Sono trascorse due settimane dalla cocentissima sconfitta subita dal centrosinistra in Calabria, eppure quasi nessuno, tra gli esponenti del PD, ha sentito il dovere di fare sentire la propria voce. È sintomatico che gli unici a spendere qualche parola siano stati coloro che nel PD vivono quasi da stranieri, perché provengono da esperienze differenti rispetto alle due correnti prevalenti (post-comunista e post-democristiana) e hanno sempre mantenuto una propria autonomia, come il socialista Sandro Principe, o perché minoritari e assolutamente emarginati, come Fernanda Gigliotti, esponente della corrente che a livello nazionale fa riferimento ad Ignazio Marino, la quale ha caricato a pallettoni contro l’attuale gruppo dirigente regionale: “Perché lasciare un partito nella mani di chi lo ha condotto ad una sconfitta senza precedenti? Perderemo di nuovo e peggio se non avremo il coraggio di operare scelte, di avanzare proposte riformiste, di intervenire laddove ci sono fenomeni di microfeudalizzazione da eliminare, impresentabili da rimuovere, millantatori da screditare. Sono quasi tre anni, complice una segreteria regionale “assente” e prigioniera di un finto unanimismo, che in Calabria ci fanno vedere un partito che non c’è. Lo dimostrano i dati elettorali che, in molti comuni, vedono il PD prendere meno voti di quanti sono stati i presunti partecipanti alle ultime primarie”.
Una denuncia gravissima, alla quale non è seguita alcuna risposta, che svela uno dei tanti segreti di Pulcinella: le primarie per la scelta del governatore sono state fasulle, un tarocco come le precedenti elezioni per gli organismi regionali e provinciali del partito.
Per la verità, non abbiamo l’esclusiva. La fiction delle primarie va di scena a tutte le italiche latitudini sin da quando questo meccanismo di selezione è stato deciso a livello nazionale. Ciò avviene per un semplice motivo: le primarie hanno un senso laddove (come accade negli USA) nascono dal basso, non dove sono imposte dall’alto come strumento di legittimazione di decisioni prese dai “soliti noti”, quattro-cinque maggiorenti seduti attorno al tavolo di un ristorante. Tant’è vero che in Puglia, dove non c’era un accordo preordinato, si è tentato in tutti i modi di farle saltare. Un’operazione che, se fosse andata in porto, con tutta probabilità avrebbe fatto perdere le elezioni al centrosinistra anche là. Autolesionismo puro, di quello al quale la sinistra ci ha ormai da tempo abituati. Ma che è scontato in un paese in cui ciò che conta è mantenere la propria poltrona, continuare a coltivare il proprio orticello a dispetto di ogni interesse generale.
Sulla stessa lunghezza d’onda della Gigliotti l’unico esponente democrat reggino che dopo la debacle elettorale ha tentato un’analisi onesta su quanto accaduto, Demetrio Battaglia, parecchio a “disagio” per l’atteggiamento dei vertici del partito: “Nessuno che dice: ho sbagliato. Tutti si affaticano a elencare gli errori degli altri. Per chi volontariamente ha dato l’anima per passione e convincimento, e sono tantissimi, è intollerabile questo agitarsi da ultimi giorni dell’impero. Non è difendibile l’arraffa arraffa di quel che è stato risparmiato dal disastro elettorale. Credo, soprattutto spero, sia l’ultima ingloriosa pagina di una storia vecchia, quella di un partito mai nato”.
Un partito mai nato: ecco un’altra scomoda verità, che bisognerà smettere di ignorare, se si vuole ripartire da qualche certezza, pur negativa.
E che presuppone una premessa irrinunciabile: i vertici (sia regionali che provinciali) vanno azzerati, dato che non rappresentano quasi nessuno, a parte i pochi protagonisti del patto scellerato tra un gruppo di consiglieri regionali (tenaci oppositori della candidatura di Loiero a governatore) non più ricandidabili a norma di statuto, con lo stesso Loiero, il quale, in cambio del loro sostegno, ha favorito la deroga per farli ricandidare. Nel silenzio generale, senza che nessuno abbia davvero fatto qualcosa per opporsi a questo sconcio. Tanto meno il segretario regionale. Anzi, per dirla con le parole di Battaglia: “Ha strillato? S’è opposto? Ha fatto la mossa di dimettersi per far saltare l’ignobile compromesso? No, zitto in cambio della sua candidatura al Consiglio. L’ha afferrata e soddisfatto ha mollato per tutta la campagna elettorale il Pd a se stesso”.
Un gesto di responsabilità e di dignità come quello delle dimissioni sarebbe davvero auspicabile, ma dubito che questa classe dirigente sia capace di tanto slancio.
Un punto di partenza potrebbe pertanto essere la proposta di Romano Prodi: un partito federale, ancorato al territorio, con venti segretari regionali che eleggono il segretario nazionale, e dove non contano le tessere (in tanti paesi della nostra provincia il PD è stato votato da meno di un terzo dei propri iscritti) ma i voti effettivamente riportati nelle elezioni. Solo così, forse, si potrebbero mettere nell’angolo i caciccchi e i notabili locali, quelli che da trent’anni fanno il bello e il cattivo tempo, incollati alle proprie poltrone senza dare conto a nessuno del proprio operato.
Minita
Più o meno 35 anni fa, quando ho cominciato ad articolare qualche frase, a chi mi chiedeva quale fosse il mio nome rispondevo “Minita”. Di quell’età ho conservato, negli anni, soprattutto la curiosità, il piacere della ricerca e la capacità di stupirmi per le scoperte che la vita riserva a ciascuno di noi. Ma ogni scoperta, ogni pensiero, per avere vita hanno bisogno di essere condivisi, altrimenti si rivelano soltanto un esercizio sterile. È quello che mi auguro di poter fare grazie a questo blog con coloro che troveranno interessanti e degni di discussione gli argomenti che di volta in volta proporrò o verranno da altri suggeriti.
Devo ammettere che non provo molta simpatia per chi, bardato da una solidissima e inattaccabile armatura concettuale, ha sempre pronta la risposta per ogni interrogativo. Non credo che esista una verità valida sempre e ovunque, ma infinite verità. A volte è difficile riuscire a sostenere con sicurezza cosa sia giusto e cosa sia sbagliato: oggi riteniamo esecrabili comportamenti e convinzioni che i nostri avi consideravano legittimi ed eticamente corretti. Dipende tutto dal contesto storico, culturale e sociale cui facciamo riferimento. Per questi motivi mi trovo più a mio agio con chi è ben disposto al confronto e a rivedere, se necessario, le proprie certezze per trovare, nel rapporto dialettico, le risposte alle tante domande che chiunque abbia un minimo di sensibilità quotidianamente si pone.
“Quante strade deve percorrere un uomo prima di poterlo chiamare uomo?”. È la domanda con cui Bob Dylan, quasi cinquant’anni fa, cambiò non solo il modo di fare musica, ma anche la vita di milioni e milioni di giovani, consegnando alla storia un interrogativo che rimane di straordinaria attualità.
Quando il senso di vuoto e la solitudine del pensiero diventano insopportabili, in una società in cui sembra paradossale l’isolamento, può risultare utile anche affidare alle onde virtuali della rete un messaggio dentro la bottiglia. A futura memoria.