiviata e, pertanto, mi è stata almeno risparmiata l’ulteriore umiliazione di dovere affrontare un processo.
Sono soddisfatto? No. Arrabbiato? Neanche. Sono deluso. Nessuno dovrebbe essere privato della libertà ed essere scaraventato nel “cimitero dei vivi”, prima dell’accertamento della sua colpevolezza.
Non riesco a togliermi dalla testa le immagini di me che scendo per primo le scale della questura di Reggio Calabria il 25 febbraio 2020, giorno dell’operazione “Eyphemos”. Né le sentenze emesse da televisioni, giornali e quotidiani online, locali e nazionali. Sarebbe onesto che gli amanuensi delle procure che si annidano nelle redazioni giornalistiche ammettessero: «Ci siamo sbagliati perché, come sempre, abbiamo considerato dogma l’ipotesi investigativa degli inquirenti; perché, come sempre, abbiamo fatto carne di porco del principio della presunzione d’innocenza».
Non riesco a scacciare via la sensazione d’impotenza suscitata dalla constatazione dell’irrilevanza degli strumenti difensivi: rigetto della comparazione fonica di parte; inutilità delle argomentazioni a discolpa presentate, per me coerenti e logiche sin dal principio di questa assurda storia; mortificazione del diritto alla difesa, fino a quando la procura non ha deciso di affidare al RIS di Messina la perizia che a settembre, 205 giorni dopo l’arresto, ha finalmente portato alla mia scarcerazione poiché, essendo stato accertato lo scambio di persona, non sussistevano più i “gravi indizi di colpevolezza”.
Comprendo l’errore, ma non accetto l’accanimento. Questa amara sensazione ha accompagnato ogni giorno della mia detenzione, martellante come il sostantivo utilizzato dal pubblico ministero e avallato dal tribunale della libertà nel rigettare il ricorso: secondo l’accusa, contro di me risultava un “coacervo” di indizi. Ma io non dovevo giustificarmi per comportamenti o atti considerati penalmente rilevanti da chi ha condotto l’indagine. C’era una questione preliminare, sostanziale, decisiva che andava affrontata subito perché concerneva l’errata attribuzione alla mia persona dell’identità del soggetto intercettato. E invece ci sono voluti sette mesi per accertare quello che ho sostenuto sin dall’interrogatorio di garanzia, due giorni dopo l’ingresso in carcere, senza la necessità di ascoltare la registrazione: «Non sono io. Fate una perizia fonica, perché quella voce non può essere la mia». Sette mesi che ho trascorso in prigione: non a piede libero, né agli arresti domiciliari. Troppi, ritengo, per uno Stato di diritto appena appena decente.
Non ho fiducia nella giustizia italiana. Credo invece nella verità, una forza tenace come la goccia che scava la roccia.
Ora inizia il secondo tempo, che intendo come impegno per una battaglia di civiltà minoritaria e impopolare: contro la gogna del giustizialismo mediatico, contro l’aberrazione della carcerazione preventiva, contro la condizione disumana di molte carceri italiane.
Scarto il buono dal brutto: la presa di coscienza di questioni mai considerate nella loro complessa rilevanza, diventate ora ragione di studio e per le quali credo valga la pena spendersi. Da libero cittadino e da osservatore purtroppo privilegiato.

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Don Silvio Mesiti: Il tunnel della speranza

Don Silvio Misiti è uno scandalo vivente. Scandalo nell’accezione biblica di “inciampo”, un ostacolo che costringe a soffermarsi e a riflettere. Le sue parole e la sua vita da prete di frontiera sono un monumento di fede e di umanità. «Ero carcerato e siete venuti a visitarmi», una delle sette opere di misericordia corporale, che mette l’uomo in rapporto con la solitudine, il rimorso, la vergogna, la disperazione di chi vive recluso; un invito ad affondare mani e piedi nelle discariche sociali (sovr)affollate, perlopiù, dagli scarti della collettività.
Le alte mura sormontate dal reticolato sono la frontiera tra due mondi che non si parlano. Don Silvio, cappellano del carcere di Palmi da quasi mezzo secolo, è appunto lo scandalo di un ostinato dialogo tra sordi: di qua i buoni, di là i cattivi. La pietra d’inciampo che obbliga la società e la politica a non volgere lo sguardo altrove.
Il diario che ha deciso di dare alle stampe si riferisce ad un periodo storico difficile e convulso, ma è emblematico del suo modus operandi all’interno della realtà carceraria composta da detenuti, polizia penitenziaria, operatori, figure istituzionali. Il tunnel della speranza. Il Supercarcere di Palmi negli anni di piombo (Laruffa Editore, 2021) è una testimonianza preziosa sotto il profilo storiografico, perché propone un punto di vista inedito sulle biografie dei protagonisti della lotta armata reclusi nella struttura speciale voluta dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa nel 1979. Una sorta di “università”, ricordata dalla memorialistica relativa a quel periodo, che tra cortili e brandine produsse documenti e risoluzioni, ma portò anche a spaccature premonitrici di molteplici fallimenti politici e personali. Il nucleo centrale del libro, costituito dalle pagine annotate dall’autore tra il 10 marzo 1981 e il 31 dicembre 1982, racconta “in presa diretta” la reazione dei terroristi al cospetto degli eventi significativi di quel cruciale snodo storico: il sequestro dell’assessore regionale della Campania Ciro Cirillo, l’attentato a Giovanni Paolo II, il sequestro e l’assassinio di Roberto Peci.
Ma nel carcere non vivevano soltanto i detenuti politici. La testimonianza di don Silvio è più ampia ed arriva ad abbracciare i giorni nostri con considerazioni attente sul mutamento, nel tempo, della composizione socio-culturale della popolazione carceraria, con proposte e contributi che affrontano i temi al centro del dibattito attuale sulla giustizia: presunzione d’innocenza, rispetto della dignità umana, reinserimento sociale.
Il tunnel della speranza è un libro crudo, senza filtri, che punta i riflettori su drammi noti soltanto a chi entra in un carcere: suicidi, atti di autolesionismo, tentativi di ribellione e violenze. Il carcere è un’esperienza estrema, ma nella bufera la parola di don Silvio diventa la fune alla quale aggrapparsi. Per non farsi trascinare nel gorgo, per non perdersi. Parola che conforta anche quando si tratta di un veloce saluto ai detenuti nel cortile del passeggio: «Ancora qua siete?».
La vita è ciò che ti accade mentre sei occupato a fare altri progetti, cantava John Lennon in “Beautiful boy”. Vita fatta di incontri inimmaginabili e proprio per questo belli. Forse per questo non casuali.

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