Grazie ad un articolo di Strettoweb, ho scoperto che ieri sera sono finito su una slide del programma Controcorrente (Rete 4). Non sono avvocato, come erroneamente riportava il cartello, ma non è ovviamente questa inesattezza che voglio commentare dopo avere guardato sul sito di Mediaset la trasmissione. Probabilmente la redazione ha preso spunto dal mio recente articolo pubblicato su “Il Dubbio” e mi ha accostato, in maniera secondo me impropria, alla vicenda che coinvolse l’ex ministra dello Sviluppo economico Federica Guidi come esempio della stortura che a volte si registra nell’uso delle intercettazioni. Cosa che accade, ad esempio (e di questo gli ospiti in studio hanno dibattuto), quando un magistrato allega agli atti un’intercettazione di natura privata, che non ha attinenza con l’imputazione, e quando il giornalista che si ritrova quella intercettazione la pubblica sul giornale. Il dibattito, insomma, era incentrato sulla questione della pubblicazione. Per questo sostengo che la mia vicenda è stata citata in maniera impropria. A volte mi sembra di essere un disco rotto e di questo mi scuso. Ma il mio caso ha a che fare con una questione preliminare, a monte – diciamo – dell’utilizzo delle intercettazioni: e cioè sul fatto che prima di arrestare una persona intercettata, della quale si ha la voce registrata, il minimo sindacale sarebbe di verificare se quella voce è effettivamente sua. La terribilità delle manette sta proprio nell’uso disinvolto e approssimativo degli strumenti di indagine intercettivi che caratterizzano alcune inchieste antimafia.
“Il Dubbio” di oggi ospita una mia riflessione su intercettazioni e trojan
La relazione al Senato del guardasigilli Nordio ha innescato la prevedibile reazione di chi, da decenni, intossica il dibattito sul tema della giustizia in Italia con considerazioni per lo più strumentali, che passano come un carrarmato sulla vita delle persone. Io credo, invece, che occorra un alto livello di umanità, quando si affrontano temi che incidono fortemente sulla libertà, sulla dignità e sulla rispettabilità degli individui. Il ministro della Giustizia afferma, e noi gli crediamo, che «il nostro fermo proposito è di attuare nel modo più rapido ed efficace il garantismo del diritto penale». Però dice anche, per stoppare le urla scomposte del fronte giustizialista, che «non sarà mai abbastanza ribadito che non vi saranno riforme che toccheranno le intercettazioni su mafia e terrorismo». Mi permetto di dissentire e di portare ad esempio, ahimè, la mia esperienza personale: un caso forse limite, ma comunque utile – spero – per centrare e meglio evidenziare i contorni della discussione, quando si parla di intercettazioni e di 416 bis. Sono stato arrestato il 25 febbraio 2020, sulla base di una conversazione (11 pagine sulle 3651 complessive dell’indagine) intercettata tramite il trojan installato sul telefonino di un altro indagato, che si trovava a cena con due persone, ad una delle quali era stata attribuita la mia identità. Nonostante la mia dichiarazione di assoluta estraneità, già in sede di interrogatorio di garanzia (due giorni dopo l’arresto e senza avere ancora ascoltato l’audio della conversazione), e la contestuale richiesta di effettuare una comparazione fonica (non accordata nell’immediato; mentre in nessuna considerazione il Tribunale della libertà ha tenuto la perizia fonica presentata dalla difesa), ho dovuto subire sette mesi di custodia cautelare in carcere, fino a quando il Ris di Messina, su incarico della Procura di Reggio Calabria, non ha stabilito che la voce intercettata non era la mia. Duecentocinque giorni dopo il mio arresto, trascorsi negli “hotel” a cinque stelle di Palmi e di Santa Maria Capua Vetere. Successivamente, la mia posizione è stata archiviata. La questione, dal mio punto di vista, è quindi un’altra, più profonda e grave. Può la lotta alla mafia giustificare la sospensione dello stato di diritto in vaste aree del Paese? L’Italia è uno stato di diritto o uno stato di polizia, nel quale le garanzie individuali possono essere calpestate? Sono queste le domande per le quali io e migliaia e migliaia di altre vittime attendiamo risposte, anche per riuscire ad avere nuovamente fiducia nella giustizia. La sensazione è che il populismo penale di parte della magistratura e dell’informazione spinga all’accettazione del fatto che la lotta alla criminalità organizzata possa avere come effetto collaterale un numero cospicuo di innocenti in manette. Per motivi ideologici, ma anche per una questione all’apparenza banale: chi parla di carceri, di buttare le chiavi, di innalzare forche nelle pubbliche piazze, lo afferma senza cognizione di causa; senza avere cioè la minima idea del terremoto emotivo che si scatena nell’animo di chi varca il cancello di un carcere, soprattutto se sa di essere innocente. Senza, inoltre, avere la minima idea della condizione disumana delle carceri italiane. Ecco perché, pur riconoscendo l’importanza e l’efficacia dell’utilizzo di trojan e intercettazioni telefoniche per assicurare alla giustizia i rei, sarebbe auspicabile una rivisitazione del loro impiego, nel senso di ribadirne la validità come strumento di indagine attorno al quale costruire la prova vera e propria. Prendere atto che su questa delicata materia occorre intervenire, al di là delle caciare strumentali che si sollevano ogni qual volta qualcuno pone con spirito costruttivo la questione, sarebbe già un passo in avanti, a tutela della giustizia e della dignità delle persone, poiché “non c’è tirannia peggiore di quella esercitata all’ombra della legge e sotto il calore della giustizia” (Montesquieu).
“Curacaro”, traduzione dell’inglese caregiver (“colui che si prende cura”) è un neologismo introdotto nella lingua italiana dallo scrittore Flavio Pagano, autore di Perdutamente (Giunti, 2014), Infinito presente (Sperling & Kupfer, 2017), Oltre l’Alzheimer. L’arte del caregiving (Maggioli, 2019), nonché del corto Abbracciami, presentato nel 2021 all’Alzheimer Fest di Cesenatico, manifestazione ideata nel 2017 dal giornalista Michele Farina, il quale – a sua volta – ha dedicato alle problematiche che coinvolgono i pazienti affetti da demenza senile, i loro familiari e gli operatori sanitari il libro-inchiesta Quando andiamo a casa? Mia madre e il mio viaggio per comprendere l’Alzheimer. Un ricordo alla volta (Rizzoli, 2015). I cura cari, scritto dal giornalista, critico musicale e poeta Marco Annicchiarico, prende in prestito (separando le due parole) il neologismo di Pagano e racconta l’esperienza dell’autore, già nota ai lettori delle sue due rubriche: Diario di un caregiver, per la rivista «Mind», è “la storia delle difficoltà, degli ostacoli, della burocrazia e dei paradossi che affronta chi assiste un malato di demenza”; Caregiver Whisper – Storie di ordinario Alzheimer, per il blog collettivo «Poetarum Silva», racconta invece “piccole storie di vita nella malattia, tra le mille difficoltà con cui mi sono dovuto misurare, il più delle volte da solo, e l’ironia che ci ha aiutato a non impazzire nei momenti più difficili”. Prendersi cura di familiari malati è un’attività dai forti risvolti emotivi, oltre che pesante sotto il profilo materiale: basti considerare che il 70% di chi assiste un familiare malato è costretto ad abbandonare il lavoro. Quando poi si tratta di soggetti affetti da Alzheimer o da altre forme di demenza, le difficoltà si avvertono in forma ancora più acuta. Come riuscire, infatti, a trovare un senso ad un’esperienza che spesso comporta l’annullamento della propria vita? Come gestire la malattia del familiare e l’inevitabile deterioramento del proprio equilibrio psicofisico? Annicchiarico, che affronta la questione ricorrendo alla propria esperienza personale, offre al lettore una storia d’amore tra madre e figlio che è al tempo stesso poetica e dolorosa: “un romanzo-pugno e un romanzo-carezza, capace di commuovere e di farci sorridere nello stesso rigo”. I cura cari è la ricerca di un nuovo equilibrio, che consenta a madre e figlio di ritrovarsi in quella realtà parallela del malato che Pietro Vigorelli (autore, tra l’altro, del libro edito da FrancoAngeli nel 2015: Alzheimer. Come favorire la comunicazione nella vita quotidiana) ha definito “mondi possibili”: «Noi dobbiamo accettare quello che i malati sono ora. Il salto nei mondi possibili ci permette di stare vicino a loro “dove sono in questo momento” rispettando, anche nelle situazioni più drammatiche, la loro dignità di persona e valorizzando le abilità che hanno mantenuto». Annicchiarico attraversa le diverse fasi della malattia della madre Lucia, che inevitabilmente si ripercuotono sulla sua quotidianità, stravolta dagli effetti devastanti della caduta del familiare nel gorgo della demenza. Il sasso che manda in frantumi la finestra della propria esistenza si manifesta con la perdita dei ruoli (“non si può tornare ad essere figlio, non si può tornare ad essere madre”). All’inizio prevale il senso di vergogna, di fronte ad una mamma che gradualmente perde ogni freno inibitore: mangia con le mani, diventa scurrile, non è capace di controllare le funzioni corporali. Poi subentra l’accettazione, a conclusione di un processo graduale, che porta alla consapevolezza di trovarsi di fronte ad un’altra persona, che vede quello che non c’è e lo rivela al figlio. Con questa nuova mamma, sospesa sempre nell’altrove in cui è finita, l’autore si sforza di entrare in relazione, nonostante l’avvilente impressione di essere lo spettatore di una donna che lentamente si sta dissolvendo. Madre e figlio si incontrano così in storie spesso inventate, raccontate con l’utilizzo di una nuova lingua, una sorta di esperanto fatto di frasi e parole senza senso o che non esistono. «Sono una ticococca», afferma Lucia sul finire del libro, in un dialogo che ispira all’autore versi struggenti:
Ho scoperto che mia madre è diventata una ticococca, per metà è fatta di carne e per metà è fatta di nebbia. La notte scompare nel suo letto, riesci solo a sentirne la voce, flebile, che arriva da lontano. Al mattino, però, con tutta la sua forza chiude le dita dolenti attorno alle mie mani. A volta sembra sussurrare: «Sono qui, vienimi a salvare».
A volte sembra di avere vissuto troppo. Abbiamo realizzato tutti i nostri desideri e soddisfatto ogni aspettativa. Vaghiamo, senza fuoco dentro ad ardere, perché ogni cosa è diventata stanca abitudine. Non è una questione di età: Ninuzzo aveva quasi un secolo quando piantò un albero e immaginava di raccoglierne lui i frutti, nel giro di pochi anni. Oppure siamo stati talmente messi alla prova da sentirci sfibrati. Ogni azione, ogni pensiero ci risultano faticosi. Rimaniamo inchiodati al nulla, vorremmo soltanto dormire e non svegliarci più. Altre volte si ha invece l’impressione che il tempo non sarà mai abbastanza. Eppure ancora abbiamo libri da leggere, viaggi da intraprendere, incontri da godere. Una vita sola non può bastarci. Avremmo bisogno del treno arrugginito richiamato con feroce disincanto da De Andrè per ritornare indietro, al punto di partenza. Un treno che non esiste; ed è bene che sia così. Da qualche parte ho letto che la vita è quella cosa che ci accade mentre siamo impegnati in altri progetti. Succede nonostante noi, anche contro di noi. Ecco perché non faccio più bilanci. Non mi va di dividere il foglio in colonne di dare e avere. Separare le cose belle da quelle brutte, le giuste dalle sbagliate. Tutto ha un senso, anche le favole tristi che opprimono e fanno mancare il respiro, come certe assenze conficcate nel cuore. Ma quel senso dobbiamo sforzarci di trovarlo noi, con tenacia da esploratore. Aggrappiamoci alla vita, cerchiamola ovunque. Sempre. Buon anno a tutti.
Sant’Eufemia d’Aspromonte si conferma, ancora una volta, una comunità generosa. Ne abbiamo avuta l’ennesima dimostrazione ieri sera, in occasione della tombolata del “Natale di solidarietà” dell’Agape presso la sala ricevimenti “Il Cagnolino”, che ha registrato un’adesione straordinaria. Circa trecento sono stati infatti i partecipanti alla tradizionale iniziativa di beneficenza con la quale l’Agape raccoglie fondi che poi utilizza per il finanziamento delle proprie attività. Mi ha fatto molto piacere la presenza massiccia dell’associazionismo eufemiese, che per me rappresenta da sempre il fiore all’occhiello del nostro territorio, così come quella delle istituzioni civili e religiose, a partire dal sindaco Pietro Violi e dal parroco don Marco Larosa. Segnale evidente della necessità di fare aggregazione, nonostante questi nostri tempi ci spingano all’isolamento. Sta alle istituzioni e alle associazioni, in sinergia e con spirito propositivo, cogliere e sviluppare occasioni di crescita collettiva. Uno sforzo organizzativo di così vasta portata sarebbe stato insostenibile senza il contributo dei ragazzi del locale liceo scientifico, non nuovi alla partecipazione ad iniziative di solidarietà e che proprio di recente si sono occupati della distribuzione delle stelle di Natale dell’Ail nelle piazze del paese. A loro va il nostro più sentito ringraziamento, accompagnato dall’auspicio che possano abbracciare con sempre maggiore convinzione i valori del volontariato. Un altro doveroso grazie va rivolto ai tanti, cittadini privati e titolari di attività commerciali che hanno generosamente offerto i premi e preparato i dolci. Siamo consapevoli che non ci si salva da soli, occorre fare squadra. Con questo spirito l’Agape, per mano della presidente Iole Luppino, ha omaggiato il Maestro Angela Luppino con la “pergamena della solidarietà” per il Concerto di Natale tenuto dal coro polifonico parrocchiale “Cosma Passalacqua” presso la RSA “Antonino Messina”, in occasione della consegna dei doni di Natale agli ospiti della struttura per anziani. Grazie a tutti.
Il terremoto del 28 dicembre 1908, abbattendosi su abitazioni già colpite dagli eventi sismici del 1894, 1905 e 1907, fu per Sant’Eufemia una tragedia immane. Il numero delle vittime non fu mai accertato con esattezza: per la giunta comunale guidata dal sindaco Pietro Pentimalli furono circa 700, mentre secondo altre fonti potrebbero essere state molte di più, un migliaio o anche oltre. L’elenco stilato dall’arciprete Luigi Bagnato, a sette mesi dall’evento catastrofico, riporta i nominativi di 530 vittime, un dato molto vicino ai 537 riportati da Vincenzo Tripodi nella sua Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte. I feriti furono più di duemila, il patrimonio edilizio perduto pari all’85%. Le abitazioni crollate e quelle demolite in un secondo momento furono complessivamente 1.100, un centinaio quelle parzialmente distrutte. Si salvarono alcune baracche costruite dopo il terremoto del 1894 e qualche costruzione nei pressi della fontana Nucarabella, compreso il macello comunale, che era stato fabbricato nel 1905. Altre case non crollate totalmente si trovavano in via Roma, nel rione Campanella e nel tratto di strada compreso tra piazza del Plebiscito (oggi piazza don Minzoni) e il baraccamento costruito per ospitare gli uffici comunali dopo il 1894, nell’area denominata “Piazzetta”. Nel rione Petto si salvarono soltanto alcune abitazioni ubicate nella zona alta, attorno alla piazza dedicata a Vittorio Emanuele III, mentre le zone più basse del paese (rione Matrice, piazza San Giovanni, ma anche via Pace e via Telesio) furono ridotte a un cumulo di macerie. Nella storia di Sant’Eufemia il terremoto del 1908 rappresenta uno snodo cruciale. Il “prima” racconta di un paese raccolto nei due rioni Paese Vecchio e Petto; il “dopo” è caratterizzato invece dall’espansione edilizia nella vasta area della Pezza Grande, dove vengono trasferiti oltre 2000 cittadini. Il paese com’è oggi, sotto il profilo urbanistico è conseguenza diretta di quella catastrofe. Tra le testimonianze drammatiche del tragico evento, un rilievo particolare va attribuito al racconto del sacerdote Luigi Bagnato, che si trovava nel seminario di Mileto e che immediatamente accorse in paese: «Narrerò i lutti, che grandissimi apportò quella spaventosissima notte, nella quale il grande terremoto riempì tutto di rovine. Io, ora arciprete, ero allora assente, dimorando a Melito quale padre spirituale dei seminaristi, giovani speranze della chiesa. Anche lì abbiamo sentito la terra fortemente scossa, in verità con nessuna perdita di persone, ma solo di edifici. Fuggii atterrito camminando per diverse ore, ahimè! per non vedere più la casa, il fratello, i nipoti, la sorella. Li avevano sepolti le rovine delle case. Ho trovato il padre, vecchio infelice, che piangeva i cari perduti. […] Il 27 dicembre 1908, Domenica, fu una giornata di foschia, cadde una pioggia assidua ed abbondante fino a vespro, cui successe una notte simile. Il cielo offuscato e l’aria pesante. Due ore circa prima dell’alba, e precisamente alle cinque e ventiquattro minuti, la terra prima tremò lievemente, e poi d’improvviso per un minuto intero con un moto veemente sovvertì con ingente fragore le mura ed i tetti delle case. Le grida e i clamori arrivarono alle stelle, mentre nella notte scura, agitata dal vento e dalla pioggia, ciascuno, con voce disperata e piangente, chiamava i suoi. O vera notte di calamità e di sventura, notte lacrimevole, che più presto di un detto così numerose anime, avulse dal corpo, riunì davanti al trono di Dio! Non appena fu giorno, quale miserevole spettacolo! Non più vie, non più case, alte rovine sotterravano ogni cosa, rovine dalle quali uscivano fuori trave rotte, tristi residui di case, con le suppellettili rotte delle stanze. Sant’Eufemia non esiste più, mutata com’è ora in un cimitero. Attraversando le rovine terrificanti per lo squallore, qua e là asperse di sangue, si aggiravano i miseri superstiti che si affrettavano a portare aiuto ai feriti, salvare coloro che si vedevano e le cui voci si sentivano, dissotterrare i sepolti dall’alta congerie per strapparli, se possibile, dalla morte e richiamarli in vita. Crudele spettacolo! Si sviluppò anche un incendio che, col favore del vento e alimentato dalla legna, dal vino, dall’olio, divorò e distrusse due rioni ad oriente dalla piazza, con le macerie e i corpi sepolti, dei quali alcuni ancora vivi. Per due giorni e due notti le alte fiamme, ma il fumo e il fuoco tra le rovine serpeggiò per più di un mese con il terribile puzzo di bruciato. Ciascuno conta i suoi morti: troppe poche famiglie incolumi, e alcune distrutte del tutto. Quanti morti? Le prime voci li portano a mille, a duemila. Circa seicento cadaveri strappati dalle rovine abbiamo trasportato senza alcuna onoranza. Un’ampia fossa fu scavata nel cimitero. Pochi ebbero privata sepoltura. Le chiese crollarono con i loro campanili. Già con ingenti spese, dopo il terremoto del 16 novembre 1894, le avevano restaurate decorosamente: due specialmente, la Chiesa Madre e quella del SS. Rosario; ma questa cadde quasi dalle fondamenta e quella fu tutta sconquassata. Rimase distrutta anche la chiesa delle anime del Purgatorio. Le statue dei Santi, esistenti in tutte le chiese, rimasero mirabilmente incolumi, scampate a qualsiasi danno. […] Per più giorni, anzi per più di un mese, siamo vissuti sotto le tettoie costruite negli orti e sulla pubblica via con legna e tavole estratte da sotto le macerie. Ci siamo tenuti in vita per qualche tempo con la pubblica carità e siamo maggiormente grati alla città di Milano che mandò a noi alcuni suoi egregi concittadini, cibi e casette di legno, o baracche, che furono erette in Pezzagrande per comune designazione». [Luttuosa narrazione del grande terremoto che il 28 dicembre 1908 distrusse tutta questa città, “Libro dei defunti. 1877-1908”, in Archivio parrocchiale Maria SS. delle Grazie]
Eccoci. Anche noi siamo pronti per il pranzo di Natale. Il direttore ci ha concesso la “socialità”: i detenuti potranno pranzare insieme, fino ad otto in un’unica cella, dove solitamente si sta in due. È uno dei “privilegi” dell’Alta sicurezza: almeno in questo carcere, le sezioni riservate ai carcerati più pericolosi (noi; io) non sono sovraffollate. Tra i comuni è diverso, in una cella vivono ammassati sei, sette detenuti; a volte di più. Il corridoio è un via vai di uomini con lo sgabello sotto il braccio, ognuno porta il proprio, altrimenti gli tocca mangiare in piedi. Sembra un trasloco.
In galera il giorno di Natale è pesante. La mente è affollata dai ricordi, da lontananze che provocano sofferenza. Non è festa, non lo è nemmeno a casa, dove il pensiero di noi è lacerante. Fa ancora più male sentirsi responsabili del dolore dei familiari.
Comunque ci proviamo. Per l’occasione ci vestiamo bene: pantaloni, camicia e giubbottino invece della consueta tuta sportiva sotto lo smanicato. Gianni, che conserva una sua inspiegabile ironia nonostante una condanna all’ergastolo in primo grado, sfoggia una cravatta realizzata con un foglio di giornale ripiegato. Gigi e Antonio hanno invece modellato i capelli con il gel e odorano di Paco Rabanne, come quando hanno il colloquio con i parenti e si profumano per scacciare via il tanfo di carcere che sentono appiccicato sulla pelle.
Ci è andata bene. La socialità non è un diritto riconosciuto ovunque all’interno del sistema penitenziario, è piuttosto un gentile omaggio che dipende dalla sensibilità di chi qua dentro regna come un sovrano assoluto. Ogni carcere è uno Stato a sé e ciò che è consentito al Pagliarelli può non esserlo a Poggioreale. Vale per la socialità, per il numero e la durata di telefonate e videochiamate, per gli acquisti del sopravvitto. Senza alcuna logica apparente, è il caso (capitare in un posto anziché in un altro) a rendere più o meno pesante la detenzione di questa umanità invisibile e dimenticata.
Qualche giorno fa il cappellano ha celebrato la messa nella chiesetta adornata di figure religiose dipinte negli anni dagli stessi detenuti. Un quadro riproduce l’immagine di San Leonardo di Noblac, il liberatore dei prigionieri, che compaiono in ginocchio al suo fianco, in catene. Siamo sempre nei pensieri di don Elio: «Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere» (Ebrei 13:3). Stamattina ha fatto arrivare vassoi di bocconcini alla crema, ne mangeremo come minino uno a testa. Non ne assaggio da mesi. Non si possono acquistare dolci di pasticceria, né si può ricevere del torrone con il pacco da casa. I panettoni invece si possono ordinare con la spesa settimanale. Ne abbiamo comprati in buon numero, in modo da scambiarli con altri detenuti, come regalo.
Per le torte non abbiamo problemi. Franco si diletta a preparare cheesecake favolose impiegando le confetture monodose che passano la mattina con la colazione. Il portavitto lo sa e gli lascia pure quelle che altri detenuti non ritirano. Oggi ha però elaborato una torta con le gocce di cioccolato, ottenute riducendo in frantumi – a colpi di caldaia della moka – una tavoletta di fondente. Il “forno” consiste in una padella sulla quale va appoggiata la “campana”, una pentola bucherellata come la padella delle caldarroste. Viene posto sopra un fornellino da campeggio, mentre i bruciatori di due fornellini ai quali è stato smontato il piatto vengono inseriti in due fessure realizzate ai lati della campana. Ciò consente di cuocere la torta sia di sopra che di sotto. Un capolavoro di ingegneria carceraria.
Inalando il gas della bomboletta di un fornellino, pochi giorni fa, Giulio ha deciso di farla finita, nella sezione dei comuni. Con l’avvicinarsi di una ricorrenza, per i più fragili tutto diventa più opprimente e qualcuno finisce per lasciarsi sopraffare dalla disperazione.
Franco ha voluto fare le cose in grande, ha cucinato per metà sezione la carne di agnello ricevuta con il pacco da casa, disossata e confezionata sottovuoto dopo una leggera cottura, suddivisa in pezzi conformi alle indicazioni dell’amministrazione penitenziaria. Anche noi viviamo sottovuoto, come le cotolette e gli insaccati che mamme, mogli e sorelle preparano e imbustano tra le lacrime, con un’attenzione religiosa.
Dividiamo il pane, ma non possiamo ripetere la stessa operazione con il vino, che è stato tolto dalla lista della spesa dopo una rissa scoppiata tra diversi detenuti ubriachi. L’alchimista della sezione ha però prodotto un surrogato di limoncello, per la verità imbevibile. Ad essere scoperti si rischia qualche giorno di cella di isolamento, ma un dito di liquido giallognolo, da dividere in otto, è giunto anche a noi. Brindiamo con quello alla nascita del Bambinello e al suo messaggio di salvezza, inumidendoci appena le labbra. Buon Natale.
Da ragazzino mi chiedevo le ragioni dell’esistenza, a Sant’Eufemia d’Aspromonte, di una via dedicata a Milano, che percorrevo quasi quotidianamente per recarmi al campo sportivo, ma anche della chiesa intitolata a Sant’Ambrogio e, addirittura, di un’associazione culturale che portava il nome del patrono della città meneghina. Proprio grazie all’attività culturale della “Sant’Ambrogio”, in particolare gli articoli sulla storia di Sant’Eufemia pubblicati dalla rivista “Incontri”, venni a conoscenza di come la storia del nostro paese sia legata a filo doppio all’umanità dimostrata dal popolo milanese in occasione del terremoto del 28 dicembre del 1908. Una tragedia di dimensioni colossali che provocò circa 700 morti, più di 2000 feriti e la distruzione dell’85% del patrimonio edilizio. Nell’immane tragedia, come spesso accade in Italia, si scatenò una gara di solidarietà senza precedenti. Comitati di soccorso sorsero un po’ in tutta la Penisola e, già il 2 gennaio 1909, giunsero a Sant’Eufemia i volontari del Comitato Lombardo di Soccorso. L’arciprete Luigi Bagnato, autore della “Luttuosa narrazione del grande terremoto che il 28 dicembre 1908 distrusse tutta questa città”, nel descrivere i lutti e la distruzione prodotti dal sisma, consegnò alla storia la riconoscenza degli eufemiesi: «Ci siamo tenuti in vita per qualche tempo con la pubblica carità e siamo maggiormente grati alla città di Milano che mandò a noi alcuni suoi egregi concittadini, cibi e casette di legno, o baracche, che furono erette in Pezzagrande per comune designazione». Nei terreni dell’area denominata “Pezza Grande”, dove già sorgeva il baraccamento edificato in seguito al terremoto del 1894 e dove inizialmente erano state sistemate le tende della Croce Rossa, tra febbraio e aprile del 1909 furono infatti realizzate 54 costruzioni, suddivise in 216 vani e in grado di ospitare oltre 750 persone, ai bordi di tre strade lunghe 140 metri e larghe 10. A marzo fu inaugurato l’ospedale “Milano”, così denominato in segno di gratitudine nei confronti dei soccorritori. Al termine dei lavori, nel nuovissimo rione “Città di Milano” (che contava 759 baracche) si trasferirono oltre 2.000 eufemiesi. Il comitato lombardo di soccorso costruì inoltre l’acquedotto, tre fontane pubbliche, un lavatoio coperto e una piccola chiesa (6 metri per 16), al cui interno fu collocata la statua di Sant’Ambrogio, donata alla comunità eufemiese dall’allora cardinale meneghino, Andrea Carlo Ferrari. Il vincolo di solidarietà e di amicizia che lega Milano e Sant’Eufemia è stato per quasi quattro decenni rinvigorito dall’attività dell’Associazione culturale “Sant’Ambrogio”, promotrice sul finire degli anni Settanta del gemellaggio tra le due città, stipulato formalmente il 7 aprile 1980. Più volte una delegazione dell’Associazione ha partecipato come “ospite d’onore” alle celebrazioni ambrosiane che si tengono a Milano presso la Basilica di Sant’Ambrogio e, nell’edizione del 2001, il presidente Vincenzino Fedele ritirò, a nome dell’associazione, il prestigioso “Ambrogino d’Oro”.
*L’immagine è tratta da Antonio Pellegrini, “La rinascita d’un paese devastato dal terremoto”, ora in Terremoto Calabro-Siculo del 28 dicembre 1908. L’opera della Croce Rossa Italiana e del gruppo indipendente fiorentino, Nuove edizioni Barbaro, Delianuova 2008, p. 228.
*Per una ricostruzione completa delle vicende relative al terremoto del 1908 e alla riedificazione della città, si veda: Domenico Forgione, Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età contemporanea. Storia, società, biografie, Il Rifugio Editore 2021, pp. 55-73.
“Solidarietà attraverso il volontariato” è il tema della Giornata internazionale del volontariato, istituita dalle Nazioni Unite nel 1985 e celebrata ogni 5 dicembre, che quest’anno guarda alle emergenze globali e ai cambiamenti climatici. Nella sua dichiarazione, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha rimarcato il “valore inestimabile” del volontariato, che è “espressione della solidarietà basata sulla consapevolezza di un destino comune a tutta l’umanità”: «Offrire soccorso a chi è in difficoltà con altruismo e abnegazione genera comunità inclusive, robuste, fondate sulla tutela dei diritti fondamentali. L’ampia e spontanea mobilitazione in aiuto delle comunità colpite da eventi calamitosi ne è testimonianza». Ma qual è lo stato di salute del volontariato e delle associazioni no profit? È inutile negarlo: la pandemia ha lasciato il segno, attestato da un calo del 20% delle associazioni attive, prevalentemente tra quelle che si occupavano di attività ricreative e che si sono ritrovate senza sedi e senza mezzi, messe in ginocchio anche dal caro bollette. Nel suo messaggio Mattarella ha ribadito che il volontariato costituisce “una risorsa preziosa per le istituzioni”. Ne sono convinto da quando ho iniziato a frequentare questa realtà. Le associazioni di volontariato si occupano di assistenza ad anziani, disabili, soggetti che vivono in condizione di disagio sociale ed economico. Si occupano degli invisibili, di coloro che molti non vedono o fingono di non vedere, sono presenti in posti nei quali lo Stato spesso non riesce ad arrivare, perché distratto o perché privo di risorse adeguate. Il volontario ha una visione della vita fondata sulla religione del dovere nei confronti della propria comunità, che si traduce in senso di responsabilità e nell’impegno per rendere migliore il luogo in cui si vive: ad esempio, promuovendo la cultura e la tutela dell’ambiente. Sant’Eufemia ha una tradizione consolidata nel campo del volontariato sociale, culturale e di promozione del territorio. Anche qua il contraccolpo della pandemia è stato duro. Tuttavia, credo che sia possibile cogliere alcuni segnali positivi, ai quali aggrapparsi con fiducia. L’associazione di volontariato cristiano “Agape” ha ripreso a svolgere qualche attività e ha già programmato le iniziative del suo tradizionale “Natale di solidarietà”. L’associazione “Terzo millennio” ha chiuso con numeri confortanti il nuovo tesseramento e sta programmando le manifestazioni da realizzare nel 2023. Sodalizi sportivi quali il “Team Bike Sant’Eufemia 1000 km” e “ASD Kratos Red” hanno dimostrato una vivacità sorprendente in un periodo di stallo generale. Il ritorno alla normalità politico-amministrativa a Sant’Eufemia – questa è la mia speranza e il mio augurio – può certamente ridurre la distanza tra associazioni e istituzioni e riavviare quel rapporto sinergico che nella comunità eufemiese è sempre stato un costante e invidiabile punto di forza.
Con il trascorrere del tempo, inevitabilmente Facebook diventa un luogo di nostalgia. La funzione “ricordi”, con i vecchi post che il social ogni mattina consiglia di condividere, riproponendo avvenimenti e persone ci riporta indietro negli anni. Come eravamo, cosa facevamo, con chi eravamo in quel preciso giorno. Nostalgia che aumenta quando Facebook ci segnala il compleanno di amici che purtroppo non sono più tra di noi, ma il cui profilo risulta ancora attivo. Mentre si è impegnati a vivere, non si pensa alla morte. Per cui in pochi utilizzano l’opzione che predispone la cancellazione automatica dell’account dopo un periodo di inutilizzazione. Certamente non ci aveva pensato Totò Ligato, il quale oggi – mi ricorda appunto Facebook – avrebbe compiuto 75 anni. Totò, purtroppo, manca da sette anni. Per il dizionario della Treccani, mancare significa: “essere meno di quanto sarebbe necessario o conveniente o desiderabile; o non esserci affatto, di cosa che invece dovrebbe esserci”. Necessario, desiderabile, dovrebbe esserci: il verbo definisce in maniera esauriente il vuoto lasciato da Totò. Sono tra i tanti che gli hanno voluto bene. Apprezzavo le sue corrispondenze per la Gazzetta del Sud da Melicuccà, Seminara, Sinopoli e San Procopio, rigorosamente firmate a.l.: Antonio Ligato. Ma per tutti noi è sempre stato “Totòligato”, tutto attaccato. L’avevo conosciuto intorno al 2000, lui corrispondente per la «Gazzetta del Sud», io per «Il Quotidiano della Calabria». Da allora e fino alla sua morte non abbiamo mai smesso di “frequentarci”, di scandagliare quelle piccole storie che affascinavano entrambi, che io ho finito per raccontare sul blog e nei libri, lui sulle pagine della Gazzetta, in un esercizio appassionante di custodia della memoria dei nostri luoghi. Conservo con orgoglio le sue recensioni ai miei primi due libri sulla storia di Sant’Eufemia: Sant’Eufemia d’Aspromonte. Politica e amministrazione nei documenti dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria. 1861-1922 (2008) e Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte (2013). I corrispondenti locali danno visibilità a posti dei quali spesso, se non ci fossero loro a scriverne, non si saprebbe niente. Sono la voce dei territori che non hanno voce e di coloro che ci vivono. Svolgono una funzione sociale e civile tanto preziosa quanto misconosciuta. Totò Ligato ha svolto questa “missione” in maniera alta. Nella sua lunga attività di cronista curioso del mondo e dell’infinita varietà umana, ha regalato ai lettori della “Gazzetta del Sud” ritratti indimenticabili di personaggi di paese, in particolare della sua Melicuccà nel Novecento: protagonisti di vicende paradigmatiche di un’epoca ricordata con la nostalgia che naturalmente si prova per gli anni che furono. A quelle storie ha dedicato anche un romanzo breve: Sabbia, uno scritto introvabile che qualche anno fa ho avuto la fortuna di recuperare in formato pdf e che meriterebbe di essere ripubblicato, insieme ad una selezione dei suoi articoli più significativi. Totò era un giornalista romantico, al quale la dimensione di corrispondente locale andava bene, nonostante avesse una solidità culturale e uno stile di scrittura da cronista di razza. Mi mancano le sue osservazioni mai banali e la sua capacità di analisi, il suo amore per i nostri territori e per le storie delle umili genti, che soltanto nella penna di chi ha una sensibilità particolare trovano riscatto.
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