16 novembre 1894

Casa diroccata

Il terremoto che il 16 novembre 1894 colpì il circondario di Palmi provocò 98 vittime e danni ingentissimi. Una scossa di sedici lunghissimi secondi rase al suolo cittadine e villaggi, con il triste primato di San Procopio, che ebbe 48 vittime: sette furono inoltre registrate a Bagnara (alle quali vanno aggiunte le sei della frazione Solano), otto a Seminara e altrettante a Palmi, epicentro del sisma del 6.1 grado della scala Richter; altre a Melicuccà, Sinopoli, Santa Cristina e Delianuova. Un numero che per Palmi sarebbe stato ben più elevato se in quei giorni la città non fosse stata teatro di un avvenimento successivamente riconosciuto dalla Chiesa come miracolo: il movimento degli occhi della statua della Madonna del Carmine. Grazie alla processione organizzata il 16 novembre, la popolazione si trovava per strada quando la terra tremò e le case cominciarono a crollare.
Sant’Eufemia fu semidistrutta. Delle sette vittime, cinque risiedevano nel Paese Vecchio, le altre due al Petto: Concetta Bagnato, 37 anni; Grazia Maria Monterosso, 72 anni; Antonino Condina, 36 anni; Maria Antonia Cutrì, 3 anni; Angela Nocito, 88 anni; Natale Occhiuto, 2 anni; Carmina Zagari, 95 anni. Più di 200 furono i feriti. La chiesa Matrice subì lesioni molto gravi, quella del Purgatorio rovinò parzialmente, quella del Petto crollò quasi completamente; 212 abitazioni crollarono totalmente, 326 parzialmente, 432 furono gravemente danneggiate e 188 lesionate in modo lieve. I danni furono quantificati in circa due milioni di lire.
La rivista “Fata Morgana” pubblicò la testimonianza dello storico eufemiese Vittorio Visalli, che dal 1892 era vicedirettore della scuola normale di Messina, città nella quale risiedette fino al terremoto del 1908, nel quale perirono la moglie Giuseppina Augimeri e la figlia Maddalena: «Eran quasi le sette di sera, quando un ruggito sotterraneo, lungo sibilante, annunziò la catastrofe: ed ecco un urto immane, una rapida vibrazione di sotto in sopra, da sinistra a destra, e le case oscillano, sbattono le imposte, i quadri si staccano dalle pareti, le travi scricchiolano come i fianchi di una nave in tempesta. Perdo l’equilibrio, mi appoggio allo stipite di un balcone, e vedo turbinare in un vortice i palazzi, i fanali accesi, la gente nella strada, e un vento caldo e furioso m’investe tutta la persona. Corro a prendere nelle braccia la mia bambina che dormiva, e preceduto dalle donne di case allibite e singhiozzanti, scendo all’aperto».
Il giorno successivo, Visalli attraversò lo Stretto e giunse nel paese natio: «Sant’Eufemia è distrutta. Un’ansia affannosa deprime l’energia dei superstiti, erranti per le campagne, senza lavoro, senza cibo, mentre le piogge cadono dirotte e la neve già si affaccia dai culmini dell’Aspromonte. Addio, mia povera e cara dolce casetta nativa! Quando mio nonno ti fece costruire e mio padre ingrandire, quando io bambino tornava di scuola a ricevere in te il premio d’un bacio materno, eri tanto lieta e graziosa che non avrei sognato mai di doverti un giorno rimirare in così misero stato. Il mio piccolo nido sembra oggi un sepolcro abbandonato; ed i muri esterni incombono sovr’esso come scheletri minacciosi o crollanti».
Sui luoghi colpiti dal disastro giunsero reparti di truppa e squadre di operai sottoposti agli ordini del maggiore del Genio civile Angelo Chiarle, i quali si occuparono della demolizione delle case diroccate, della rimozione delle macerie, del puntellamento delle abitazioni recuperabili, della costruzione delle baracche, della distribuzione di indumenti e di alimenti, dello svolgimento di servizi di pubblica sicurezza. A fine febbraio 1895 furono consegnate 64 baracche: la chiesa, l’ospedale, le scuole femminili, il municipio, l’ufficio telegrafico e l’ufficio postale, oltre alle “baracche varie”. Furono inoltre puntellate 32 case, demoliti totalmente 5 fabbricati e parzialmente 64. Un anno dopo, l’area denominata “Pezza Grande” risultava così occupata da un vasto baraccamento strutturato con strade, piazze, una chiesa e una rivendita di privativa, che ospitava più di 200 famiglie e che costituì il primo nucleo urbano dell’assetto che Sant’Eufemia avrebbe definitivamente assunto dopo il terremoto del 1908, quando fu edificato l’intero omonimo rione.

Campanile Chiesa del Purgatorio
Chiesa S. Eufemia V.M.
Chiesa del Purgatorio

Foto tratte da: “Il terremoto del 16 novembre 1894 in Calabria e Sicilia. Relazione scientifica della Commissione incaricata degli studi dal Regio Governo”, Roma 1907.

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Once upon a time in Calabria: stories of Sant’Eufemia

Qualche anno fa scrissi del poema-diario di Giuseppe Ciccone (Trough the circles of hell: a soldier’s saga, Relicum Press 2016), un preziosissimo documento sulla prima guerra mondiale pubblicato a cura della figlia Tina (Fortunata) e del nipote Joseph Richard Ciccone, professore di Psichiatria presso l’Università di Rochester.
La storia di Tina è singolare. Dopo un’intera esistenza trascorsa negli Stati Uniti (l’ultimo suo viaggio in Italia risale a mezzo secolo fa), che ne aveva quasi cancellato il passato italiano, calabrese ed eufemiese, giunta alla terza età si è dedicata al recupero delle proprie radici. L’ultimo frutto di questo esercizio della memoria è un omaggio a figli, nipoti e pronipoti: Once upon a time in Calabria: stories of Sant’Eufemia, uno spaccato degli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso a Sant’Eufemia d’Aspromonte.
Il capofamiglia va avanti e indietro dagli Usa e ogni volta che lascia il paesino ha un figlio in più: Luigi, Nino, Orsola, Rosa e Tina. Gradualmente, tutta la famiglia raggiunge il genitore, tranne Orsola, che si trasferisce a Roma dopo il matrimonio con il ragazzo che per cinque anni percorre in bicicletta la strada da Delianuova per poterla corteggiare mentre si approvvigiona d’acqua in una fontana pubblica. Nel 1950 giungono infine negli Stati Uniti la diciannovenne Tina e la mamma, Francesca Pillari.
L’emigrazione era allora un fenomeno caratterizzato da mesi, anni di silenzi. Quando arrivava una lettera, per tutto il giorno era festa tra le mura di casa Ciccone, un’abitazione con giardino che era stata residenza estiva dei Ruffo e nella quale, secondo una leggenda locale non riscontrata, aveva addirittura pernottato Garibaldi.
Francesca, che da bambina aveva casualmente incontrato il brigante Giuseppe Musolino, è una sorta di autorità medica, in virtù della frequentazione dello studio del medico condotto Bruno Gioffré-Napoli, la cui immensa libreria è per Tina un luogo magico oltre che di formazione. Emblematico l’episodio del parto podalico, portato a termine senza procurare danni né alla neonata né alla partoriente.
Sono tempi difficili, caratterizzati da un’alta mortalità infantile. Tina conosce presto il volto della morte, quando perde una compagna di scuola per una malattia sconosciuta che la consuma nel giro di pochi giorni. Ogni tanto in paese si sviluppa un incendio che distrugge le baracche in legno. Ninuzzo, il primo ad accorrere ovunque quando si trattava di domare le fiamme, muore mentre tenta di spegnere il fuoco che divora la sua abitazione.
I “quadri” storici di Tina sono popolati dagli artigiani del tempo, veri e propri “artisti”: scultori, orafi, ebanisti, calzolai, sarti. Sono gli anni del consenso al regime fascista: «Non avevamo idee politiche, ma eravamo felici di indossare le uniformi, di marciare, di fare gli esercizi ginnici». Tina stessa partecipa e vince un concorso, per il quale viene premiata a Reggio Calabria, sviluppando la traccia “Cosa significa per te essere un balilla o una giovane italiana?”.
Molte ragazze vanno dalle suore e imparano a cucire, a lavorare a maglia, a ricamare, a stirare: tutto ciò che serve per diventare brave donne di casa. La società è patriarcale e non priva di pregiudizi. Domenico, il figlio del fornaio, viene appellato “il poeta” perché porta i capelli lunghi e veste in modo eccentrico. La sua omosessualità è “una vergogna per la sua famiglia”, tanto che il padre perde i clienti e le sorelle non riescono a trovare marito. Maria non viene assunta come domestica dai Gioffré–Napoli perché è una ragazza madre. Un’altra giovane è molto chiacchierata perché troppo “moderna” e la stessa Tina viene rimproverata dalla madre quando prova il rossetto: «Cosa direbbe tuo padre se ti vedesse?». Quel padre lontano ma presente, in posa nella foto incorniciata e tenuta accanto a quella del presidente statunitense Franklyn Delano Roosvelt, che precauzionalmente finirà in fondo al baule della biancheria negli anni del secondo conflitto mondiale.
I ricordi più dolorosi sono legati alla guerra, il cui andamento Tina e la mamma seguono alla radio. Alcuni eufemiesi ospitano gli sfollati dei paesi vicini colpiti dai bombardamenti e, quando fa buio, scatta l’ordine di oscurare le finestre con i vestiti del lutto, per non dare punti di riferimento all’aviazione alleata. La popolazione si rifugia nella galleria o in tunnel scavati sui costoni della montagna. La prima volta Tina avverte un forte senso di claustrofobia, stringe forte la mano della mamma, non riesce a dormire.
Ma poi la guerra finisce e si può tirare un sospiro di sollievo. Non avendo altro, la popolazione festante regala ai liberatori frutta di stagione, ma ci sono anche strascichi negativi. Le armi abbandonate dai tedeschi in fuga finiscono nelle mani sbagliate e delinquenti terrorizzano il paese con furti, richieste di soldi e soprusi. Bruno torna traumatizzato dai campi di prigionia in Germania, pronuncia parole senza senso e ripete ossessivamente nome, numero di matricola, plotone di appartenenza. A Cosimo, compagno di giochi di Tina, un ordigno trovato nei campi dell’Aspromonte strappa un braccio.
I ricordi di Tina sono stati messi nero su bianco, in lingua inglese, per una diffusione “familiare”. Eppure, nonostante qualche inesattezza storica e l’inevitabile ripetitività di alcuni passaggi, il libro ha il pregio di ricostruire con dovizia di particolari un periodo storico importante anche per la piccola comunità eufemiese.
La storia, quella grande così come quella piccola, risulta di difficile comprensione se non si segue la raccomandazione storicistica dell’autrice: non si può giudicare ciò che è stato utilizzando i valori di oggi; non si può guardare al passato indossando gli occhiali del presente.

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Angeli in camice

«Io so che gli angeli sono milioni di milioni/ E non li vedi nei cieli ma tra gli uomini». Pensavo ai versi di Lucio Dalla (“Se fossi un angelo”), mentre oggi pomeriggio con altri volontari dell’Agape e con il parroco don Marco mi trovavo all’interno della RSA “Mons. Prof. Antonino Messina”.
Di recente, in due circostanze siamo riusciti a recarci presso la struttura per anziani di via Silvio Pellico, con le dovute precauzioni. Indossiamo la mascherina e, dopo la rilevazione della temperatura corporea all’ingresso, ci fermiamo nelle scale che portano alla sala destinata alle attività comuni e alle visite familiari. Dai gradini, guidati da don Marco, recitiamo insieme ad alcune operatrici il Santo Rosario per gli anziani radunati al centro della sala, sotto.
Vorremmo fare di più, ma per il momento non si può e credo sia giusto così.
Alla struttura, agli anziani che in oltre due decenni vi hanno trascorso il loro ultimo tratto di vita e a tutti coloro che vi lavorano siamo particolarmente legati. Molte delle cose che abbiamo imparato sono di difficile spiegazione, come quella capitata oggi. Appena una signora affetta da Alzheimer ha cominciato ad agitarsi sulla poltrona e a gridare, le si è accostata un’operatrice che le ha preso la mano e, tenendola stretta alla sua e accarezzandola, in pochi secondi è riuscita a calmarla.
Vorrei mettere da parte ogni accento retorico, ma credo che “miracoli” del genere ci riportano ad una dimensione umana alta ed essenziale, che lascia a terra giornate spesso pienissime di niente.
L’angelo di Lucio Dalla oggi indossava una divisa da Oss.

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Tesseramento Associazione Terzo Millennio

Venticinque anni di attività costituiscono un traguardo importante, significativo. Dicono molto sull’impegno di soci e volontari, sulla loro determinazione e sulla loro generosità, sull’amore per il proprio paese e sulla convinzione che, per rendere migliore il posto in cui si vive, occorre sporcarsi le mani. Darsi letteralmente da fare. Sembra semplice, ma non è così, perché se non si ha dentro di sé una forte motivazione, risulta complicato trovare il tempo per contribuire all’organizzazione di qualsiasi iniziativa.
Dal 1997 ad oggi l’Associazione Terzo Millennio ha incarnato lo spirito più nobile dell’associazionismo, inserendosi con pieno merito tra le realtà aggregative e propositive più vivaci nella storia della nostra comunità. Sant’Eufemia, da sempre, ha avuto nelle sue associazioni culturali, di volontariato e sportive un formidabile punto di forza. Un patrimonio straordinario, che va tutelato e sostenuto, ancor di più in questo particolare momento storico, caratterizzato da un preoccupante disimpegno.
Gli ultimi tre anni sono stati molto duri: la pandemia ha provocato una inevitabile flessione delle attività delle varie associazioni eufemiesi e, di conseguenza, il paese ha perso quella sua caratteristica dinamicità sociale e culturale. Ora occorre però reagire e sono convinto che toccherà alle associazioni riannodare il filo di un discorso interrotto, lavorando in sinergia con la prossima amministrazione comunale.
Lo slogan scelto dall’Associazione presieduta da Francesco Luppino per lanciare la campagna di tesseramento è “Andiamo avanti… io ci sono”. In passato ho avuto modo di partecipare a diverse iniziative del Terzo Millennio: convegni, presentazione di libri, escursioni naturalistiche. Da oltre 20 anni presto il mio tempo alle attività dell’Associazione di volontariato cristiano “Agape”, ma dall’anno scorso sono a tutti gli effetti socio anche del Terzo Millennio. Mi sono iscritto perché ritengo che, per risollevarsi, Sant’Eufemia ha bisogno di mettere insieme le proprie energie. Spero di riuscire a rendermi utile anche nelle iniziative che in futuro il Terzo Millennio realizzerà.
Si riparte, dunque. L’appuntamento è presso la sede dell’Associazione, domenica 6 novembre, dalle ore 16.00 alle 19.00. Sarà anche l’occasione per stare insieme e godere dei sapori dell’Autunno.

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Parlami dentro

Un murales realizzato dal celebre street artist Banksy raffigura l’evasione di un carcerato, che si cala dal muro di cinta dell’ex prigione di Reading utilizzando una corda di lenzuola annodate e legate, nel tratto finale, a una macchina da scrivere. L’opera fa riferimento alla reclusione dello scrittore Oscar Wilde nel carcere della cittadina del Berkshire tra il 1895 e il 1897, che ispirò il componimento “The Ballad of Reading Gaol”, incentrato sui temi della pena di morte e del senso di alienazione generato dalla ripetitività delle azioni compiute quotidianamente da un detenuto.
I carcerati vivono un tempo sospeso, regolato da orologi privi di lancette che scandiscono il nulla. Quando si esce, al termine di una detenzione più o meno lunga, ci si rende conto che non si è vissuto, che una mano ha lavorato di gomma sopra un tratto della propria vita. Che un blackout ha spento la luce. Dove c’era vita, resta un buco nero.
La scrittura è una forma di evasione, ma è soprattutto una strada che può portare alla salvezza. Nel carcere, scrive Erri De Luca in “A grandezza naturale”, «…si scrivono ancora le lettere, carta, penna, inchiostro, busta, francobollo e giorni di viaggio tra mittente e destinatario. Si farebbe prima coi piccioni viaggiatori. Al prigioniero serve almeno un indirizzo oltre le mura. Chi non ne ha sta in una penitenza più profonda. L’ora d’aria basta da sola a dire che le altre ventitré sono asfissia».
Le lettere prendono in braccio il detenuto e lo sollevano al di sopra della recinzione, sono un ponte di umanità tra il dentro e il fuori. Nella realtà odierna, caratterizzata dall’immediatezza della comunicazione e dell’interconnessione con gli altri, tutto ciò può sembrare anacronistico. Le relazioni sociali del carcerato conservano il ritmo lento di un’epoca che oggi ci appare lontanissima, con attese di giorni o di settimane per fare sapere come si sta e cosa si fa, per avere notizie su ciò che fuori accade.
Per tale ragione è meritorio il progetto natalizio “Parlami dentro”, della “Fondazione Vincenzo Casillo” e di “Liberi dentro – Eduradio&TV”: un invito (“una chiamata alle parole”) a scrivere entro l’11 dicembre una lettera ad una persona detenuta sconosciuta, indirizzandola all’indirizzo email parlamidentro@gmail.com.
Spesso si hanno delle remore a scrivere a soggetti carcerati, anche quando si tratta di familiari o di conoscenti. Per lo più perché non si sa “cosa” scrivere. In realtà non occorrerebbe un grande sforzo di fantasia. Il detenuto lotta per sentirsi ancora vivo e, pertanto, è della vita che bisogna scrivergli. Di quel progetto che si ha in animo di realizzare. Del libro letto e del film guardato. Dell’ultimo viaggio. Della corsa di un cane. Dei progressi di un bambino. Del paesaggio che muta al cambiare delle stagioni. Dei funghi trovati. Delle imprese sportive che ci hanno emozionato. Di una ricetta sperimentata con successo. Della rosa sbocciata nel giardino. Del nuovo taglio di capelli. Si potrebbe continuare all’infinito, con tutte le azioni e le emozioni che riempiono le nostre esistenze.
In galera i giorni più pesanti sono quelli festivi. Il recluso sa che non riceverà nessuna lettera, mentre negli altri giorni della settimana può sperare che qualcuno si sia ricordato di lui. Quando si avvicina l’orario della consegna delle lettere, viene preso da una sorta d’ansia (“chissà se c’è qualche lettera per me?”), attende il passaggio dell’agente con il cuore in gola, torna sconsolato sulla branda se il suo nome non viene chiamato.
Sentire che fuori c’è qualcuno che lo pensa è per il detenuto un’iniezione di forza e ragione di vita, antidoto potente contro lo scoramento che in alcuni casi può portare a gesti estremi, come purtroppo conferma il dato drammatico dei suicidi in carcere, 71 dall’inizio dell’anno.

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Per fatto quasi personale

Insisto con una mia vecchia proposta, presentata a tutte le amministrazioni comunali che si sono succedute negli ultimi venti anni in occasione di convegni, presentazioni di libri, incontri con gli amministratori. Tra poco più di un mese si voterà, per cui non credo di andare fuori traccia se, senza alcuna intenzione prevaricatrice del ruolo che andranno a ricoprire il prossimo sindaco e i futuri consiglieri comunali, mi permetto di sottolineare quanto sarebbe importante l’istituzione dell’Archivio storico comunale.
Chi ama la storia e ha familiarità con gli archivi, sa che essi costituiscono una fonte di primaria importanza per la storia di un territorio e per la ricostruzione dei processi sociali, storici e istituzionali di un comune. Un patrimonio di documenti, pergamene, carte e volumi fondamentali per riscoprire le proprie radici e per comprendere le ragioni dello stare insieme, l’identità di un popolo. Per individuare il filo rosso che lega il presente di una comunità al passato, teso verso l’avvenire.
Dal punto di vista documentario e storiografico, gli ultimi cento anni (esattamente a partire dall’anno 1922) della storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte rappresentano una terra pressoché incognita, ma – proprio per questa ragione – anche un fertilissimo campo da arare. Servono però gli strumenti per poterlo fare e gli strumenti, per gli studiosi di storia, sono le fonti.
Accanto al motivo ideale c’è poi l’esigenza immediata di salvare dal progressivo e ineluttabile deterioramento un patrimonio che giace negli scantinati del palazzo municipale in registri e documenti privi di catalogazione, non consultabili, esposti all’umidità e alla polvere.
Sul piano pratico, si tratterebbe di riordinare, catalogare e inventariare il materiale documentario del comune: registri dell’anagrafe; verbali dei consigli comunali e delle giunte municipali; atti ufficiali e corrispondenza con enti politici, uffici burocratici, personalità politiche di rilievo. Ma anche il recupero, in originale o in fotocopia, di tutte le opere pubblicate da autori eufemiesi negli ultimi due secoli. Sparsi negli archivi e nelle biblioteche di tutta Italia vi sono libri, scritti da eufemiesi, dei quali noi stessi non abbiamo completa cognizione. Senza dimenticare che la realizzazione di un progetto del genere necessiterebbe del coinvolgimento di un discreto numero di ragazzi.
Da cittadino comune mi rendo conto che, in generale, le amministrazioni comunali si trovano ad affrontare quasi a mani nude problematiche sociali, economiche e strutturali molto urgenti. La questione dell’Archivio storico comunale potrebbe apparire di secondaria rilevanza.
Tuttavia, la cultura può svolgere un’importante funzione sociale. La coesione di una comunità dipende molto dalla conoscenza della storia del posto in cui essa vive. La consapevolezza dell’esistenza di radici, identità e destino comuni spingono ad amare il proprio paese e ad averne maggiore cura. A guardare con fiducia, tutti insieme, al futuro che verrà.

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Buon compleanno, professore Coloprisco

Un appuntamento fisso delle mie estati è l’abbraccio con Aldo Coloprisco, ex insegnante di lettere nella scuola media “Vittorio Visalli”, che oggi ha tagliato il traguardo degli ottant’anni.
Stento a crederci. La mia impressione è che la sua età sia rimasta ferma al periodo del nostro “incontro”, nella metà degli anni Ottanta. Ed è molto probabile che sia così, visto che ancora oggi scrive libri, organizza eventi culturali, fa teatro con la sua “Compagnia dei Capocotti” a Frascati (e non solo), dove risiede da tre decenni.
Il segreto dell’eterna giovinezza sta nel dedicarsi alle attività che più si amano. Coloprisco lo sa e si regola di conseguenza, potendo oltretutto contare sulla complicità della moglie Carmelita Tripodi, un vulcano di iniziative culturali e sociali.
Professore “bizzarro”, faceva sistemare i banchi a ferro di cavallo lungo il perimetro dell’aula e, in terza media, ci trasmise i rudimenti della lingua latina: «Serviranno a chi deciderà di iscriversi al classico o allo scientifico». Nella scampagnata di fine anno guidava la fila che a piedi percorreva i sentieri verso l’Aspromonte, dove ci raggiungeva Carmelita con l’auto carica di ogni ben di Dio.
Sono molti coloro che devono qualcosa a quest’uomo mite ma determinato, coerente con i valori della sua vita. Aldo Coloprisco è stato per lunghi anni un solidissimo punto di riferimento culturale, non soltanto per la libreria che gestiva e che, da allora, Sant’Eufemia non ha più avuto. La recitazione, da occasione di aggregazione e di responsabilizzazione, si è rivelata per molti ragazzi un potente strumento di liberazione. Le rappresentazioni non erano affatto una “pacchia”, per via del tempo che le prove sottraevano alle lezioni, nel teatro di “confine” con le file delle sedie dell’ex cinema, trasportate a scuola da noi studenti. Generazioni di eufemiesi hanno avuto modo di maturare una coscienza civile e di comprendere quanto sia nobile impegnarsi per migliorare, migliorando sé stessi, il posto in cui si vive. Buon cittadino è colui che si spende per contribuire alla crescita socio-culturale della sua comunità.
L’attività teatrale esaltava la funzione emancipatrice della cultura, nel solco di quel socialismo umanitario che ha costituito il fulcro della sua formazione politica. Se chiudo gli occhi, mi appare davanti il cofanetto della Laterza contenente i sette volumi giallo ocra della Storia del pensiero socialista di George D.H. Cole, che per la prima volta vidi nel suo studio. Non a caso, uno dei libri di narrativa adottati nel triennio scolastico, Tibi e Tascia di Saverio Strati, racconta il sogno di evasione dei protagonisti dal contesto angusto della realtà contadina calabrese. Coloprisco ci ha insegnato che i sogni sono parte importante della vita. Ma soprattutto ci ha insegnato il valore della libertà, un bene non negoziabile per nessuna ragione al mondo.
Buon compleanno, mio caro professore.

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Ci sputassi vossia

«Forse è a questa storia minima che io debbo l’attenzione che ho sempre avuto per la grande» dichiarò Leonardo Sciascia a proposito di Occhio di capra. Pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 1984 e ristampato nel 1990 da Adelphi con l’aggiunta di alcune voci, il libro riprende l’almanacco di voci e modi di dire edito da Sellerio nel 1982 con il titolo Kermesse, a sua volta ispirato al dizionario di vocaboli e locuzioni dialettali che aveva impreziosito il volume fotografico I Siciliani, del grande fotografo bagherese Ferdinando Scianna (Einaudi, 1977).
Il titolo (in dialetto: “uocchiu di crapa”) fa riferimento ad una antica credenza popolare: se, al tramonto, il sole appare tagliato obliquamente da strisce di nuvole, assumendo così le sembianze della pupilla strabica delle capre, il giorno successivo pioverà: «Occhio di capra: domani piove».
Il saggio è un omaggio a Racalmuto, che Sciascia sentiva di conoscere “anche nei suoi silenzi”. Per il proprio paese natio valgono le parole dedicate da Jorge Luis Borges a Buenos Aires, messe in esergo dallo scrittore siciliano: «Ho l’impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato».
Per spiegare l’etimologia e il significato di termini e frasi tratti dalla tradizione orale, Sciascia fa ricorso ad aneddoti utili per preservare, oltre alla memoria delle parole, anche quella di storie minime, ma singolari e paradigmatiche di epoche e luoghi.
Tra i lemmi, uno riporta un episodio risalente al Ventennio, quando il regime fascista organizzò due plebisciti-farsa (nel 1929 e nel 1934) in luogo dell’elezione della Camera dei deputati (il Senato era di nomina regia), l’ultima tenuta nel 1924 con la famigerata legge “Acerbo”. Con i plebisciti, successivi allo scioglimento di tutti i partiti politici ad eccezione del partito nazionale fascista (1926), l’elettore aveva la possibilità di approvare o respingere il “listone” del Pnf. Facoltà che, ovviamente, era puramente teorica. Nel 1939 sarebbe caduto anche l’ultimo simulacro di democrazia, con l’istituzione della Camera dei fasci e delle corporazioni – composta non da membri letti, ma tali di diritto – in sostituzione della Camera dei deputati.
Il brano è il seguente:
CI SPUTASSI VOSSIA. Ci sputi lei. Espressione ormai proverbiale, per dire di un’azione che si è costretti a fare anche se teoricamente, formalmente, si ha la libertà di non farla. Fu pronunziata da un certo Salvatore Provenzano, ex guardia regia (corpo di polizia, quello delle regie guardie, istituito da Nitti e sciolto da Mussolini), davanti al seggio in cui si votava il consenso o il dissenso al regime fascista. I componenti del seggio consegnavano al votante la scheda su cui, teoricamente, il votante era libero di scrivere «sì» oppure «no»: ma di fatto le schede venivano consegnate con il «sì» già scritto, per cui al votante altro non restava che leccare la parte gommata della scheda, chiuderla e imbucarla nell’urna. Accorgendosi dunque Provenzano che già era stato scritto un «sì» dove lui aveva intenzione di scrivere un «no», si rifiutò di toccare la scheda: che la leccasse, chiudesse e imbucasse il presidente del seggio. Naturalmente, fu arrestato: ché sarebbe già stato offensivo dire al presidente di leccare la parte gommata della scheda, chiuderla e metterla nell’urna; ma dirgli «ci sputi» era dimostrazione di assoluto disprezzo per il regime fascista. (Provenzano è morto una decina d’anni addietro. Era un uomo alto, asciutto, la faccia cotta dal sole. Vestiva sempre con giacca di velluto a coste, pantaloni da cavallante, gambali di cuoio. Viveva del reddito di una sua piccola campagna. Caduto il fascismo, non rivendicò mai il merito di essere stato antifascista).

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Farewell

Il commediografo greco Menandro sosteneva che “il più dolce degli amori è l’amore che unisce due fratelli”. Ora che te ne sei andato, caro zio Stefano, non posso non pensare al sentimento fortissimo che ti legava a tuo fratello, mio padre. Ho assorbito come una spugna i vostri racconti, le vostre parole continuano a riscaldarmi.
Un autore che prediligo, Erri De Luca, ha scritto che “tutti gli occhi per vedere hanno bisogno di lacrime, se no diventano come quelli dei pesci che all’asciutto non vedono niente e si seccano ciechi. Sono le lacrime che permettono di vedere”. A tutti noi che ti abbiamo voluto bene, le lacrime di questi giorni hanno permesso di vedere, come in una rivelazione, ciò che sapevamo ma su cui spesso si sorvola, catturati come siamo dall’urgenza del quotidiano, dalla materialità dei giorni che si succedono ai giorni. Nella vita conta l’amore, conta ciò che di bello e di profondo riusciamo a costruire nel rapporto con gli altri e che sempre ritorna, come un’onda, quando abbiamo bisogno di capire chi siamo e cosa desideriamo.
La nostalgia è qualcosa che, facendo rivivere persone e luoghi, tiene compagnia. Ho nostalgia di te e della tua bonaria allegria. Ho nostalgia di te e di mio papà insieme, di quel rapporto simbiotico che poteva indurre a confondere un fratello con l’altro. Nel mio ricordo siete giovani e caparbi, pronti a prendere a morsi la vita per non soccombere alle avversità.
Conoscevate la miseria perché il suo volto vi era stato familiare. Da questa consapevolezza nasce la capacità di attribuire il giusto valore ad ogni cosa, anche a ciò che può sembrare insignificante agli occhi di chi ha tutto. Per voi non è stato così e se noi, oggi, comprendiamo la grandezza del sacrificio e la dignità del lavoro, lo dobbiamo al vostro esempio.
Nei vostri racconti ho cercato di cogliere l’epica della lotta. Quella di bambini cresciuti sotto le lamiere di una piccola baracca: corpo contro corpo, nel letto condiviso con adulti e piccini, per riscaldarsi in inverno. Senza acqua, se non quella prelevata dalla fontana pubblica. Senza luce, se non quella debole del lume ad olio. Senza molto da mangiare, dentro la pentola messa a bollire sul fusto alimentato con la segatura.
L’emigrazione in Australia è stato il prezzo da pagare per tendere con dignità ad una prospettiva diversa, che risparmiasse ai figli gli stenti dell’adolescenza dei padri. Con rulli e pennelli avete donato al loro futuro il colore di una speranza nuova. Affondiamo le nostre radici in questa storia, che sa di fame, di orgoglio, di coraggio e di riscatto; che ci ricorda da dove veniamo e ci esorta a non smettere mai di inseguire una possibilità.
Dal giorno della tua morte, tra le pieghe dei miei ricordi fa capolino un episodio di allegra spensieratezza, risalente all’estate che molti anni fa trascorresti a Sant’Eufemia. Ogni mattina si andava al mare e ogni mattina, arrivati nella curva che costeggia il castello di Scilla, nel punto esatto in cui la spiaggia sottostante si presenta e la bocca del mare si spalanca, puntualmente canticchiavi l’attacco di un vecchio successo di Edoardo Vianello: «Con le pinne, il fucile e gli occhiali/ mentre il mare è una tavola blu…». Mi aggrappo al tuo sorriso di allora, all’immagine di te felice insieme ai tuoi “niputeddi”, come fino alla fine ci hai sempre affettuosamente chiamati.
Buon viaggio, zio.

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Zipanguli a prova

Ntoni voterà per la Meloni. Me lo ha confidato ieri, dopo avermi chiesto: «Per chi dobbiamo votare questa volta?». Nelle passate elezioni politiche aveva affidato le sue aspettative di cambiamento ai Cinque Stelle, ma dice che è rimasto deluso. Non succede di rado, in particolare nel Mezzogiorno e in Calabria, dove si attende sempre qualcuno che possa invertire il destino di regione fanalino di coda dell’Italia.
Ascoltandolo mi è tornato in mente il bel racconto “Masse e potere”, di Ilario Ammendolia, che narra la storia di Ciccillo, nato a Caulonia ai primi del Novecento. Ciccillo è appena un ragazzo quando in paese si sparge la voce che dalla stazione ferroviaria sarebbe passato il principe ereditario di Casa Savoia. Vestito a festa, anche lui assiste all’arrivo del futuro Umberto II: sindaco con tanto di fascia tricolore e cilindro sulla testa, carabinieri in alta uniforme, magistrati, notabili e gente comune. Tutti salutano il passaggio del treno, che rallenta senza neanche fermarsi: “ciao, ciao” del principe con la mano e il convoglio riparte. La stessa scena si ripete anni dopo, al passaggio del Duce, con la popolazione che si riversa nella stazione per accogliere l’Uomo della Provvidenza: il treno rallenta, “ciao, ciao” del Duce e poi si allontana. Nel secondo dopoguerra è la volta dei pullman organizzati per la DC di De Gasperi, per il PCI di Togliatti, per i monarchici di Lauro. Ogni volta il “salvatore” di turno viene acclamato e riverito; ogni volta non cambia niente.
Il racconto di Ammendolia potrebbe continuare fino ai nostri giorni, con l’ideale passaggio dalla stazione del treno con a bordo “L’unto del Signore” Silvio Berlusconi, Matteo Renzi “Il rottamatore”, Beppe Grillo “L’elevato”, Matteo Salvini “Il capitano”. La storia degli ultimi tre decenni. Il popolo a terra, l’eroe attaccato al finestrino a fare “ciao, ciao” con la mano.
Ora è il momento di Giorgia Meloni, “donna, madre e cristiana”, nell’indifferenza e nella rassegnazione generale. Un sondaggio rivela infatti che soltanto due elettori su dieci appaiono attenti alla campagna elettorale. Un dato di disaffezione pernicioso per la democrazia, drammatico ma emblematico dei piani separati sui quali vivono classi dirigenti e società reale, con le prime sorde rispetto alle problematiche della seconda, la quale ricambia riversando odio verso coloro che avverte – complice anche una legge elettorale scellerata – come privilegiati interessati esclusivamente alla conservazione della poltrona. Due mondi che non si parlano. Non basta postare una foto mentre si serve la pizza per apparire “alla mano” o particolarmente sensibile, né sbarcare su TikTok per conquistare i giovani, sfoggiando a pochi giorni dal voto un poco encomiabile sprezzo del patetico e del ridicolo.
Con la morte delle ideologie, ci si affida a chi la spara più grossa e a chi grida più forte contro chi è già stato al governo, giusto per punire chi ha “tradito” e nella speranza che sia la volta buona. A turno, così, si “provano tutti”: come gli “zipanguli” (angurie) dai quali il venditore estrae un tassello per convincere l’acquirente della bontà del prodotto. Mentre la manina, dal finestrino, saluta: «Ciao, ciao».

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