Motivi personali

È l’espressione più in voga, una specie di mantra da ripetere per convincere e convincersi che tutto va bene, la pillola da assumere al bisogno, quando la temperatura sale un po’ troppo. Serve per nascondere la polvere sotto il tappeto, soltanto che il tappeto ora sta toccando il soffitto.
Si avverte qualche scricchiolio inquietante all’interno della maggioranza che amministra il nostro paese. Un paio di mesi fa, le dimissioni da presidente del consiglio comunale sventolate da Tonino Alati, alle spalle un corposo curriculum amministrativo sempre al fianco del sindaco, Enzo Saccà. “Motivi personali”, la versione ufficiale impressa in calce alla lettera di congedo protocollata al comune. Alzi la mano chi se l’è bevuta.
Qualche giorno fa, il passo indietro di Pippo Ascrizzi, il vicesindaco annunciato già nel corso della passata campagna elettorale, la cui nomina era stata presentata come architrave di un’operazione politica complessa e per certi versi ardita, quindi pesante quanto un carico da undici. Per due motivi: perché ha fatto sedere allo stesso tavolo e mettere d’accordo senza che nessuno si graffiasse due avversari fino ad allora irriducibili, con alle spalle quasi trent’anni di accesa conflittualità; perché si trattava di una nomina esterna, in quanto tale ancor più significativa. Anche in questo caso, “motivi personali”.
Per carità, potrebbe anche essere. Nel senso che nel nostro paese non si fa vera politica dagli anni Novanta, per cui tutto si riduce a rapporti personali. La contrapposizione Fedele/Saccà ha praticamente fatto terra bruciata, impedendo non solo la formazione di un’alternativa, ma anche lo sviluppo di un dibattito minimo, una presa di posizione politica qualsiasi, al di là della semplificazione – a volte un alibi per lasciare le cose come stanno – rappresentata dall’antitesi tra i due uomini forti della politica eufemiese. In questo senso, si potrebbe parlare di “motivi personali” perché non esistono più questioni politiche, ma questioni esclusivamente personali.
Se il cigolio proveniente da piazza della Libertà dovesse aumentare d’intensità, potrebbe sorgere qualche problema. Ma forse si temporeggerà un po’: azzardiamo fino alle provinciali della prossima primavera. Certo, se un manipolo di uomini di buona volontà si risolvesse a staccare la spina, chiudendo anticipatamente questa esperienza amministrativa, a occhio e croce non dovrebbero essere in tanti a strapparsi i capelli.

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Il regionalismo centrifugo

Siamo sicuri che i motivi che nel 1861 portarono ad un ordinamento territoriale dello Stato su due livelli (comuni e province, senza regioni) non siano validi pure oggi? Analizzando la storia costituzionale dell’Italia, è facilmente constatabile la giovane età dell’istituto regionale: di fatto, appena quarant’anni di vita. A fronte di una tradizione storica caratterizzata da una ricorrente diffidenza nei confronti delle regioni e dalla predilezione per un ordinamento territoriale basato su comuni e province. Già al momento dell’annessione della Lombardia al Piemonte sabaudo (seconda guerra d’indipendenza), questo orientamento si dimostrò prevalente, con la legge Rattazzi del 1859, di seguito estesa agli Stati dell’Italia centrale. Le voci discordanti diedero però vita ad un vivace dibattito sulle ipotesi “discentatrici” che portò ai progetti regionalistici di Farini e Minghetti, subito stoppati dalla “scoperta” del Sud e dall’esplodere della questione meridionale. La coincidenza territoriale di eventuali regioni con gli antichi Stati preunitari metteva infatti parecchia apprensione alla Destra storica, alle prese con la difesa dello Stato unitario dalle tante spinte disgregatrici, per cui il centralismo si rivelò una scelta obbligata, confermata definitivamente dalla legge 20 marzo 1865 sull’unificazione giuridica e amministrativa dello Stato.  A quasi novant’anni dalla legge Rattazzi, la Costituzione repubblicana si sarebbe incaricata di introdurre le regioni. Così come avvenne per altri istituti (Corte costituzionale, Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, Consiglio superiore della magistratura, Referendum) la loro attuazione fu tutt’altro che immediata. Soprattutto i partiti al governo si mostrarono diffidenti, mentre le sinistre all’opposizione spingevano per il rispetto del dettato costituzionale. Il contesto storico era quello della guerra fredda, dei blocchi contrapposti, della conventio ad excludendum che impediva al Partito Comunista di diventare forza di governo nazionale. Proprio il timore di consegnare ai “rossi” il potere su vaste aree dell’Italia centrale induceva la Democrazia Cristiana ad opporsi all’istituzione delle regioni, che avvenne infine a vent’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, con la legge del 17 febbraio 1968 sulle norme per le elezioni dei consigli regionali delle regioni a statuto ordinario, tenute poi a maggio 1970.
Quarant’anni di regionalismo hanno minato la tenuta dello Stato? Non c’è dubbio che i partiti nazionali siano in affanno. A parte il caso della Lega Nord, non si può non rilevare che la connotazione regionale di molte leadership offusca la dimensione nazionale dei partiti. Basti vedere quello che sta succedendo in Sicilia, con Lombardo e l’MPA capaci di mettere all’angolo il PDL, con Micciché e la sua Forza del Sud in fuga dal partito del premier, così come la pattuglia sempre più numerosa di Futuro e Libertà. Io Sud di Adriana Poli Bortone in Puglia, il gruppo di Beppe Pisanu in Sardegna, la situazione campana che ha registrato lo scontro all’ultimo sangue tra Cosentino e Caldoro e tutte le altre controverse realtà regionali sono l’esempio palmare di come anche una leadership fortissima come quella di Berlusconi arranchi quando gli interessi territoriali riescono a coalizzarsi attorno ad una proposta unitaria, ancor più se essa riesce a superare la tradizionale contrapposizione destra/sinistra. Analoghe considerazioni valgono per la sinistra: Chiamparino in Piemonte e Cacciari in Veneto sono gli esempi più scontati, tanto per restare dentro il PD. Se poi si mette un piede fuori, balza agli occhi il caso Vendola, ostacolato dalla nomenclatura di sinistra ma capace di battere l’apparato del partito sceso da Roma per appoggiare il suo rivale nelle primarie per l’elezione a governatore. O Loiero, che non si sa se è dentro o fuori, ma che è in grado di controllare ben due gruppi regionali, quello del PD e quello della sua lista personale (Autonomia e diritti), con nascosta nella manica la carta da giocare come extrema ratio, il Partito democratico meridionale.
Di fronte ad una situazione talmente parcellizzata, sarebbe forse il caso di riconsiderare i motivi per cui 150 anni fa si scartò l’ipotesi regionale. In un’ottica però moderna, che attui in pieno il principio di sussidiarietà, affidando alle province pieni poteri e autonomia decisionale, amministrativa e finanziaria. Solo così si potrebbe togliere un alibi a coloro che minacciano la secessione, si risparmierebbe un bel po’ di denaro pubblico – dimostrando finalmente di fare sul serio rispetto alle strumentali campagne per l’abolizione delle province, puntualmente finite su un binario morto – e lo stesso Stato, alleggerito di tante funzioni, potrebbe addirittura rafforzare il proprio carattere unitario.

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Se il giornalista non supera l’esame di storia

Da Gianni Brera a Marco Mazzocchi il giornalismo sportivo italiano ne ha fatta di strada. A ritroso. C’erano fondati motivi di sconforto, martedì sera, dinanzi alla castroneria sparata da Mazzocchi in diretta televisiva dallo stadio Marassi. Per calmare i propri tifosi, i giocatori serbi si avvicinano sotto la curva e fanno il gesto del tre con le dita. Interpretazione del giornalista Rai: “i giocatori dicono ai tifosi di smetterla altrimenti perderanno la partita 3-0 a tavolino”.
Per fortuna, a distanza di pochi minuti, il giornalista Bruno Gentili rimedia allo strafalcione del suo collega e ristabilisce la verità. Che non era un segreto di stato. Il “saluto a tre dita” (o “saluto serbo”) fa parte della simbologia ultranazionalista serba e rimanda alle pagine più buie della storia dell’ex Jugoslavia, quelle che videro protagonisti i gruppi cetnici (i fascisti serbi) nella guerra civile che si intrecciò con la resistenza contro l’invasore nazista durante la seconda guerra mondiale e nella pulizia etnica degli anni ’90 del Novecento.
I serbi sono forse gli unici al mondo a celebrare una sconfitta, quella subita il 28 giugno 1389 dai turchi nella Piana dei Merli (“Kosovo Polje”), come mito fondante della nazione. Una data, quella in cui si festeggia San Vito (28 giugno), che ricorre di continuo e marca gli avvenimenti più salienti, tanto che lo storico Joze Pirievec ha intitolato Il giorno di San Vito il suo fondamentale studio sulla storia della ex Jugoslavia: l’assassinio, a Sarajevo, dell’arciduca Francesco Ferdinando – erede al trono d’Austria – e di sua moglie Sofia, per mano del nazionalista serbo Gavrilo Princip, che causò lo scoppio della prima guerra mondiale (1914); l’approvazione della Costituzione (detta, appunto, “di San Vito”) del regno SHS – “Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni”; dal 1931, “Jugoslavia” – che stabilì la forma monarchico-parlamentare (1921); l’espulsione della Jugoslavia comunista dal Cominform (1948); la manifestazione organizzata da Slobodan Milosevic per il seicentesimo anniversario della battaglia della Piana dei Merli, che preannunciò l’imminente guerra civile (1989).
È una storia di popoli diversi per etnie, lingue, culture, religioni. Un vero e proprio ginepraio. Croati e sloveni più europei per via del retaggio austro-ungarico e cattolico; serbi e montenegrini storicamente legati alla Russia per il comune slavismo e la religione ortodossa; macedoni più “orientali” in virtù della storica sudditanza alla Sublime Porta. Ancora, serbo-bosniaci, croato-bosniaci, ungheresi della Vojvodina, albanesi del Kosovo, considerato sin dal 1389 culla della civiltà serba (“Kosovo è Serbia” era un eloquente striscione esposto allo stadio). E, nel cuore stesso dello stato ex Jugoslavo, la compresenza di tutti i fattori di diversità in un unico stato, la Bosnia-Erzegovina, dove l’elemento turco s’incontra (e si scontra) con quello serbo e croato. Il ponte sulla Drina, del premio Nobel per la letteratura Ivo Andric, è la metafora perfetta della Bosnia (e della stessa ex Jugoslavia): una terra in bilico tra occidente ed oriente, tra cristianesimo ed islam, come la cittadina bosniaca del romanzo, Visegrad, divisa in due dal fiume Drina e unita dal ponte che collega due sponde (e due mondi).
La storia della Jugoslavia, come stato unitario, comincia con l’assetto europeo stabilito a Versailles dopo la prima guerra mondiale. Una creatura fortemente voluta da Francia e Inghilterra in funzione anti-imperi centrali inizialmente, quindi per contrastare le mire espansionistiche di Italia e Ungheria. Tra le due guerre mondiali vive di fatto “sotto tutela”, grazie agli aiuti finanziari anglo-francesi, che ne determinano tutte le decisioni politiche, compreso – nel 1929 – il colpo di stato di Alessandro I contro le opposizioni.
All’interno del Paese si afferma l’ideale grande-serbo: i serbi occupano i gangli dell’amministrazione burocratica e militare, mentre il sistema economico si fonda sul costante drenaggio delle risorse economiche dalle regioni ricche (Croazia e Slovenia) verso Belgrado. Questo modello viene fatto proprio anche dal maresciallo Tito, che dopo la seconda guerra mondiale stabilisce la dittatura al termine di un periodo convulso che registra, accanto alla guerra contro l’invasore nazista, quella tra le truppe cetniche di Mihailovic e i partigiani comunisti.
Il regime titoista attraversa diverse fasi: dalla fedeltà al modello sovietico all’eresia sanzionata dalla scomunica stalinista nel 1948, fino all’elaborazione dottrinaria di Kardelj e Dijlas che costituisce la base teorica del socialismo jugoslavo. Pilastri del nuovo corso sono l’autogestione in politica interna, il non-allineamento e il terzomondismo nel campo estero (una sorta di “pendolo” tra i due blocchi creati a Yalta).
I conflitti interni diventano però sempre più aspri e, inevitabilmente, esplodono in seguito alla morte di Tito (1980), quando i vincoli federali si allentano e la disastrosa congiuntura economica esaspera quelle spinte secessionistiche che diventano incontrollabili dopo la caduta del muro di Berlino. Una deriva che viene mirabilmente evocata da Emir Kusturica nella sequenza finale di Underground, capolavoro cinematografico che ripercorre cinquant’anni di storia nazionale, dalla seconda guerra mondiale alla disgregazione dello stato jugoslavo.
Il resto è guerra, distruzione e crimini contro l’umanità. E un dopoguerra lunghissimo, con la questione kosovara ancora capace di generare tensione e apprensione.

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L’equivoco

Dagli articoli e commenti pubblicati negli ultimi due anni, prima sul sito santeufemiaonline e ora su questo blog, si potrebbero fraintendere le mie reali impressioni sulla società attuale. Vorrei pertanto rassicurare i miei venticinque lettori (per dirla alla Manzoni): la nostalgica e facile suggestione del “si stava meglio quando si stava peggio” non mi appartiene, se non nel senso che soggettivamente posso preferire alcuni aspetti del passato rispetto a comportamenti che non condivido o non riesco a decifrare con i miei (desueti?) parametri di valutazione. Comprendo invece che i tempi sono mutati e che la realtà odierna è completamente diversa rispetto a quella di qualche decennio fa, perché le trasformazioni intervenute hanno stravolto le abitudini e la vita delle persone.
È sufficiente parlare con chi oggi ha settanta-ottanta anni per comprendere di quanto siano cambiate le nostre comunità. Parecchie persone sono cresciute in abitazioni prive di beni che noi diamo per scontati: elettricità, acqua corrente, servizi igienici, cucine, riscaldamenti (per non dire degli elettrodomestici e di tutto quanto sia collegato allo sviluppo tecnologico), persino brande e materassi. Quando, alla fine degli anni ’50, cominciarono ad arrivare in paese i primi televisori e la gente dei quartieri (le “rrughe”) si riuniva nelle abitazioni dei pochi fortunati che ne possedevano uno per vedere “Il musichiere” o gli sceneggiati, in tanti andavano a controllare dietro quell’incomprensibile scatolone per verificare se non ci fosse qualcuno nascosto.
Questo per dire che non sono un luddista, non considero cioè il progresso tecnologico un male; e per affermare una verità lapalissiana, cioè che senza dubbio la qualità della vita è di parecchio migliorata dal secondo dopoguerra ad oggi. È pur vero, però, che lo sviluppo industriale ha provocato contraccolpi negativi nelle relazioni sociali: si parla di meno, si tende sempre più all’autosufficienza affettiva, sono aumentate le paure verso l’esterno, si sta sempre di più in casa e di meno sulla strada, a contatto con la vita vera. Quando escono, specie i ragazzini e i bambini, sono sostanzialmente parcheggiati da qualche parte (tempo pieno a scuola, palestra, scuola di ballo, di musica, di tutto).
Questo non significa che i giovani e i bambini di oggi siano meno intelligenti. Semmai è vero il contrario, dato che l’abilità tecnologica di alcuni è veramente sorprendente. Bambini che ancora non hanno imparato a scrivere riescono ad utilizzare correttamente un computer o un telefonino. La loro capacità di apprendimento è di gran lunga superiore rispetto a quella delle generazioni passate, probabilmente perché il cervello, ricevendo maggiori stimoli dall’esterno, è più allenato e predisposto a sviluppare le capacità cognitive.
Il corto circuito scatta quando il nuovo fa tabula rasa del passato, quando sulla modernità non vengono innestati quei valori tanto “antichi” quanto bistrattati: famiglia, amicizia, rispetto, responsabilità.
La famiglia non può abdicare al proprio ruolo educativo. Il permissivismo e il giustificazionismo di alcuni genitori sono dannosissimi. Molti ragazzi pensano che tutto sia loro dovuto e che possano (e debbano) fare qualsiasi cosa passi loro per la testa. Questo perché non è stato loro insegnato che accanto ai diritti esistono anche i doveri; che il rispetto del prossimo e dell’ambiente che ci circonda è un valore fondamentale; che senza responsabilità non può esistere una vita di relazione.
Così come non può rinunciarvi la scuola, con i suoi insegnanti sempre più umiliati e considerati alla stregua di baby sitter, privi di qualsiasi autorevolezza.
Né tantomeno i rapporti interpersonali possono ridursi al click distratto con cui su Facebook si accetta una richiesta di amicizia. Non è inusuale che persone “amiche” nella rete, se si incontrano per strada neanche si salutano. Per me questo non è normale: è semplicemente inconcepibile.

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La morte in diretta

Provo un profondo disagio nell’esprimere un giudizio negativo su Federica Sciarelli e sul suo “Chi l’ha visto?”, che seguo sin dagli inizi e reputo un esempio di vero servizio pubblico in palinsesti quasi interamente monopolizzati da programmi-spazzatura. Niente a che vedere, insomma, con tutti quei programmi che speculano – da mane a sera – sulle disgrazie altrui, esibendo le solite compagnie di giro e gli immancabili fenomeni da baraccone. Tutti a favore di telecamera, tutti pronti a dispensare la propria verità, i propri sospetti, i “si vedeva che era così”. Spesso lontani parenti delle vittime, gente che in molti casi non ha mai avuto rapporti (o non ne ha da tempo immemorabile) con i malcapitati protagonisti della tragedia, ma che ne approfitta per poter godere del proprio warholiano quarto d’ora di celebrità.
In quale gorgo stiamo precipitando, se non riusciamo a fermarci davanti a niente, se non comprendiamo che davanti all’orrore occorre a volte spegnere le telecamere e lasciare che il dolore torni ad essere un sentimento privato, da tenere per sé e non da esibire nella piazza televisiva?
La spettacolarizzazione della morte è un esempio di come qualsiasi sentimento, per esistere, ha bisogno di essere buttato in piazza, condiviso con altri, “linkato” come avviene su internet per qualsiasi cosa, sia un post, una foto o un video.
E poi c’è questa abitudine, pessima, di fare baccano, quando invece occorrerebbe stare zitti. Ci sono dei momenti in cui si devono spegnere le luci, abbassare le voci e lasciare campo al silenzio. La morte esige silenzio, compostezza, raccoglimento. Non quegli odiosi applausi che ormai frequentemente si odono ai funerali. Da sempre, l’applauso esprime gioia, non dolore. Il dolore si esprime con il silenzio e con le lacrime, possibilmente a telecamere spente.
Dovrebbe esistere un modo per affermare il diritto di cronaca senza turbare le coscienze. Quelle telecamere che insistevano sul volto della madre per carpirne le reazioni alla notizia della confessione resa ai giudici dal cognato hanno fatto del male alla famiglia della vittima, a noi che assistevamo e alla televisione in generale. È stato superato il limite del buonsenso. Quello che avrebbe dovuto avere Federica Sciarelli (o qualche responsabile del programma), interrompendo d’imperio la diretta dalla casa dell’assassino, senza chiedere alla madre di Sarah se volesse ascoltare le notizie che si stavano diffondendo in rete e spiegando, dopo (alla famiglia e al pubblico), ciò che stava accadendo.

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Volevo morire in Piazza Grande

A guardare le piazze del mio paese, anche Lucio Dalla si sarebbe ricreduto e avrebbe riformulato il desiderio di morire nella sua adorata Piazza Grande, “tra i gatti che non han padrone come me”. In tempi di politically correct anche il bruttume ha diritto di cittadinanza, non fosse altro che per segnalare alle giovani generazioni le cose da non fare per salvaguardare un minimo di armonia e bellezza nello spazio che ci circonda. Non può esserci altra argomentazione valida per giustificare lo scempio architettonico – e non solo – delle piazze di Sant’Eufemia.
I luoghi dell’incontro e della memoria, per dirla con le parole della traccia di un tema di maturità di alcuni anni fa, stanno diventando aree poco fruibili, fatta esclusione per piazza Matteotti, che però presenta una serie di altre gravi problematiche.
Alcune non hanno neanche un nome, segno di inequivocabile povertà culturale: possibile che dal secondo dopoguerra non ci sia stato un eufemiese degno di essere ricordato nella toponomastica cittadina? La piazzetta in via maggiore Cutrì appartiene a questa categoria: quella – per intenderci – senza ringhiera, senza un cespuglio, un albero o un fiore, con panchine simili ai tavoli di un obitorio e con una ghigliottina limacciosa al posto della fontana. Così come quella in via De Nava, che come altre ha una spiccata polifunzionalità, tanto da fungere indifferentemente da piazza e da parcheggio.
Piazza Azzolina ne è l’esempio più eclatante, ma è addirittura preferibile nelle condizioni attuali rispetto all’iniziale piramide (o “supposta”) al centro della piazza e alla sudiceria della fontana che era diventata un cassonetto della spazzatura. Un altro bel parcheggio è stato ricavato nel largo Giovanni Paolo II, inaugurato in fretta e furia per ragioni politiche alla vigilia delle passate elezioni comunali. In barba, evidentemente, al ben noto motto “scherza con i fanti ma lascia stare i santi”. E definiamo scherzo tutta l’operazione politico-mediatica sorta intorno a quella inaugurazione per carità di patria. Paradossalmente, se ora quell’area fosse davvero utilizzata come parcheggio risolverebbe i problemi di congestione del traffico che nell’area attorno a piazza Matteotti fanno imprecare gli automobilisti costretti a incolonnarsi dietro le macchine di coloro che per entrare nelle attività commerciali di via Vittorio Veneto sostano impunemente dove non si dovrebbe.
Già, piazza Matteotti. La piazza dei ventinove lampioni che incredibilmente non assicurano una completa illuminazione; delle poche e scomodissime panchine (piangiamo quelle di prima, che erano sistemate in modo da consentire la conversazione a gruppi di una decina di persone); dell’inutile chiosco; delle pendenze che raccolgono al centro la pioggia creando una suggestiva piscina; della leggendaria palla, assurta a metafora di un’intera amministrazione comunale.
A breve dovrebbero iniziare i lavori di riqualificazione di piazza don Minzoni: incrociamo le dita.

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C’erano una volta i partiti

Quasi quasi viene da rimpiangere la partitocrazia della tanto vituperata Prima Repubblica. Almeno era chiaro chi stava con chi, chi era un compagno di viaggio, quali erano gli avversari.
Oggi è una melma gelatinosa, per non utilizzare il linguaggio “pulp, molto pulp, pure troppo” di Thomas Prostata, alias Bebo Storti, che rimanda alla più citata pillola di saggezza dispensata da Rino Formica: “la politica è sangue e merda”.
Questa estate abbiamo assistito all’implosione di un partito (parolona) – il PDL – crollato sotto i colpi che i due cofondatori (Berlusconi e Fini) si sono scambiati senza risparmio, in un clima di resa dei conti simil basso impero. La sinistra si è così ritrovata a “fare il tifo” per Fini, segno inequivocabile della propria inconsistenza e dell’incapacità di avanzare una proposta politica endogena, indipendente cioè dall’unica ragione (esterna) che tiene insieme i tanti cacicchi (copyright: Massimo D’Alema), mezzi bianchi e mezzi rossi: l’antiberlusconismo – di facciata tra l’altro, visto che quando ci fu la possibilità di sanare la più grave anomalia del sistema politico italiano (il conflitto d’interessi del premier) fu la sinistra al governo a rivelarsi assolutamente inadeguata.
Trovo molto triste e avvilente lo spettacolo allestito da personaggi impudenti che hanno anche l’ardire di dichiarare enfaticamente di avere a cuore “l’interesse del Paese”. Personalmente, non mi sento rappresentato da politici che (a destra, a sinistra, al centro) non sono in grado di fare ciò per cui i cittadini votano e pagano. Chi ha vinto deve governare, chi ha perso deve esercitare l’altrettanto importante funzione di controllo. Tutti gli altri tentativi di sovvertire il responso delle urne sono mascalzonate. In questo, per la prima volta nella mia vita, mi trovo d’accordo con Berlusconi. Se cade il governo, occorre andare al voto. La sinistra, questa sinistra evanescente, è terrorizzata dall’idea di tornare alle urne perché rischia seriamente di scomparire. Ecco perché rispolvera un malinteso senso delle istituzioni per tentare un giochino vecchio quanto il cucco: un accordo che le consenta, principalmente, di guadagnare altri tre anni, indispensabili (e forse neanche sufficienti) per organizzare una reazione che assomigli almeno ad un flebile respiro.
Il problema è che Berlusconi è capace di vincere da solo eventuali elezioni, tanta è l’impalpabilità dell’avversario. E ciò costituisce davvero una seria preoccupazione. Altro che leggi ad personam: ci ritroveremmo con un Parlamento quasi completamente piegato al volere di un capo del governo dotato di un potere vastissimo.
Riassumendo: da un lato abbiamo un partito sempre più personale e aziendale, con le ultime voci fuori dal coro messe alla porta; dall’altra una specie di ectoplasma sopravvissuto malamente al velleitarismo veltroniano della “vocazione maggioritaria” e comunque incapace di coagulare energie e personalità forti attorno ad una proposta seria e credibile. L’Unione di Prodi è stata sbranata dagli alleati. Non si capisce perché dovrebbe avere sorte diversa una riedizione riveduta e corretta (Montezemolo? Casini? Allegria, popolo della sinistra). E poi, si sa: la prima volta è tragedia, la seconda farsa.

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L’uomo e la regina

La passione per il teatro, così come quella altrettanto intensa per i classici greci, traspare un po’ ovunque tra le pagine del bel romanzo di Aldo Coloprisco, L’uomo e la regina (Laruffa editore, Reggio Calabria 2009). L’incipit stesso, con il protagonista che si guarda allo specchio e si sistema il cappello con cura, rimanda alle indicazioni per la messa in scena di un’opera teatrale. C’è un’attenzione per i dettagli nella descrizione sia dei posti che dei comportamenti dei personaggi che ci riporta all’attività di regista e di autore teatrale di Coloprisco: “il bastone di legno leggero dal manico d’osso” del protagonista; la donna che ha “il mento appoggiato sul manico della scopa” mentre conversa; la preparazione meticolosa del caffè, la descrizione minuziosa della bottega del “restauratore”, o quella della cappella privata, nella scena che introduce, in pagine di grande lirismo, il toccante ricordo delle dolci carezze all’anziano padre e della morte della madre.
Credo quindi che il romanzo debba molto all’amore del suo autore per il teatro, inteso secondo il celebre aforisma di Eduardo De Filippo: “lo sforzo disperato che compie l’uomo nel tentativo di dare alla vita un qualsiasi significato è teatro”.
Questa cura per i particolari a volte sembra avere anche altre ascendenze. Mi riferisco alla descrizione della stanza e degli oggetti che circondano il protagonista nel passaggio in cui ricorda le veglie notturne, nell’attesa del ritorno a casa dei figli. Si possono infatti rilevare delle assonanze con “le buone cose di pessimo gusto” di Guido Gozzano nella poesia L’amica di nonna Speranza, oppure – operando un collegamento al di fuori della letteratura – con la canzone Vite, di Francesco Guccini, nella quale il cantautore si pone le stesse domande del protagonista del romanzo sul destino degli oggetti e delle persone che, nel fluire del tempo, li hanno di volta in volta posseduti e utilizzati.
La vicenda si consuma nell’arco di una giornata, nel corso della quale il protagonista rivive tutta la propria vita, come nel nastro di un film riavvolto, ma incontra anche tutta una serie di personaggi che danno un senso alla sua intera esistenza nelle ore che precedono il suo distacco dalle cose terrene. La complessità delle tematiche affrontate non impedisce all’autore di riuscire a farsi leggere sovente col sorriso sulle labbra. Il romanzo è infatti pervaso da un’ironia ora sottile ora corrosiva, ma in nessun caso triviale. Penso ad alcune riflessioni sulle giovani donne che sposano uomini molto più maturi, sugli intellettuali che polemizzano sui massimi sistemi e sul sesso degli angeli; o all’incontro con il “restauratore”, un personaggio che sembra uscito dalla fortunata tradizione letteraria romanesca che va da Gioacchino Belli a Trilussa.
Lo svolgimento dell’intreccio avviene su più piani, sia temporali che spaziali, grazie al sapiente ricorso al flash-back come artificio narrativo efficace per tenere insieme una trama ricca di storie e di personaggi. Tra le pieghe dei ricordi si intravedono persone e luoghi che fanno senza dubbio parte dell’album autobiografico dell’autore.
Il presente – in una città caotica e dai ritmi forsennati – rivela tutte le rughe fisiche e interiori che comporta l’incedere della vecchiaia e si contrappone ad un passato quasi onirico nel quale situazioni e personaggi affollano la mente del protagonista come fantasmi che appaiono all’improvviso, in una Calabria che è “terra selvaggia ma bellissima”, soggiogata dalla violenza che governa la natura e la società. Una terra in cui è ancora possibile assistere al delitto d’onore di un giovane per mano dei suoi “tre più cari amici”, sulla scorta di accuse probabilmente false. In pagine che riecheggiano il migliore Corrado Alvaro, viene descritta la morte di massaro Rocco, “travolto con le sue pecore dalla furia di fango e di pietre”. Altrove, il barbaro assassinio di Antonio – un giovane che si era ribellato ai soprusi e al malaffare e che aveva osato candidarsi a sindaco in un paese di “quattro case e un forno” – si pone invece nel solco tracciato da un altro calabrese d’esportazione, il carfizzoto Carmine Abate. Il paesino di Calabria è soprattutto il luogo dell’infanzia e della giovinezza, rappresentato da un ciliegio fiorito che rimanda ad uno dei più bei libri di Enzo Biagi, L’albero dai fiori bianchi, anch’esso venato da una forte nostalgia per i luoghi e i volti della gioventù. Volti, in alcuni casi, mai rivisti nel corso degli anni. Storie consumate nell’arco di un pomeriggio, come l’amore per Elisa, della quale il protagonista non sa più nulla, ma il cui ricordo continua a provocare un’emozione intensissima. “È stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati”, canta d’altronde Fabrizio De Andrè nella canzone Giugno ’73. Un microcosmo destinato forse a scomparire (“il paese muore – ammonisce l’autore – senza che nessuno faccia niente per salvarlo”), agonizzante a causa dell’emorragia costante di giovani che emigrano alla ricerca di lavoro, che si contrappone alla Capitale, “una camera a gas” popolata da esseri inscatolati in trabiccoli metallici, alienati e frenetici nel loro andare senza meta e con un bisogno pressante di stare in mezzo alla folla per sentirsi vivi, anche soltanto per sproloquiare su qualsiasi argomento (tempo, governo, calcio, salute). Nel caos quotidiano, anche un’azione apparentemente insignificante come quella di lasciare a casa volontariamente il telefonino può costituire un gesto di grande libertà, un volersi riappropriare della propria esistenza di fronte alle invasioni che la nostra privacy di continuo subisce. Coloprisco non rinuncia ad aprire una finestra sull’attualità, lasciandosi andare a considerazioni mai banali sulla libertà, la democrazia, il potere della televisione e la condizione dell’uomo nella società dei consumi. Mai come in questo momento, di fronte ai tentativi di omologazione cui siamo quotidianamente sottoposti, allo squallore intellettuale di chi vuole farci credere che questo è il migliore dei mondi possibili e che è sovversivo chiunque non lo riconosca, servono voci limpide e terse che denuncino l’inganno. Altrimenti diventa impossibile accorgersi di un’umanità dolente, che può assumere le sembianze di una donna “tradita e delusa” che improvvisamente si dedica soltanto alle faccende domestiche, rinunciando ad avere qualsiasi altro ruolo nella famiglia e nella società; di un disoccupato che “non sa dove sbattere la testa”; di un ragazzo che pensa di superare i propri problemi esistenziali togliendosi la vita; di un barbone che mendica qualche spicciolo; di una prostituta che per necessità o per costrizione vende il proprio corpo. Coloprisco ci presenta questa umanità con delicatezza, con quella “com-passione” che, come ci spiega l’etimologia, rende partecipi della sofferenza altrui ed esalta la pietas che sta alla base dell’amore e del rispetto per il prossimo. L’incontro con Marisa, che si definisce “un trenino rotto” e che convive con il dolore atroce causato dalla morte del figlio per overdose, non è soltanto la denuncia contro uno dei mali più subdoli della nostra società, ma offre anche all’autore lo spunto per affrontare una questione sulla quale più volte ritorna: il rapporto problematico con la religione. La posizione intellettualmente più saggia non può che essere rappresentata dall’agnosticismo, che non va confuso – come spesso accade – con l’ateismo. L’ateo nega l’esistenza di Dio, l’agnostico non si pronuncia, in quanto non può dare una risposta razionalmente sicura, per cui lascia aperto il campo a qualsiasi ipotesi. C’è però un bisogno di fede e di certezze difficile da nascondere, una ricerca ossessiva che forse, come sosteneva Sant’Agostino, è essa stessa fede. Strettamente legato a questo è poi il tema della morte, colei che finalmente darà le risposte alle infinite domande che ognuno si pone e che Coloprisco propone in pagine altamente introspettive.
L’inseguimento tra il protagonista e la “regina” si conclude con l’incontro finale. Questa donna che appare e scompare, rinviando di fatto l’appuntamento dell’uomo con la morte ricorda, per certi versi, il celebre film di Ingmar Bergman, Il settimo sigillo, nel quale il cavaliere e la morte giocano una partita a scacchi dall’esito scontato mentre attraversano i mali della società. Anche Coloprisco ci fa vedere le piaghe del mondo, prima fra tutte la guerra, contro la quale scaglia un anatema vigoroso (“maledetti gli uomini che vogliono la guerra, bestie più delle bestie”) e contemporaneamente ci fa commuovere con la “favola della stella” che una nonna racconta al proprio nipotino. Per altri versi, credo sia invece possibile azzardare un paragone con la produzione teatrale (ma non solo) di Samuel Beckett. Anche gli eroi beckettiani – ad esempio i protagonisti di L’ultimo nastro di Krapp; Finale di partita; Aspettando Godot – sono generalmente colti nel momento che precede la fine, una fine che inconsciamente cercano. Come il protagonista de L’uomo e la regina, sono personaggi un po’ avanti negli anni che si raccontano e ci raccontano delle storie nel tentativo di prolungare così la loro agonia perché sentono “l’obbligo di esprimere in un mondo in cui non c’è niente da esprimere”, rinviando così il raggiungimento di quella fine che pure desiderano perché “non c’è più niente da rimpiangere, non ci sono anni da rivolere indietro”.
Il protagonista del romanzo di Coloprisco va incontro al suo destino, come gli eroi delle tragedie greche, senza tentare di procrastinare un incontro che comunque avverrà, con un’ansia di affrontare l’ignoto paragonabile alla smania di Ulisse nel ventiseiesimo canto dell’Inferno di Dante. Nonostante l’epilogo tragico, l’autore riesce a consolarci con parole e immagini di speranza e di vita perché – come egli stesso ci ricorda – è vero che sono stolti gli uomini che vogliono conoscere il proprio destino, ma è anche vero che è saggio l’uomo che nel suo piccolo spende la vita per lasciare alle generazioni future un mondo migliore di quello ereditato dai suoi predecessori.

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L’untore

La caccia all’untore è da sempre uno sport molto popolare in Italia. Tanto quanto l’adulazione verso i potenti. Comportamenti molto diffusi che costituiscono due facce della stessa medaglia. In genere, è proprio colui che è platealmente adorato – specialmente se potente e temuto – ad essere altrettanto odiato una volta caduto in disgrazia. Pescare nella storia della nostra nazione esempi che avvalorino questa tesi è esercizio facilissimo. Piazzale Loreto – una scena da “macelleria messicana” (Ferruccio Parri) – non sarebbe altrimenti comprensibile. Il cadavere dell’uomo osannato fino al giorno prima, preso a calci, sputato, orinato.
Fatte le debite proporzioni, è ciò che accade nella vita quotidiana: a scuola, in ufficio, al comune, nel condominio, ovunque vi siano rapporti gerarchici, anche soltanto in senso lato. Vale a dire dappertutto.
Da circa un mese a questa parte, il giochino preferito degli Italiani è lo sputtanamento di Marcello Lippi. Mentirei se dicessi che il personaggio mi sta simpatico. Tutt’altro. Lo trovo arrogante, saccente, troppo pieno di sé e poco rispettoso del mondo che lo circonda. Senza contare che agli occhi di un interista, l’ex allenatore della nazionale sconta non soltanto il pessimo ricordo lasciato nella breve parentesi nerazzurra, ma soprattutto il peccato originale della sua juventitudine, l’essere stato, a vario titolo, compagno di merende di Moggi, Giraudo e Bettega. Ritengo inoltre pertinenti gran parte delle critiche sui limiti tecnici della nostra nazionale e sulle responsabilità del suo condottiero. Insomma, un po’ se l’è cercata.
Eppure ho l’impressione che si stia superando il segno. Una sensazione che è diventata certezza quando ho visto in tv uno spot di suonerie per telefonini che invitava a scaricare una canzone dall’eloquente titolo “Vergogna”. Inutile dire chi sia il personaggio che dovrebbe provare vergogna e i motivi. In quel momento ho pensato che aveva ragione Indro Montanelli nel sostenere che quando si accendono i roghi occorre mettersi sempre dalla parte della strega, anche a rischio di salire sul rogo con lei.
La redazione sportiva Rai ci ha massacrato per giorni con le “dieci” domande alle quali Lippi avrebbe dovuto rispondere, magari prima di confessare la propria irredimibile colpevolezza e la richiesta spontanea di essere confinato in un Gulag siberiano. Non ho notato nella Rai identico accanimento per questioni ben più importanti, per esempio le dieci domande (toh, non hanno neanche la dote dell’originalità) del quotidiano “La Repubblica” per Berlusconi dopo lo scandalo D’Addario, letteralmente censurate dal servizio pubblico nazionale.
È un segno dei tempi, di un certo giornalismo ormai diventato gara di ugole, come abbiamo potuto constatare per un anno intero con il fenomeno Mourinho, tanto per restare nel campo sportivo. Criticato perché irregolare, irriverente e anticonformista, ma già rimpianto perché personaggio straordinario, l’unico in grado di fare riempire pagine di giornali e trasmissioni intere con una sola battuta contro quel sistema che fa mangiare nello stesso tavolo giornalisti, allenatori, procuratori. Magari gli stessi che di fronte alle telecamere fanno la faccia feroce e se ne dicono di tutti i colori. Ognuno recitando il proprio copione.

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Quel vecchio tanfo di fascismo

Il grande giurista Piero Calamandrei amava ripetere che “la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”. Ma c’è di più: all’inizio uno neanche se ne accorge, perché continua a respirare lo stesso, pur con sempre maggiore difficoltà. Fino a quando non soffoca.
Stanno tentando di fare questo: asfissiarci poco alla volta, sopprimendo i diritti conquistati con anni di lotte, di esilio e di galera. Lo stanno facendo scientificamente. Un diritto in meno oggi, un altro ancora domani. Quando, finalmente, il popolo si sveglierà dal torpore in cui è sprofondato, si ritroverà con la catena al collo.
È un’esagerazione? Siamo i soliti comunisti catastrofisti? Non sono mai stato comunista. E comunque, non credo sia neanche questo ormai il problema, a meno che non si voglia considerare pure Gianfranco Fini (distante anni luce dalle mie convinzioni politiche) un pericoloso e sovversivo trinariciuto.
Il disegno di legge sulle intercettazioni, che il Parlamento si sta affrettando ad approvare con una lena inusuale (e sospetta), va esattamente in quella direzione. Tra i primi provvedimenti (1923) adottati dal fascismo prima ancora che diventasse regime, ci fu proprio la limitazione della libertà di stampa. Ora vogliono fare passare come dettato dalla necessità di difendere la privacy dei cittadini (un’esigenza sacrosanta) un ddl che in realtà punta a mettere il bavaglio all’informazione non allineata e scomoda, quella che – tanto per essere chiari – ha consentito di scoperchiare i tanti pentoloni dell’affarismo di cricche e consorterie varie.
Ancora: in pochi si sono accorti che, con la motivazione della lotta all’immigrazione clandestina, si stanno introducendo delle vere e proprie leggi razziali, come quella che prevedeva l’aggravante per i reati commessi dai clandestini e che la Consulta di recente ha cassato. Per chi l’avesse dimenticato, l’articolo 3 della Costituzione recita: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Strano che proprio il presidente della Repubblica, che dovrebbe essere il custode della nostra Carta fondamentale, se ne fosse scordato e avesse dato il via libera.
Quando le camicie nere furono alle porte di Roma, il presidente del consiglio Luigi Facta e il ministro dell’Interno Paolino Taddei sottoposero al re Vittorio Emanuele III il decreto di stato d’assedio approvato in piena notte dal consiglio dei ministri. Dapprima d’accordo, il re si rifiutò di firmare e le cose andarono come sappiamo. Ora, il presidente non è soltanto un notaio che firma qualsiasi foglio gli mettano davanti. Ha anche un potere rilevantissimo, quello di rinviare alle Camere le leggi in cui ravvisa profili di incostituzionalità. Lo eserciti.
E l’uso vergognoso e strumentale delle cariche pubbliche? Quale altra finalità potrebbe avere la nomina di Aldo Brancher a ministro (non si sa bene neanche di cosa, visto che Bossi si è infuriato quando ha sentito di un ministero per il federalismo, che è roba sua) se non quella di eludere – grazie al legittimo impedimento – il filone collaterale del processo sulla scalata all’Antonveneta che lo vede coinvolto? Difatti, un quarto d’ora dopo l’accettazione dell’incarico si era subito avvalso di questa facoltà (che sarebbe più corretto definire artificio) per evitare il processo. D’altronde, il maestro (guarda caso, suo capo sin dai tempi di Pubblitalia) l’ha avuto di prima scelta. Fortunatamente, in questo caso Napolitano ha mostrato segnali di resipiscenza: non c’è niente da organizzare in un ministero senza portafoglio. Resta comunque il disinvolto, strumentale e inverecondo uso delle cariche pubbliche per fini personali, la strafottenza e l’arroganza di chi si sente al di sopra della legge.
Da ultimo, l’accordo di Pomigliano, che la Fiat ha potuto imporre anche in virtù del sostegno governativo. Certo, come si fa a dire a più di 5.000 operai con famiglie da mantenere che quell’accordo non andava firmato perché non si possono barattare i diritti dei lavoratori con il posto di lavoro? La libertà però è un bene indisponibile e ciò che è avvenuto nello stabilimento Fiat rappresenta un pericoloso campanello d’allarme.
Non sono per niente d’accordo sul fatto che – come si dice da più parti – occorra “abbassare i toni”. A furia di abbassare i toni, ci siamo abituati a sopportare qualsiasi porcata. Occorre invece alzare i toni, fare sentire la voce di chi considera la libertà il bene più prezioso.

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