Preferisco di no

Rompo il silenzio che mi sono imposto sulle vicende politiche di Sant’Eufemia per rispondere definitivamente alle tante voci che negli ultimi mesi sono circolate rispetto ad un mio impegno nelle prossime elezioni amministrative, che dovrebbero tenersi in autunno.
Non mi candiderò, come sa bene chi ha chiesto direttamente a me; né mi fa piacere essere accostato a questo o a quel gruppo. Nel momento in cui saranno presentate le liste, se saranno più di una, leggerò i nomi dei candidati e, nel segreto dell’urna, sceglierò chi a mio avviso considero capace di dare qualcosa al paese.
Ho ricevuto diverse sollecitazioni, che mi hanno lusingato, ed ho molto riflettuto. Non nego che forte è stata la tentazione di cedere all’opera di convincimento di diversi amici, sia per ricambiare il loro attestato di stima e di affetto, sia per un senso personale di rivalsa rispetto alla disavventura che ha prodotto la mia assurda carcerazione tra febbraio e settembre 2020. L’orgoglio, però, non è mai una medicina efficace contro gli acciacchi dell’anima.
La mia decisione nasce da motivi personali e di carattere generale. Sorvolo sulle ragioni personali, mentre credo possa essere utile soffermarsi su quelle che attengono ad una questione di carattere generale molto grave, fintantoché il legislatore non produrrà una riforma che a parole è invocata da tutti, mentre nei fatti risulta ancora inevasa.
Nelle aule del tribunale si sta svolgendo il processo scaturito dall’inchiesta che ha provocato lo scioglimento per mafia del comune di Sant’Eufemia, sulla base di una legge antidemocratica che eleva a parametro di valutazione il pregiudizio e il sospetto.
Per sciogliere un comune, oggi, non è necessario accertare condizionamenti, infiltrazioni, presenza della criminalità organizzata all’interno del consiglio comunale. È sufficiente che un prefetto, sulla base di informazioni, segnalazioni, risultanze investigative, ritenga possibile che ciò accada. Possibilità che, è di facile intuizione, viene considerata elevata, se non addirittura scontata, quando viene rilevata nel territorio la presenza di una cosca.
Allo stato attuale è diventato quasi impossibile fare politica nei comuni piccoli, dove tutti conoscono tutti, si incontrano più o meno volontariamente, hanno rapporti di parentela con soggetti condannati o imputati per mafia. Fare politica, soltanto per questo, potrebbe comportare l’invio di una commissione di accesso antimafia, la cui attività generalmente si conclude con lo scioglimento del comune.
Voglio essere ancora più chiaro. Non è una questione di coraggio. Non temo niente, così come niente ho temuto nei sette mesi trascorsi ingiustamente in carcere. La verità, presto o tardi, viene sempre a galla. Così è stato per me e così sarà per molti altri, ancora in carcere o liberi ma sotto processo.
Chiunque può determinarsi come meglio ritiene nelle scelte private, mettendo in conto che ciò potrebbe avere effetti negativi sul piano personale. Altra cosa, invece, sono le decisioni che comportano conseguenze non esclusivamente individuali e che potrebbero procurare un danno alla propria comunità, facendo così passare per egoismo e irresponsabilità le proprie legittime aspirazioni.
Fuori dalle istituzioni esistono d’altronde ampi spazi di intervento per contribuire alla crescita sociale e culturale del posto in cui si vive e per condurre, forse addirittura con maggiore libertà, importanti battaglie di civiltà.
«È un tempo che sfugge, niente paura/ che prima o poi ci riprende». Nessuno può sapere cosa ci riserverà il futuro. Ma ora, in questo particolare e delicato momento storico, Sant’Eufemia ha bisogno di tornare alla normalità e di recuperare, anche lei, un po’ di serenità.

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Le sommosse in carcere e la suggestione dei “papelli”

Foto Claudio Furlan – LaPresse 09 Marzo 2020 Milano (Italia) News Rivolta dei detenuti al carcere San Vittore a causa delle nuove misure per l’emergenza coronavirus

C’è voluta la commissione ispettiva del Dap per accertare ciò che sapevano tutti, o almeno tutti quelli che – come ha sottolineato “Il Dubbio” – hanno un minimo di conoscenza della realtà carceraria: dietro le rivolte di marzo 2020 non c’è stata nessuna regia della criminalità organizzata. Non poteva esserci per un semplice motivo, ben noto – ripeto – a chi conosce le dinamiche interne di un carcere. I detenuti dell’Alta sicurezza (il circuito nel quale vengono ristretti condannati al 416 bis, nonché gli imputati in attesa di giudizio per lo stesso reato) hanno una prospettiva detentiva molto lunga, per cui hanno tutto l’interesse a “farsi la galera”. Sono consapevoli che eventuali inconvenienti di “ordine pubblico” provocherebbero ritorsioni che andrebbero a colpire la qualità della loro vita: dispetti più o meno incresciosi e snervanti, chiusura delle celle durante il giorno (laddove è concessa), sospensione della “socialità” e di altre attività che in qualche modo alleggeriscono il peso di giornate sempre uguali. Può sembrare paradossale, ma i detenuti dell’Alta sicurezza sono quelli che danno meno problemi all’amministrazione penitenziaria. Chi deve trascorrere dietro le sbarre 10, 20 o più anni ha tutto l’interesse a farlo nel “migliore” modo possibile. Una spicciola questione di tornaconto personale.
D’altronde, sarebbe stato sufficiente verificare i singoli episodi. Su una ventina di casi, soltanto nel carcere di Melfi la protesta interessò il circuito dell’Alta sicurezza e i protagonisti non ebbero certo alcun trattamento di favore: qualche testa spaccata dai colpi di manganello arrivò anche a Palmi nei giorni successivi.
Tranne che in circoli mediatici ristretti, l’argomento carcere sconta sempre sentimenti di indifferenza o, peggio, di ignoranza. La verità era emersa subito, ma non era quella giusta, quella che poteva avere presa nell’opinione pubblica. Ad innescare le rivolte erano state la paura per la pandemia, in una fase in cui ancora non si aveva la chiara percezione di ciò che stava accadendo, e – soprattutto – la sospensione dei colloqui in presenza con i familiari. La successiva introduzione delle videochiamate, da questo punto di vista, è stata una misura provvidenziale.
Indubbiamente di forte suggestione era però l’ipotesi di rivolte orchestrate dalla criminalità organizzata, con annesso corollario di improbabili “papelli”, veicolata dai passacarte delle Procure e dall’antimafia da salotto. «Se tutti i documenti raccontavano la stessa favola, ecco che la menzogna diventava un fatto storico, quindi vera», ammoniva George Orwell nel capolavoro “1984”. Per cui, tutti a ruota della panzana, ministro Bonafede in testa.
Il cattivo – che esiste – è funzionale all’esercizio del potere. Senza scomodare studi autorevoli, ce lo ricorda la maschera creata da Antonio Albanese, il Ministro della Paura: «Senza la paura non si vive. Una società senza paura è come una casa senza fondamenta. Io trasformo la paura in ordine, e l’ordine è il cardine di ogni società rispettabile».
E chi se frega se i “cattivi” sono spesso in attesa di giudizio (quindi costituzionalmente ancora “buoni”), se i Comuni vengono sciolti con la formuletta imbevuta di pregiudizio “più probabile che non”, se gli imprenditori vengono ridotti al lastrico in via preventiva.
Di questo dovrebbe discutere una classe politica inerte nell’azione di concreto contrasto alla criminalità organizzata, la cui sconfitta necessita di servizi pubblici garantiti, di sviluppo e di lavoro nelle aree economicamente e socialmente depresse del Paese. Un sentiero accidentato, che si preferisce aggirare con gli arresti di massa e le misure di prevenzione, in barba alle più elementari garanzie costituzionali. Un percorso sbrigativo e rassicurante per l’opinione pubblica, ansiosa di vedere volare per aria le teste dell’Idra di Lerna. Che puntualmente ricrescono.

*Pubblicato su “Il Dubbio” (27 agosto 2022)

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L’ultimo saluto al professore Elio D’Agostino

Ci siamo ritrovati in tanti a Santo Stefano, stamattina, per porgere l’ultimo saluto al professore Elio D’Agostino. In una sorta di appello intergenerazionale, molti ex studenti del liceo scientifico “Fermi” di Sant’Eufemia d’Aspromonte si sono stretti alla moglie Elvira, ai figli Linuccia, Rocco, Cristian e Simone, con le rispettive famiglie. E se, mentre si svolgeva la funzione religiosa, la malinconia dei ricordi inevitabilmente strappava le ragnatele del tempo, l’affetto per il nostro vecchio professore di italiano e latino ha riportato tutti sul piano confortante dell’eredità culturale e morale da raccogliere e custodire come una gemma preziosa.
La mente è corsa velocemente a Dante. Le lezioni del professore D’Agostino sulle terzine della Divina Commedia ci tenevano incollati alla parola. Ci ha fatto scoprire il lato nascosto o comunque meno conosciuto delle interpretazioni dei versi danteschi. Era quasi un gioco andare a verificare se la sua spiegazione coincideva con le note del Sapegno. Anche se non ce n’era bisogno, perché lui stesso ci avvisava che per ogni terzina le spiegazioni potevano essere molteplici. Ce le proponeva tutte collegando il vicino con il lontano, l’alto con il basso, l’antico con il recente. Grazie a lui abbiamo amato il Sommo Poeta e sopportato la metrica latina.
Per tre decenni è stato un solido punto di riferimento all’interno della comunità eufemiese. Ha continuato ad esserlo anche dopo il pensionamento, quando non era infrequente vederlo partecipare ad iniziative culturali, in particolare quelle organizzate dall’Associazione “Terzo Millennio”. Seduto tra il pubblico, gli occhi semichiusi come a cercare il filo di un intervento che avrebbe messo tutti d’accordo, ognuno di noi attendeva che prendesse il microfono. Il silenzio che circondava le sue parole era la prova più evidente del riconoscimento di un’autorevolezza culturale assoluta.
Sono stati diversi gli allievi che andavano a trovarlo a casa, specialmente chi dopo la maturità aveva intrapreso un percorso universitario umanistico o chi aveva bisogno di consigli per la preparazione dei concorsi per docenti nelle scuole. È stato generoso con tutti, a dispetto della fama che lo dipingeva come un po’ avaro nella valutazione degli studenti. In realtà, D’Agostino non era severo nei giudizi. Era giusto, come dovrebbe essere ogni insegnante che abbia veramente a cuore il bene dei suoi ragazzi. La sua integrità morale garantiva l’accettazione di qualsiasi voto da parte di studenti e genitori. I voti bassi non erano un giudizio divino, ma un pungolo a fare di più e meglio. Traevano origine da un profondo senso del dovere, contro il quale imprecavamo quando, seppure leggermente in ritardo, arrivava a scuola nonostante la neve caduta nella notte lungo la strada che da Santo Stefano portava a Sant’Eufemia.
La mia generazione ha avuto la fortuna di trovare nel liceo di Sant’Eufemia docenti preparati ed educatori straordinari (Elio D’Agostino, Rosario Monterosso, Adoneo Strano), entrati nel cuore degli studenti e delle famiglie con la forza dell’esempio, dell’empatia, dell’umanità e dell’umiltà. Nel suo intervento sul sagrato della chiesa Francesco Luppino, allievo del “Fermi” e oggi primo collaboratore del dirigente scolastico dell’Istituto comprensivo “Don Bosco”, ha sottolineato l’importanza di D’Agostino nella formazione di intere generazioni di eufemiesi: «Ha dedicato la sua vita alla scuola non come un lavoro, ma come un dovere, sentendo profondamente la sua missione di educatore nel senso socratico, cercando di far emergere dagli alunni le loro singole potenzialità, incoraggiandoli ma nello stesso tempo con la sua fermezza, la sua serietà e il rigore morale richiamandoli al senso del dovere, aiutandoli, aiutandoci a maturare come uomini in mezzo agli uomini, con la responsabilità del sentirsi tali».
Il mio ultimo ricordo da liceale è legato alla prova orale dell’esame di maturità. Nel 1992 la commissione era composta da docenti esterni e da un solo rappresentante interno, che per la mia classe fu il professore Monterosso. La mattina in cui dovetti sostenere l’esame era però presente anche il professore D’Agostino, che aveva accompagnato la figlia Linuccia, mia compagna di classe. Mi vide vicino ad una finestra, mentre cercavo di concentrarmi e di tenere a bada la tensione. Si avvicinò e con la sua consueta calma mi disse: «Come va? Stai tranquillo. Vedrai che andrà tutto bene», con lo sguardo e il tono di voce del genitore, non del docente.
La comunità eufemiese piange insieme a quella di Santo Stefano la perdita di un grande figlio. In un pubblico manifesto affisso per iniziativa di Carmela Cutrì, allieva ed erede della cattedra che fu di D’Agostino, gli alunni transitati dal “Fermi” hanno preso in prestito le parole di Seneca («Da un uomo grande c’è qualcosa da imparare anche quando tace») per rivolgere al loro professore un saluto riverente: «Ha lasciato un segno indelebile in ognuno di noi, PROFESSORE. Grazie per i suoi insegnamenti, la sua grande umanità, la sua fermezza, la sua immensa cultura, il suo irreprensibile senso del dovere. Grazie per quanto ci ha donato».

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Morire di carcere

Se in Italia si registrassero 10,6 suicidi ogni 10.000 abitanti sarebbe un’emergenza? I giornali vi dedicherebbero approfondimenti, verrebbero scomodati sociologi e psicologi, la politica prenderebbe atto della condizione di disagio di una larga fetta di popolazione e del fallimento delle sue politiche sociali? Penso proprio di sì e sarebbe la cosa giusta da fare.
Ma in Italia i suicidi sono 0,67 ogni 10.000 abitanti: siamo tra i paesi europei ad indice basso; mentre è dentro le carceri che sono proprio 10,6 ogni 10.000 detenuti. Come sottolinea Antigone, “in carcere ci si leva la vita ben 16 volte in più rispetto alla società esterna”.
Con il suicidio nel carcere di Verona della ventisettenne Donatella (e chiamiamole per nome, che già sarebbe un bel passo in avanti distinguere le persone dai numeri), pochi giorni fa, sono ben 44 i suicidi registrati dall’inizio dell’anno: uno ogni cinque giorni. Un dato altissimo, ignorato da gran parte di un’opinione pubblica distratta o disinteressata. Chi se ne frega. Peggio per loro se hanno deciso di impiccarsi con le lenzuola, hanno inalato il gas delle bombolette dei fornellini da campeggio che si utilizzano per cucinare, hanno trangugiato un beverone di medicine. Avrebbero dovuto pensarci prima, delinquenti che non sono altro.
Io non ci riesco a non pensare a ciò che accade dentro le carceri, alle tante ingiustizie che vivo come coltellate sulla mia pelle. Forse è vero che, una volta che ci entri, con la testa resti là dentro per sempre. E se chiudo gli occhi, sento ancora nelle orecchie le urla dei detenuti e il rumore metallico e spaventoso della battitura in tutti i padiglioni la notte che un detenuto si tolse la vita a Santa Maria Capua Vetere, nel luglio del 2020. Una rabbia impotente che non poteva superare la recinzione del carcere. Nessuno ascolta, nessuno può ascoltare, neanche se si è in mille a gridare, a percuotere le scodelle, a scaraventare le brande contro la porta blindata. I detenuti sono fantasmi invisibili, le loro voci sono destinate a spegnersi nel buio.
In Italia è stata abolita la pena di morte, ma morire di carcere equivale a mantenere in vigore questo barbaro castigo. Ai suicidi vanno infatti aggiunti i decessi di gente che là dentro non dovrebbe starci: anziani, malati di tumore, detenuti psichiatrici, tossicodipendenti, cardiopatici come l’ultima vittima, un settantaduenne morto d’infarto a Secondigliano la settimana scorsa.
Se ti affido qualcosa in custodia, hai l’obbligo di restituirmela integra. Dovrebbe valere anche per la custodia in carcere: io, Stato, affido in custodia a te, carcere, il detenuto. I detenuti dovrebbero uscire dalle strutture penitenziarie sulle proprie gambe, non dentro una cassa da morto. Di chi è la responsabilità se questo non avviene?
Nelle celle vivono detenuti che ancora non hanno subito neanche il primo grado di giudizio e molti altri non condannati definitivamente. Tra questi, migliaia di innocenti. Non tutti hanno la forza di resistere all’umiliazione e alla vergogna. Ci sono poi soggetti fragili, che andrebbero aiutati, ma il sovraffollamento e la penuria di figure professionali (educatori) non permette un’assistenza adeguata. Infine vanno considerate le oggettive condizioni di calpestamento della dignità umana: mancanza d’acqua, caldo insopportabile, sospensione delle attività trattamentali nel periodo estivo, sadiche assurdità regolamentari. In carcere si è sempre soli, d’estate in misura maggiore. Eppure per molti basterebbe anche soltanto la concessione di qualche telefonata a casa in più per tirarsi su di morale.
C’è una questione di fondo che non si vuole vedere. Compito dello Stato è assicurare la sicurezza dei propri cittadini, impedire la reiterazione dei reati, favorire il reinserimento sociale del reo. Poiché la visione carcero-centrica dell’esecuzione penale ha fallito su tutti i fronti, sarebbe il caso di cambiare strategia e strumenti. Ma un dibattito del genere necessiterebbe di una classe politica coraggiosa e illuminata, capace di prenderne atto e di sfidare l’impopolarità senza piegarsi al giustizialismo imperante.

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La sera dei miracoli

Al civico numero 7 di vicolo del Buco, a Trastevere, una targa ricorda una delle più belle canzoni di Lucio Dalla, “La sera dei miracoli” (1980), dedicata dal cantautore bolognese a Roma, dove visse tra il 1980 e il 1986: «Una canzone – spiegò anni dopo – che ho scritto in un momento di fuoco di Roma, bellissimo in un’estate come questa, di parecchio tempo fa. Io tornai a casa, abitavo a Trastevere, mi misi al pianoforte. Avevo visto Roma incendiata da feste, da canti, da gente ubriaca bene. Da veramente un momento di grande gioia collettiva».
Gli anni di piombo stanno per finire, si comincia a respirare un desiderio di normalità, di leggerezza, di “effimero”, di vita, dopo un cupo decennio di morte. Interprete di questo sentimento di rinascita fu a Roma l’architetto Renato Nicolini, assessore alla cultura dal 1976 al 1985 nelle giunte di sinistra guidate dai sindaci Giulio Carlo Argan, Luigi Petroselli e Ugo Vetere, il quale ideò l’Estate Romana, un esperimento visionario che rivoluzionava il rapporto cultura/masse e abbatteva gli steccati tra élite e popolo con manifestazioni di piazza (spettacoli teatrali, musicali, proiezioni cinematografiche, reading) fruibili da tutti gli strati sociali.
La canzone di Lucio Dalla fa riferimento proprio al “miracolo” realizzato da Nicolini, il quale avrebbe lasciato testimonianza di quel periodo di straordinaria creatività in un prezioso volume edito da Città del Sole: Estate romana. 1976-85: un effimero lungo nove anni (2011).
“La sera dei miracoli” esprime la gioia collettiva dell’Estate Romana, ma ad un livello più alto e universale è un inno alla ripartenza nel quale chiunque può specchiarsi, sia individualmente che collettivamente. Accade ogni volta che dal profondo di ciascuno di noi sale un impellente desiderio di ricominciare a vivere e di lasciarsi alle spalle dolore, ansie e preoccupazioni.
La sera, iniziata con qualcuno intento a fare a pezzi con la bocca una canzone, con il trascorrere delle ore trasforma la città nella visione onirica, felliniana, di una nave sulle onde. Ovunque c’è gente che corre, il protagonista cerca di individuare in tutta quella confusione la propria stella: «Perché mi perderei/ se dovessi capire che stanotte non ci sei», confessa in due versi da brividi.
Il miracolo si compie nel finale, quando la notte sta per finire. Qualcuno, ora, ha sanato la frattura iniziale scrivendo una canzone, mentre “lontano una luce diventa sempre più grande” e la nave può finalmente fare ritorno per portare tutti a dormire. Con nel cuore la promessa di un nuovo inizio.

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17 luglio 1976: intitolazione della piazza “Aid Committe”

Negli anni Ottanta mi è capitato spesso di giocare all’interno della piazza “Aid Committee” (oggi “Maresciallo Azzolina”), allora poco più di una spianata tra le vie Michele Fimmanò e Tenente Rechichi, ai piedi della scalinata della chiesa di Sant’Ambrogio. Una denominazione per me misteriosa, la cui origine avrei scoperto grazie a quella miniera di informazioni storiche su Sant’Eufemia d’Aspromonte che è stata la rivista “Incontri”. A soddisfare la mia curiosità fu il compianto professore Francesco Marafioti, autore di un articolo biografico dedicato a Vincenzo Ascrizzi, presidente del comitato di aiuti italoamericano per il quale, il 17 luglio 1976, il consiglio comunale deliberò l’intitolazione della piazza.
Nato a Sant’Eufemia l’8 settembre 1904, Ascrizzi si era diplomato in ragioneria nel 1924 presso l’Istituto tecnico di Reggio Calabria, quindi era emigrato negli Stati Uniti e si era stabilito a Brooklyn, dove lavorò alle dipendenze della “Bank of America” e della “National City Bank”.
Dopo essere diventato manager della “Sunland Beverage Company”, nel 1947 aprì due agenzie di viaggio a New York e fu presidente dell’Avia Tours Inc., che aveva la rappresentanza esclusiva della “Siosa Lines” di Napoli.
“Self-made man” capace di realizzare il “sogno americano” e di dare lavoro a una ventina di dipendenti, Ascrizzi non dimenticò mai la propria terra d’origine, grazie all’intensa attività di beneficienza che caratterizzò la sua vita. Nel 1963, il presidente della Repubblica Antonio Segni gli conferì la “Stella della solidarietà di seconda classe” e il titolo di commendatore (nel 1972, ricevette la “Stella della solidarietà di prima classe” e il titolo di Grande Ufficiale); nel 1965, fu nominato cavaliere dell’Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme; nel 1968, cavaliere di Gran Croce; nel 1973, cavaliere del supremo ordine militare di Malta.
Da presidente del “Sant’Eufemia Aid Committee” (costituito a New York nel 1966) fu promotore della raccolta di fondi destinati alla ricostruzione delle chiese del paese distrutte dal terremoto del 1908, alla realizzazione del monumento ai caduti, a lavori da realizzare nella scuola media, nelle strade e nella rete idrica, all’acquisto di un’autoambulanza, al finanziamento dell’Istituto antoniano delle “Figlie del Divino Zelo”.
Le iniziative del Comitato riavvicinarono eufemiesi distanti migliaia di chilometri, facendoli sentire comunità e protagonisti di una storia condivisa.
Nel resocontare per “Incontri” la notizia dello svolgimento delle esequie, partecipate a New York da una folla immensa, il tre volte sindaco di Sant’Eufemia Diego Fedele elogiò l’uomo “di grande ingegno” che “spese la sua vita per aiutare quanti avessero bisogno”: «Fu suo vanto aver contribuito, affiancato nella sua generosa opera dal “S. Eufemia AID Commitee” di cui era presidente ed animatore, alla realizzazione in S. Eufemia di importanti opere pubbliche che si trascinavano insolute da decenni tra difficoltà insormontabili». Un “gentiluomo”, concludeva Fedele, che “sarà ricordato dagli amici anche per quel suo sorriso franco e sincero che metteva tutti a proprio agio, proprio come solamente un vero amico riesce a fare”.

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Sale la temperatura nelle carceri: sovraffollamento e carenza d’acqua

Il Dubbio, 9 luglio 2022

L’espressione “stare al fresco” appare particolarmente sadica d’estate, quando le mura delle carceri sono roventi per il sole che picchia tutto il giorno, rendendo i pochi metri quadrati delle celle un forno insopportabile. Nei penitenziari, le alte temperature elevano al quadrato la situazione emergenziale che si vive nel mondo libero, per il surplus di disagio dovuto alla totale assenza di rimedi alla calura.
All’arrivo delle prime ondate di calore, puntualmente si levano le voci dei pochi che si fanno portavoce delle problematiche carcerarie: garanti dei detenuti, associazioni radicali, chiesa, qualche avvocato.
Dietro le sbarre ogni estate è uguale alla precedente, per ignoranza: nel senso etimologico di “ignorare” una realtà drammatica che necessiterebbe di interventi strutturali.
Il “mondo di fuori” non sa niente di sovraffollamento e di carenza di acqua, con tutto ciò che ne consegue sulla qualità dell’esecuzione della pena e del grado di umanità che caratterizzano la vita carceraria. Senza contare che l’opinione prevalente è che, in ogni caso, ai detenuti “ben gli sta” soffrire: le carceri non devono essere hotel a cinque stelle. Questione culturale, certo, per il cui superamento occorrerebbe una sensibilità che non può maturare dall’oggi al domani.
Sembra assurdo, ma esistono carceri con le celle prive di docce, per cui il detenuto può accedere a quelle comuni una sola volta al giorno e in orari prestabiliti, generalmente entro le 16.00. Dopo tale orario, per rinfrescarsi occorre accontentarsi dell’acqua del lavandino o delle bottiglie, mettere continuamente a mollo le magliette e indossarle bagnate, oppure ingegnarsi nella realizzazione del cosiddetto “canotto” con i sacchi della spazzatura.
Nella stragrande maggioranza dei penitenziari non è consentito acquistare piccoli ventilatori. È già tanto se viene tollerata la copertura della finestra con i teli da doccia per attutire il passaggio dei raggi del sole. Di notte, invece, laddove i letti a castello non sono imbullonati al pavimento, vengono spostati al centro della cella, come un catafalco, per scostarli dalle pareti infuocate e potere così “godere” del refolo d’aria che soffia tra la finestra e il cancello.
Il passeggio avviene nelle fasce orarie più calde, in cortili che spesso sono torride scatole di cemento, prive di un angolo d’ombra. Molti detenuti cardiopatici, ipertesi, o semplicemente anziani, si ritrovano così a subire un’afflizione ulteriore e gratuita, poiché – giustamente – scelgono di non usufruire delle ore d’aria. Si tratta probabilmente di un problema organizzativo interno che, proprio per questo, potrebbe essere superato con una razionalizzazione del lavoro più attenta ai bisogni e ai diritti della comunità carceraria.
In molte carceri mancano i frigoriferi nelle celle e i congelatori nelle sezioni. Si beve acqua a temperatura ambiente, bollente, mentre i familiari riducono al minimo l’invio di alimenti e cibi cotti, poiché, anche a causa delle lungaggini delle consegne, andrebbero rapidamente in putrefazione.
Il giurista Piero Calamandrei ammoniva che, per rendersi conto della condizione delle carceri, bisogna averle viste. Chi ha avuto in sorte un passaggio più o meno lungo da una struttura penitenziaria ha il dovere morale e civile di non valutare quell’esperienza come una parentesi dolorosa della propria vita, da dimenticare. Per una questione di dignità: la propria e delle migliaia di detenuti ristretti nelle carceri italiane, nonché quella di uno Stato che si professa di diritto. Considerare cioè la propria detenzione il seme di una pianta che possa un giorno germogliare e dare frutti di umanità.

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5 luglio 1914, il giorno della pacificazione eufemiese

Quando si parla di “data storica” per una comunità, il rischio di scadere nella retorica è sempre in agguato. Non è il caso del 5 luglio 1914, che nella storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte segnò la fine delle aspre divisioni sulla ricostruzione del paese seguite al terremoto del 28 dicembre 1908. Il terribile sisma – che aveva provocato circa 700 vittime e la perdita dell’85% del patrimonio edilizio – ripropose la questione, già vissuta dopo il “fracello” del 5 febbraio 1783, del trasferimento dell’abitato nell’area denominata Pezza Grande. Nel 1783 prevalsero i fautori della ricostruzione nelle aree allora edificate (Paese Vecchio e Petto). Dopo il 1908 le cose andarono diversamente, determinando l’odierno assetto urbanistico del paese con i suoi tre grandi rioni: Paese Vecchio, Petto e, appunto, Pezza Grande. Anche nella riedizione di quel drammatico scontro la polemica tra i sostenitori delle due contrapposte tesi fu violentissima. Da un lato si trovarono gli ex sindaci Francesco Capoferro, Antonino Condina-Occhiuto e il medico condotto nonché grande oratore Bruno Gioffré, che incendiava gli animi degli eufemiesi invitandoli alla resistenza. Nel campo opposto svettava la prestigiosa figura dell’anziano commendatore Michele Fimmanò, per oltre sessant’anni dominatore assoluto della scena politica eufemiese e regista delle elezioni comunali che a maggio 1910 incoronarono sindaco il notaio Pietro Pentimalli.
Il 14 ottobre 1911 la giunta guidata da Pentimalli inviò al presidente del consiglio Giovanni Giolitti e al ministro dei lavori pubblici Ettore Sacchi un promemoria (“Per la riedificazione di Santeufemia d’Aspromonte”) a sostegno del trasferimento del paese nel nuovo sito, che andava a confutare le ragioni del fronte opposto, compendiate nel parere espresso due anni prima dal geografo Mario Baratta (“Per la ricostruzione di Sant’Eufemia d’Aspromonte distrutta dal terremoto del 28 dicembre 1908”). Il governo nazionale sposò la linea di Fimmanò e di Pentimalli, il quale aveva comunque accordato alcune eccezioni provvisorie, in attesa dell’approvazione del piano regolatore. Ma nonostante l’apertura del sindaco, la tensione tra gli schieramenti in campo raggiunse livelli di guardia così alti che più volte rischiò di scapparci addirittura il morto.
Il pericolo di una deriva drammatica convinse “i migliori elementi delle due parti” a sedersi attorno ad un tavolo per trovare una sintesi, che fu concordata con il deputato reggino Giuseppe De Nava, garante ministeriale di un’operazione che teneva insieme tutto: rielezione di Pentimalli nelle elezioni comunali del 1914, edificazione del paese nella nuova area e abrogazione del divieto di ricostruzione nelle aree distrutte dal terremoto.
Probabilmente mai più gli eufemiesi sono riusciti a fornire una lezione così alta di unità di intenti. Gli individualismi furono messi al bando da una generazione responsabile che trovò nel sindaco Pentimalli una guida illuminata (il quale meriterebbe un approfondito e specifico studio biografico), capace di portare fuori dalle tenebre un popolo distrutto moralmente e materialmente. Esempio fulgido di come, di fronte alle avversità, occorre fare quadrato se si vuole dare prova di maturità e di una visione nobile, non condizionata da interessi e ambizioni personali.
Ecco perché la chiusura del discorso pronunciato da Pentimalli il 5 luglio 1914, giorno della posa della prima pietra del nuovo palazzo municipale, rappresenta un inno alla concordia e all’amore per il superiore bene comune che sempre dovrebbero animare chi ha l’onore di rappresentare la comunità nelle istituzioni: «Attorno a questa pietra, come attorno ad un’ara, deponemmo, in sacrificio magnifico, tutte le nostre passioni, purificando l’anima nel più sublime ideale che arrida agli umani: l’amore della nativa terra. Sia fatidica la data che accomuna la rinascita della nostra città a quella degli spiriti composti a feconda pace».

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Il custode delle parole

Anche nell’Aspromonte c’è stato un tempo in cui, come nella Macondo di Gabriel Garcia Màrquez, “il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito”. Ogni cosa ebbe poi un nome, ma, più tardi, i nomi furono cancellati e con essi la civiltà che li aveva prodotti, esito funesto del processo di omologazione culturale denunciato da Pier Paolo Pasolini mezzo secolo fa, che spazzò via i dialetti e ridusse “tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell’espressività”.
Il nuovo romanzo di Gioacchino Criaco (Il custode delle parole, edito da Feltrinelli) è un libro dalle molteplici suggestioni. Riecheggia il monito di Corrado Alvaro sulla “civiltà che scompare” e sulla quale “non c’è da piangere, ma bisogna trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie”. Criaco non piange, anzi indica la via di una possibile rinascita offrendo al lettore, alla maniera dell’ottico “mercante di luce” di Edgar Lee Masters e Fabrizio De Andrè, le lenti speciali per “rubare il sole” e consentire a chi avrà freddo di riscaldarsi: verbo che, non a caso, nel grecanico ha la stessa etimologia del termine “cuore”.
Il custode delle parole è un poema sull’Aspromonte tutt’altro che incline al compiacimento o al vittimismo. Ci è stato rubato tutto, perché noi per primi ci siamo svenduti e abbiamo rinunciato a tutto. Perché abbiamo fatto la fine degli indiani d’America, fregati “con un po’ di acqua di fuoco e un mucchio di perline colorate”: questa la sorte dei pastori africoti deportati sul mare dopo l’alluvione del 1951 e lì costretti a vivere, rinunciando alla propria identità montanara. Le responsabilità dello scippo vanno equamente divise tra noi e “loro”, i nemici della Calabria. Ci siamo fatti scippare le parole, ma “se a un popolo rubano le parole, quel popolo è morto. E la nostra gente non vive più già da qualche secolo: è morta e non lo sa”.
Passaggio obbligato del riscatto deve essere dunque la riappropriazione di un linguaggio e di una storia millenari, che nel romanzo hanno il volto di Andrìa Amèroto. Il vecchio pastore che sabota le dighe e sa cosa è giusto fare – anche se quel giusto è “troppo difficile da praticare”, perché “qui tutti siamo colpevoli per la legge, retti e loschi” – ha realizzato il suo sogno di libertà tra gli alberi dell’Aspromonte. Ascoltando anche i silenzi, in uno spazio dove nessuno può dirgli cosa deve fare, e vivendo pienamente la propria storia: quella di custode delle parole “per un popolo che le ha perse e vaga, negli anfratti delle nuvole”. Parole che “mette in un piatto e gli apre la pancia con il coltello”.
Cosa fare della propria vita, invece, non lo sa il nipote (Andrìa, come il nonno), lavoratore precario in un call center insieme alla battagliera fidanzata Caterina, nata in Francia da genitori emigrati e ritornata nella Locride. Fino a quando non salva il profugo libico Yidir, il quale diventa aiutante del nonno, che lo tiene clandestinamente con sé. La lenta presa di coscienza consentirà al giovane Andrìa di superare il lacerante conflitto interiore tra restare e partire, che in fondo sono due facce dello stesso coraggio.
Per costruire il futuro, è necessario recuperare il passato nella sua autenticità ed originalità. Si può così scoprire l’inganno non puramente semantico di una montagna lucente che altri hanno decisa aspra e ostile, distorcendone l’etimologia. O che la morte stessa può rappresentare un inizio, poiché i vocaboli morire e volare, nel greco aspromontano, sono quasi identici: “al posto di morire si può dire volare. E chi vola non muore mai”.

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La sconfitta referendaria

L’astensione al referendum sulla giustizia è stata talmente alta che tutte le ragioni di un fallimento di così vasta portata sono probabilmente valide. Una considerazione di carattere preliminare, che esula dai temi dei quesiti, va comunque fatta: dal 1997 ad oggi si sono tenuti nove referendum abrogativi e soltanto una volta (2011) il quorum è stato raggiunto. A testimonianza dello scarso appeal dello strumento di democrazia diretta previsto dalla Costituzione, almeno così com’è strutturato.
Poi, ovviamente, esistono ragioni più contingenti. Dalla selezione dei quesiti operata dalla Corte costituzionale, che ha cassato quelli che avrebbero “tirato” di più, alla scelta della data nella quale gli italiani sono stati chiamati alle urne, allo svolgimento della votazione in un’unica giornata, al silenziamento del dibattito politico operato dai mezzi di informazione. Senza dimenticare che la disaffezione degli italiani al voto viene ormai confermata ad ogni appuntamento elettorale da diversi anni. Basti pensare ad elezioni amministrative che, domenica, hanno registrato la partecipazione di neanche il 50% degli aventi diritto al voto. L’astensione fisiologica e l’indicazione di disertare le urne hanno così consentito di centrare con facilità l’obiettivo di fare saltare il referendum.
Per raggiungere il quorum sarebbe stata necessaria una mobilitazione massiccia, impossibile senza il coinvolgimento delle strutture partitiche. Che non c’è stata per le posizioni contrarie o pilatesche dei maggiori partiti politici. Neanche la Lega, che pure era tra i promotori del referendum, ha dato segni di vita, a differenza di quando furono raccolte le firme. A conferma di quanto quella iniziativa fosse stata essenzialmente strumentale, come molte altre di Salvini sui più svariati temi politici. D’altronde, non è una novità che il leader della Lega sia capace di sostenere oggi una posizione e l’indomani il suo contrario. Con il risultato di non avere alcuna credibilità e di generare soltanto confusione: non si può essere lunedì manettari e martedì dimostrarsi sensibili al tema dell’iniquità della carcerazione preventiva. Oltretutto, laddove c’era da eleggere un sindaco, gli esponenti della Lega hanno preferito concentrare le proprie forze sulla campagna elettorale per le amministrative.
Mi sento di escludere che la “colpa” sia degli elettori che domenica hanno preferito andare al mare. Se gli italiani non hanno compreso l’importanza delle questioni sulle quali avrebbero dovuto esprimersi, vuol dire che il messaggio, per le ragioni già espresse, non è passato.
Ciò non toglie che le questioni dello stato di diritto e del funzionamento della giustizia in Italia rimangono di stretta attualità. Non bisogna arretrare, anzi è di vitale importanza proseguire in una battaglia che riguarda tutti, anche gli otto italiani su dieci che in questa circostanza hanno preferito fare altro.

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