Buu…oni a nulla

Chissà cosa penserebbero i deficienti che hanno fatto largo sfoggio di idiozia, ululando contro un ragazzo di vent’anni “colpevole” di essere un italiano di colore, dei dirigenti del Colosimi, la società di Prima categoria del cosentino che ha tesserato e trovato un lavoro e una casa all’ivoriano Coulibaly Tiemoko, giunto in Calabria al termine di un’odissea costata la vita al padre, a piedi attraverso l’Africa e su un barcone sballottato dalle acque del Mediterraneo.
Pretendere dai sedicenti “Ultras Italia” che hanno fischiato Mario Balotelli l’acume di Albert Einstein alla domanda sulla razza di appartenenza (risposta: “umana”), sarebbe davvero troppo. Per chiarire meglio il pensiero elaborato dall’unico neurone attivo, hanno pure esposto due striscioni significativi: “No alla nazionale multietnica” e “Non ci sono neri italiani”.
Alla base del pregiudizio che alimenta le pulsioni più recondite e abiette dell’animo nei confronti del “diverso” (sia esso nero, omosessuale, ebreo, zingaro e così via), vi è spesso non la mera malvagità, quanto quella che Hannah Arendt ha definito la “banalità del male”, l’inconsapevolezza cioè del valore etico dei comportamenti individuali. Questa considerazione non deve però affatto spingere all’indulgenza. Così come non deve costituire un alibi per attenuare le responsabilità.
Il problema, gira e rigira, è sempre lo stesso: lo stadio è una terra di nessuno dove, nonostante gli innegabili progressi compiuti negli ultimi anni, si può violare la legge con buone probabilità di farla franca. Molte curve sono ormai diventate un covo di beceri che pretendono “onore” e “rispetto”, invece del disprezzo che a ragione va riservato a chi espone striscioni con svastiche e simboli runici, fischia i giocatori di colore, esprime solidarietà per dei delinquenti ai quali è stato giustamente proibito di andare allo stadio.
Da più parti si inneggia al “modello inglese”. D’accordissimo. Ma la repressione, da sola, non può funzionare in un Paese che fa della certezza della pena un optional. Ci vogliono stadi nuovi e privatizzati, con tutti i posti numerati e controllabili con facilità. Solo in questo modo le società sportive diventeranno realmente responsabili della propria tifoseria e gli stessi gruppi ultras sarebbero costretti ad una maggiore attenzione nell’accettare le adesioni, come accade in tutte le associazioni. È per l’insieme di questi motivi che, in Inghilterra, tutti si sentono responsabili di ciò che accade all’interno di uno stadio e se un tifoso urla un insulto, lancia un oggetto, o soltanto si alza dal proprio seggiolino, viene immediatamente bloccato dai suoi stessi vicini.

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Fare fronte

Hanno ragione d’essere, oggi, le categorie destra e sinistra? Morte e sepolte le ideologie del ventesimo secolo, possiamo ancora accapigliarci su cosa sia di destra e cosa di sinistra, come faceva Giorgio Gaber, prendendo in giro un po’ tutti?
Il Paese è prostrato da una crisi economica che dura da anni e della quale non si intravede la fine. Osservando i comportamenti di personaggi assurti a modelli di vita – è sufficiente un quarto d’ora davanti ad una telecamera per diventare un ascoltato ed influente maître à penser – è possibile rilevare quotidianamente un angosciante declino etico della società. Il messaggio, semplice e agghiacciante, è che con i soldi si può comprare tutto; con i compromessi nessun traguardo è irraggiungibile; l’intelligenza e il merito sono meno utili di uno stacco di coscia vertiginoso o di un passaggio dalla villa del Lele Mora di turno. Il sistema politico italiano e, prima ancora, la società civile stanno andando a rotoli e ancora – come se le lancette fossero pietrificate al 1994 – il dibattito si avvita sull’antitesi tra berlusconismo e antiberlusconismo. Una coazione a ripetere che, di fatto, è stata funzionale al perpetuarsi del potere di una classe politica inadeguata. Dove sarebbero ora i più fedeli lacchè di Berlusconi o, sull’altra sponda, i suoi più tenaci oppositori senza questo scenario di perenne lotta del bene contro il male? Personaggi che alimentano il culto della personalità del capo o la demonizzazione di colui che è considerato l’unico vero responsabile di tutti i mali della società italiana e non, piuttosto, il suo prodotto.
Soprattutto, ha senso una contrapposizione del genere nel Mezzogiorno, visto che non fa altro che andare a vantaggio del governo centrale e degli interessi del Nord del Paese, quelli che storicamente hanno avuto la prevalenza su ogni ipotesi di perequazione sociale, politica ed economica dell’Italia? Il fiorire di esperimenti politici a forte connotazione localistica sembra rappresentare una novità significativa. È la reazione di coloro che sono stanchi di essere considerati soltanto un voto affidato a classi politiche distanti, distratte e disinteressate. Qualcuno dovrebbe infatti spiegarci per quale motivo da giorni i mass media parlano esclusivamente dell’alluvione nel Veneto e ignorano (o quasi) la Campania e, soprattutto, la Calabria. Per quale motivo nessuno – come invece hanno fatto Corriere della Sera e La7 per il Veneto – si è fatto promotore di una sottoscrizione per raccogliere fondi per le regioni meridionali alluvionate?
Ecco perché occorre “fare fronte”, al di là di ogni appartenenza politica. Non per elemosinare qualcosa, quanto per avere riconosciuta pari dignità.

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Quando la coppia scoppia

La metafora del cerino aiuta a capire, ma per rendere meglio l’idea occorre rifarsi a quelle scene in cui Bud Spencer, al termine di un lungo scambio di colpi dati e ricevuti, scaraventa a terra il malcapitato di turno. Bisogna capire chi, tra Berlusconi e Fini, alla fine soccomberà.
Il dato certo è che così non si può più andare avanti. Su questo concordano tutti. Il logoramento di Berlusconi e del governo dura ormai da un anno e mezzo, dalla lettera nella quale Veronica Lario contesta i metodi di selezione delle candidature pidielline e scoperchia il pentolone delle discutibili abitudini e frequentazioni del premier. L’effetto domino è devastante. Nel gorgo finisce tutto, matrimonio e alleanze politiche. Il metodo Boffo diventa l’arma con cui i giornali vicini al premier tentano di mettere la museruola a Fini (con il crescendo rossiniano che conduce alla vicenda della casa di Montecarlo), ma il “controcanto” del presidente della Camera diventa quotidiano, sino all’espulsione decretata dal collegio politico del PDL il 29 luglio scorso e alla nascita di Futuro e Libertà, con il discorso di Mirabello che il 5 settembre ratifica la scomparsa del partito del predellino.
Berlusconi difficilmente si dimetterà, mentre il ritiro della delegazione governativa finiana porterebbe, di fatto, ad un governo di minoranza costantemente esposto al fuoco amico dell’Aula. Dopo la convention di Bastia Umbra, il percorso sembra tuttavia tracciato. Questione di tempo. Preso atto della fine di un ciclo storico e politico, Futuro e Libertà dichiara di volere andare “oltre” Berlusconi e il berlusconismo, pur restando nell’alveo del centrodestra, ma rimettendo al centro del dibattito questioni politiche, non le vicende personali del capo del governo. La mission apertamente enunciata è il riequilibrio “territoriale” per rintuzzare le spinte nordiste dell’Esecutivo. Da qui l’affondo di Fini sull’utilizzo dei fondi FAS come un bancomat in mano a Tremonti per i più disparati bisogni della Lega. Va interpretata in questo senso anche la richiesta di un rimpasto governativo che apra all’UDC. Nonostante il ricordo poco confortante dei governi Berlusconi II e III, con le ricorrenti tensioni tra Fini e Casini, in gran parte dovute alla rivalità su chi debba raccogliere l’eredità politica del presidente del Consiglio.
Come andrà a finire? La caduta del governo in questo momento rappresenterebbe un imprudente salto nel buio. Un’eventualità da scongiurare anche nel caso in cui i finiani, secondo quanto hanno minacciato di fare, dovessero dimettersi dal governo. Per senso di responsabilità si dovrebbe procedere all’approvazione della Legge di Stabilità (l’ex Finanziaria), dopodiché, a dicembre (quando – non va dimenticato – la Consulta si pronuncerà sul legittimo impedimento), si dovrebbe aprire ufficialmente la crisi che porterebbe alle elezioni nella prossima primavera. A meno che non si dovessero trovare i soldi per realizzare il federalismo fiscale tanto caro alla Lega. In quel caso andrebbe tutto a carte quarantotto e gli scenari al momento più inverosimili potrebbero diventare possibili: congiure di palazzo, alleanze trasversali e ribaltoni, per completare la legislatura e portare a compimento qualcuna delle riforme al momento esistenti solo sulla carta.

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Motivi personali

È l’espressione più in voga, una specie di mantra da ripetere per convincere e convincersi che tutto va bene, la pillola da assumere al bisogno, quando la temperatura sale un po’ troppo. Serve per nascondere la polvere sotto il tappeto, soltanto che il tappeto ora sta toccando il soffitto.
Si avverte qualche scricchiolio inquietante all’interno della maggioranza che amministra il nostro paese. Un paio di mesi fa, le dimissioni da presidente del consiglio comunale sventolate da Tonino Alati, alle spalle un corposo curriculum amministrativo sempre al fianco del sindaco, Enzo Saccà. “Motivi personali”, la versione ufficiale impressa in calce alla lettera di congedo protocollata al comune. Alzi la mano chi se l’è bevuta.
Qualche giorno fa, il passo indietro di Pippo Ascrizzi, il vicesindaco annunciato già nel corso della passata campagna elettorale, la cui nomina era stata presentata come architrave di un’operazione politica complessa e per certi versi ardita, quindi pesante quanto un carico da undici. Per due motivi: perché ha fatto sedere allo stesso tavolo e mettere d’accordo senza che nessuno si graffiasse due avversari fino ad allora irriducibili, con alle spalle quasi trent’anni di accesa conflittualità; perché si trattava di una nomina esterna, in quanto tale ancor più significativa. Anche in questo caso, “motivi personali”.
Per carità, potrebbe anche essere. Nel senso che nel nostro paese non si fa vera politica dagli anni Novanta, per cui tutto si riduce a rapporti personali. La contrapposizione Fedele/Saccà ha praticamente fatto terra bruciata, impedendo non solo la formazione di un’alternativa, ma anche lo sviluppo di un dibattito minimo, una presa di posizione politica qualsiasi, al di là della semplificazione – a volte un alibi per lasciare le cose come stanno – rappresentata dall’antitesi tra i due uomini forti della politica eufemiese. In questo senso, si potrebbe parlare di “motivi personali” perché non esistono più questioni politiche, ma questioni esclusivamente personali.
Se il cigolio proveniente da piazza della Libertà dovesse aumentare d’intensità, potrebbe sorgere qualche problema. Ma forse si temporeggerà un po’: azzardiamo fino alle provinciali della prossima primavera. Certo, se un manipolo di uomini di buona volontà si risolvesse a staccare la spina, chiudendo anticipatamente questa esperienza amministrativa, a occhio e croce non dovrebbero essere in tanti a strapparsi i capelli.

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Il regionalismo centrifugo

Siamo sicuri che i motivi che nel 1861 portarono ad un ordinamento territoriale dello Stato su due livelli (comuni e province, senza regioni) non siano validi pure oggi? Analizzando la storia costituzionale dell’Italia, è facilmente constatabile la giovane età dell’istituto regionale: di fatto, appena quarant’anni di vita. A fronte di una tradizione storica caratterizzata da una ricorrente diffidenza nei confronti delle regioni e dalla predilezione per un ordinamento territoriale basato su comuni e province. Già al momento dell’annessione della Lombardia al Piemonte sabaudo (seconda guerra d’indipendenza), questo orientamento si dimostrò prevalente, con la legge Rattazzi del 1859, di seguito estesa agli Stati dell’Italia centrale. Le voci discordanti diedero però vita ad un vivace dibattito sulle ipotesi “discentatrici” che portò ai progetti regionalistici di Farini e Minghetti, subito stoppati dalla “scoperta” del Sud e dall’esplodere della questione meridionale. La coincidenza territoriale di eventuali regioni con gli antichi Stati preunitari metteva infatti parecchia apprensione alla Destra storica, alle prese con la difesa dello Stato unitario dalle tante spinte disgregatrici, per cui il centralismo si rivelò una scelta obbligata, confermata definitivamente dalla legge 20 marzo 1865 sull’unificazione giuridica e amministrativa dello Stato.  A quasi novant’anni dalla legge Rattazzi, la Costituzione repubblicana si sarebbe incaricata di introdurre le regioni. Così come avvenne per altri istituti (Corte costituzionale, Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, Consiglio superiore della magistratura, Referendum) la loro attuazione fu tutt’altro che immediata. Soprattutto i partiti al governo si mostrarono diffidenti, mentre le sinistre all’opposizione spingevano per il rispetto del dettato costituzionale. Il contesto storico era quello della guerra fredda, dei blocchi contrapposti, della conventio ad excludendum che impediva al Partito Comunista di diventare forza di governo nazionale. Proprio il timore di consegnare ai “rossi” il potere su vaste aree dell’Italia centrale induceva la Democrazia Cristiana ad opporsi all’istituzione delle regioni, che avvenne infine a vent’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, con la legge del 17 febbraio 1968 sulle norme per le elezioni dei consigli regionali delle regioni a statuto ordinario, tenute poi a maggio 1970.
Quarant’anni di regionalismo hanno minato la tenuta dello Stato? Non c’è dubbio che i partiti nazionali siano in affanno. A parte il caso della Lega Nord, non si può non rilevare che la connotazione regionale di molte leadership offusca la dimensione nazionale dei partiti. Basti vedere quello che sta succedendo in Sicilia, con Lombardo e l’MPA capaci di mettere all’angolo il PDL, con Micciché e la sua Forza del Sud in fuga dal partito del premier, così come la pattuglia sempre più numerosa di Futuro e Libertà. Io Sud di Adriana Poli Bortone in Puglia, il gruppo di Beppe Pisanu in Sardegna, la situazione campana che ha registrato lo scontro all’ultimo sangue tra Cosentino e Caldoro e tutte le altre controverse realtà regionali sono l’esempio palmare di come anche una leadership fortissima come quella di Berlusconi arranchi quando gli interessi territoriali riescono a coalizzarsi attorno ad una proposta unitaria, ancor più se essa riesce a superare la tradizionale contrapposizione destra/sinistra. Analoghe considerazioni valgono per la sinistra: Chiamparino in Piemonte e Cacciari in Veneto sono gli esempi più scontati, tanto per restare dentro il PD. Se poi si mette un piede fuori, balza agli occhi il caso Vendola, ostacolato dalla nomenclatura di sinistra ma capace di battere l’apparato del partito sceso da Roma per appoggiare il suo rivale nelle primarie per l’elezione a governatore. O Loiero, che non si sa se è dentro o fuori, ma che è in grado di controllare ben due gruppi regionali, quello del PD e quello della sua lista personale (Autonomia e diritti), con nascosta nella manica la carta da giocare come extrema ratio, il Partito democratico meridionale.
Di fronte ad una situazione talmente parcellizzata, sarebbe forse il caso di riconsiderare i motivi per cui 150 anni fa si scartò l’ipotesi regionale. In un’ottica però moderna, che attui in pieno il principio di sussidiarietà, affidando alle province pieni poteri e autonomia decisionale, amministrativa e finanziaria. Solo così si potrebbe togliere un alibi a coloro che minacciano la secessione, si risparmierebbe un bel po’ di denaro pubblico – dimostrando finalmente di fare sul serio rispetto alle strumentali campagne per l’abolizione delle province, puntualmente finite su un binario morto – e lo stesso Stato, alleggerito di tante funzioni, potrebbe addirittura rafforzare il proprio carattere unitario.

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Se il giornalista non supera l’esame di storia

Da Gianni Brera a Marco Mazzocchi il giornalismo sportivo italiano ne ha fatta di strada. A ritroso. C’erano fondati motivi di sconforto, martedì sera, dinanzi alla castroneria sparata da Mazzocchi in diretta televisiva dallo stadio Marassi. Per calmare i propri tifosi, i giocatori serbi si avvicinano sotto la curva e fanno il gesto del tre con le dita. Interpretazione del giornalista Rai: “i giocatori dicono ai tifosi di smetterla altrimenti perderanno la partita 3-0 a tavolino”.
Per fortuna, a distanza di pochi minuti, il giornalista Bruno Gentili rimedia allo strafalcione del suo collega e ristabilisce la verità. Che non era un segreto di stato. Il “saluto a tre dita” (o “saluto serbo”) fa parte della simbologia ultranazionalista serba e rimanda alle pagine più buie della storia dell’ex Jugoslavia, quelle che videro protagonisti i gruppi cetnici (i fascisti serbi) nella guerra civile che si intrecciò con la resistenza contro l’invasore nazista durante la seconda guerra mondiale e nella pulizia etnica degli anni ’90 del Novecento.
I serbi sono forse gli unici al mondo a celebrare una sconfitta, quella subita il 28 giugno 1389 dai turchi nella Piana dei Merli (“Kosovo Polje”), come mito fondante della nazione. Una data, quella in cui si festeggia San Vito (28 giugno), che ricorre di continuo e marca gli avvenimenti più salienti, tanto che lo storico Joze Pirievec ha intitolato Il giorno di San Vito il suo fondamentale studio sulla storia della ex Jugoslavia: l’assassinio, a Sarajevo, dell’arciduca Francesco Ferdinando – erede al trono d’Austria – e di sua moglie Sofia, per mano del nazionalista serbo Gavrilo Princip, che causò lo scoppio della prima guerra mondiale (1914); l’approvazione della Costituzione (detta, appunto, “di San Vito”) del regno SHS – “Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni”; dal 1931, “Jugoslavia” – che stabilì la forma monarchico-parlamentare (1921); l’espulsione della Jugoslavia comunista dal Cominform (1948); la manifestazione organizzata da Slobodan Milosevic per il seicentesimo anniversario della battaglia della Piana dei Merli, che preannunciò l’imminente guerra civile (1989).
È una storia di popoli diversi per etnie, lingue, culture, religioni. Un vero e proprio ginepraio. Croati e sloveni più europei per via del retaggio austro-ungarico e cattolico; serbi e montenegrini storicamente legati alla Russia per il comune slavismo e la religione ortodossa; macedoni più “orientali” in virtù della storica sudditanza alla Sublime Porta. Ancora, serbo-bosniaci, croato-bosniaci, ungheresi della Vojvodina, albanesi del Kosovo, considerato sin dal 1389 culla della civiltà serba (“Kosovo è Serbia” era un eloquente striscione esposto allo stadio). E, nel cuore stesso dello stato ex Jugoslavo, la compresenza di tutti i fattori di diversità in un unico stato, la Bosnia-Erzegovina, dove l’elemento turco s’incontra (e si scontra) con quello serbo e croato. Il ponte sulla Drina, del premio Nobel per la letteratura Ivo Andric, è la metafora perfetta della Bosnia (e della stessa ex Jugoslavia): una terra in bilico tra occidente ed oriente, tra cristianesimo ed islam, come la cittadina bosniaca del romanzo, Visegrad, divisa in due dal fiume Drina e unita dal ponte che collega due sponde (e due mondi).
La storia della Jugoslavia, come stato unitario, comincia con l’assetto europeo stabilito a Versailles dopo la prima guerra mondiale. Una creatura fortemente voluta da Francia e Inghilterra in funzione anti-imperi centrali inizialmente, quindi per contrastare le mire espansionistiche di Italia e Ungheria. Tra le due guerre mondiali vive di fatto “sotto tutela”, grazie agli aiuti finanziari anglo-francesi, che ne determinano tutte le decisioni politiche, compreso – nel 1929 – il colpo di stato di Alessandro I contro le opposizioni.
All’interno del Paese si afferma l’ideale grande-serbo: i serbi occupano i gangli dell’amministrazione burocratica e militare, mentre il sistema economico si fonda sul costante drenaggio delle risorse economiche dalle regioni ricche (Croazia e Slovenia) verso Belgrado. Questo modello viene fatto proprio anche dal maresciallo Tito, che dopo la seconda guerra mondiale stabilisce la dittatura al termine di un periodo convulso che registra, accanto alla guerra contro l’invasore nazista, quella tra le truppe cetniche di Mihailovic e i partigiani comunisti.
Il regime titoista attraversa diverse fasi: dalla fedeltà al modello sovietico all’eresia sanzionata dalla scomunica stalinista nel 1948, fino all’elaborazione dottrinaria di Kardelj e Dijlas che costituisce la base teorica del socialismo jugoslavo. Pilastri del nuovo corso sono l’autogestione in politica interna, il non-allineamento e il terzomondismo nel campo estero (una sorta di “pendolo” tra i due blocchi creati a Yalta).
I conflitti interni diventano però sempre più aspri e, inevitabilmente, esplodono in seguito alla morte di Tito (1980), quando i vincoli federali si allentano e la disastrosa congiuntura economica esaspera quelle spinte secessionistiche che diventano incontrollabili dopo la caduta del muro di Berlino. Una deriva che viene mirabilmente evocata da Emir Kusturica nella sequenza finale di Underground, capolavoro cinematografico che ripercorre cinquant’anni di storia nazionale, dalla seconda guerra mondiale alla disgregazione dello stato jugoslavo.
Il resto è guerra, distruzione e crimini contro l’umanità. E un dopoguerra lunghissimo, con la questione kosovara ancora capace di generare tensione e apprensione.

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L’equivoco

Dagli articoli e commenti pubblicati negli ultimi due anni, prima sul sito santeufemiaonline e ora su questo blog, si potrebbero fraintendere le mie reali impressioni sulla società attuale. Vorrei pertanto rassicurare i miei venticinque lettori (per dirla alla Manzoni): la nostalgica e facile suggestione del “si stava meglio quando si stava peggio” non mi appartiene, se non nel senso che soggettivamente posso preferire alcuni aspetti del passato rispetto a comportamenti che non condivido o non riesco a decifrare con i miei (desueti?) parametri di valutazione. Comprendo invece che i tempi sono mutati e che la realtà odierna è completamente diversa rispetto a quella di qualche decennio fa, perché le trasformazioni intervenute hanno stravolto le abitudini e la vita delle persone.
È sufficiente parlare con chi oggi ha settanta-ottanta anni per comprendere di quanto siano cambiate le nostre comunità. Parecchie persone sono cresciute in abitazioni prive di beni che noi diamo per scontati: elettricità, acqua corrente, servizi igienici, cucine, riscaldamenti (per non dire degli elettrodomestici e di tutto quanto sia collegato allo sviluppo tecnologico), persino brande e materassi. Quando, alla fine degli anni ’50, cominciarono ad arrivare in paese i primi televisori e la gente dei quartieri (le “rrughe”) si riuniva nelle abitazioni dei pochi fortunati che ne possedevano uno per vedere “Il musichiere” o gli sceneggiati, in tanti andavano a controllare dietro quell’incomprensibile scatolone per verificare se non ci fosse qualcuno nascosto.
Questo per dire che non sono un luddista, non considero cioè il progresso tecnologico un male; e per affermare una verità lapalissiana, cioè che senza dubbio la qualità della vita è di parecchio migliorata dal secondo dopoguerra ad oggi. È pur vero, però, che lo sviluppo industriale ha provocato contraccolpi negativi nelle relazioni sociali: si parla di meno, si tende sempre più all’autosufficienza affettiva, sono aumentate le paure verso l’esterno, si sta sempre di più in casa e di meno sulla strada, a contatto con la vita vera. Quando escono, specie i ragazzini e i bambini, sono sostanzialmente parcheggiati da qualche parte (tempo pieno a scuola, palestra, scuola di ballo, di musica, di tutto).
Questo non significa che i giovani e i bambini di oggi siano meno intelligenti. Semmai è vero il contrario, dato che l’abilità tecnologica di alcuni è veramente sorprendente. Bambini che ancora non hanno imparato a scrivere riescono ad utilizzare correttamente un computer o un telefonino. La loro capacità di apprendimento è di gran lunga superiore rispetto a quella delle generazioni passate, probabilmente perché il cervello, ricevendo maggiori stimoli dall’esterno, è più allenato e predisposto a sviluppare le capacità cognitive.
Il corto circuito scatta quando il nuovo fa tabula rasa del passato, quando sulla modernità non vengono innestati quei valori tanto “antichi” quanto bistrattati: famiglia, amicizia, rispetto, responsabilità.
La famiglia non può abdicare al proprio ruolo educativo. Il permissivismo e il giustificazionismo di alcuni genitori sono dannosissimi. Molti ragazzi pensano che tutto sia loro dovuto e che possano (e debbano) fare qualsiasi cosa passi loro per la testa. Questo perché non è stato loro insegnato che accanto ai diritti esistono anche i doveri; che il rispetto del prossimo e dell’ambiente che ci circonda è un valore fondamentale; che senza responsabilità non può esistere una vita di relazione.
Così come non può rinunciarvi la scuola, con i suoi insegnanti sempre più umiliati e considerati alla stregua di baby sitter, privi di qualsiasi autorevolezza.
Né tantomeno i rapporti interpersonali possono ridursi al click distratto con cui su Facebook si accetta una richiesta di amicizia. Non è inusuale che persone “amiche” nella rete, se si incontrano per strada neanche si salutano. Per me questo non è normale: è semplicemente inconcepibile.

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La morte in diretta

Provo un profondo disagio nell’esprimere un giudizio negativo su Federica Sciarelli e sul suo “Chi l’ha visto?”, che seguo sin dagli inizi e reputo un esempio di vero servizio pubblico in palinsesti quasi interamente monopolizzati da programmi-spazzatura. Niente a che vedere, insomma, con tutti quei programmi che speculano – da mane a sera – sulle disgrazie altrui, esibendo le solite compagnie di giro e gli immancabili fenomeni da baraccone. Tutti a favore di telecamera, tutti pronti a dispensare la propria verità, i propri sospetti, i “si vedeva che era così”. Spesso lontani parenti delle vittime, gente che in molti casi non ha mai avuto rapporti (o non ne ha da tempo immemorabile) con i malcapitati protagonisti della tragedia, ma che ne approfitta per poter godere del proprio warholiano quarto d’ora di celebrità.
In quale gorgo stiamo precipitando, se non riusciamo a fermarci davanti a niente, se non comprendiamo che davanti all’orrore occorre a volte spegnere le telecamere e lasciare che il dolore torni ad essere un sentimento privato, da tenere per sé e non da esibire nella piazza televisiva?
La spettacolarizzazione della morte è un esempio di come qualsiasi sentimento, per esistere, ha bisogno di essere buttato in piazza, condiviso con altri, “linkato” come avviene su internet per qualsiasi cosa, sia un post, una foto o un video.
E poi c’è questa abitudine, pessima, di fare baccano, quando invece occorrerebbe stare zitti. Ci sono dei momenti in cui si devono spegnere le luci, abbassare le voci e lasciare campo al silenzio. La morte esige silenzio, compostezza, raccoglimento. Non quegli odiosi applausi che ormai frequentemente si odono ai funerali. Da sempre, l’applauso esprime gioia, non dolore. Il dolore si esprime con il silenzio e con le lacrime, possibilmente a telecamere spente.
Dovrebbe esistere un modo per affermare il diritto di cronaca senza turbare le coscienze. Quelle telecamere che insistevano sul volto della madre per carpirne le reazioni alla notizia della confessione resa ai giudici dal cognato hanno fatto del male alla famiglia della vittima, a noi che assistevamo e alla televisione in generale. È stato superato il limite del buonsenso. Quello che avrebbe dovuto avere Federica Sciarelli (o qualche responsabile del programma), interrompendo d’imperio la diretta dalla casa dell’assassino, senza chiedere alla madre di Sarah se volesse ascoltare le notizie che si stavano diffondendo in rete e spiegando, dopo (alla famiglia e al pubblico), ciò che stava accadendo.

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Volevo morire in Piazza Grande

A guardare le piazze del mio paese, anche Lucio Dalla si sarebbe ricreduto e avrebbe riformulato il desiderio di morire nella sua adorata Piazza Grande, “tra i gatti che non han padrone come me”. In tempi di politically correct anche il bruttume ha diritto di cittadinanza, non fosse altro che per segnalare alle giovani generazioni le cose da non fare per salvaguardare un minimo di armonia e bellezza nello spazio che ci circonda. Non può esserci altra argomentazione valida per giustificare lo scempio architettonico – e non solo – delle piazze di Sant’Eufemia.
I luoghi dell’incontro e della memoria, per dirla con le parole della traccia di un tema di maturità di alcuni anni fa, stanno diventando aree poco fruibili, fatta esclusione per piazza Matteotti, che però presenta una serie di altre gravi problematiche.
Alcune non hanno neanche un nome, segno di inequivocabile povertà culturale: possibile che dal secondo dopoguerra non ci sia stato un eufemiese degno di essere ricordato nella toponomastica cittadina? La piazzetta in via maggiore Cutrì appartiene a questa categoria: quella – per intenderci – senza ringhiera, senza un cespuglio, un albero o un fiore, con panchine simili ai tavoli di un obitorio e con una ghigliottina limacciosa al posto della fontana. Così come quella in via De Nava, che come altre ha una spiccata polifunzionalità, tanto da fungere indifferentemente da piazza e da parcheggio.
Piazza Azzolina ne è l’esempio più eclatante, ma è addirittura preferibile nelle condizioni attuali rispetto all’iniziale piramide (o “supposta”) al centro della piazza e alla sudiceria della fontana che era diventata un cassonetto della spazzatura. Un altro bel parcheggio è stato ricavato nel largo Giovanni Paolo II, inaugurato in fretta e furia per ragioni politiche alla vigilia delle passate elezioni comunali. In barba, evidentemente, al ben noto motto “scherza con i fanti ma lascia stare i santi”. E definiamo scherzo tutta l’operazione politico-mediatica sorta intorno a quella inaugurazione per carità di patria. Paradossalmente, se ora quell’area fosse davvero utilizzata come parcheggio risolverebbe i problemi di congestione del traffico che nell’area attorno a piazza Matteotti fanno imprecare gli automobilisti costretti a incolonnarsi dietro le macchine di coloro che per entrare nelle attività commerciali di via Vittorio Veneto sostano impunemente dove non si dovrebbe.
Già, piazza Matteotti. La piazza dei ventinove lampioni che incredibilmente non assicurano una completa illuminazione; delle poche e scomodissime panchine (piangiamo quelle di prima, che erano sistemate in modo da consentire la conversazione a gruppi di una decina di persone); dell’inutile chiosco; delle pendenze che raccolgono al centro la pioggia creando una suggestiva piscina; della leggendaria palla, assurta a metafora di un’intera amministrazione comunale.
A breve dovrebbero iniziare i lavori di riqualificazione di piazza don Minzoni: incrociamo le dita.

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C’erano una volta i partiti

Quasi quasi viene da rimpiangere la partitocrazia della tanto vituperata Prima Repubblica. Almeno era chiaro chi stava con chi, chi era un compagno di viaggio, quali erano gli avversari.
Oggi è una melma gelatinosa, per non utilizzare il linguaggio “pulp, molto pulp, pure troppo” di Thomas Prostata, alias Bebo Storti, che rimanda alla più citata pillola di saggezza dispensata da Rino Formica: “la politica è sangue e merda”.
Questa estate abbiamo assistito all’implosione di un partito (parolona) – il PDL – crollato sotto i colpi che i due cofondatori (Berlusconi e Fini) si sono scambiati senza risparmio, in un clima di resa dei conti simil basso impero. La sinistra si è così ritrovata a “fare il tifo” per Fini, segno inequivocabile della propria inconsistenza e dell’incapacità di avanzare una proposta politica endogena, indipendente cioè dall’unica ragione (esterna) che tiene insieme i tanti cacicchi (copyright: Massimo D’Alema), mezzi bianchi e mezzi rossi: l’antiberlusconismo – di facciata tra l’altro, visto che quando ci fu la possibilità di sanare la più grave anomalia del sistema politico italiano (il conflitto d’interessi del premier) fu la sinistra al governo a rivelarsi assolutamente inadeguata.
Trovo molto triste e avvilente lo spettacolo allestito da personaggi impudenti che hanno anche l’ardire di dichiarare enfaticamente di avere a cuore “l’interesse del Paese”. Personalmente, non mi sento rappresentato da politici che (a destra, a sinistra, al centro) non sono in grado di fare ciò per cui i cittadini votano e pagano. Chi ha vinto deve governare, chi ha perso deve esercitare l’altrettanto importante funzione di controllo. Tutti gli altri tentativi di sovvertire il responso delle urne sono mascalzonate. In questo, per la prima volta nella mia vita, mi trovo d’accordo con Berlusconi. Se cade il governo, occorre andare al voto. La sinistra, questa sinistra evanescente, è terrorizzata dall’idea di tornare alle urne perché rischia seriamente di scomparire. Ecco perché rispolvera un malinteso senso delle istituzioni per tentare un giochino vecchio quanto il cucco: un accordo che le consenta, principalmente, di guadagnare altri tre anni, indispensabili (e forse neanche sufficienti) per organizzare una reazione che assomigli almeno ad un flebile respiro.
Il problema è che Berlusconi è capace di vincere da solo eventuali elezioni, tanta è l’impalpabilità dell’avversario. E ciò costituisce davvero una seria preoccupazione. Altro che leggi ad personam: ci ritroveremmo con un Parlamento quasi completamente piegato al volere di un capo del governo dotato di un potere vastissimo.
Riassumendo: da un lato abbiamo un partito sempre più personale e aziendale, con le ultime voci fuori dal coro messe alla porta; dall’altra una specie di ectoplasma sopravvissuto malamente al velleitarismo veltroniano della “vocazione maggioritaria” e comunque incapace di coagulare energie e personalità forti attorno ad una proposta seria e credibile. L’Unione di Prodi è stata sbranata dagli alleati. Non si capisce perché dovrebbe avere sorte diversa una riedizione riveduta e corretta (Montezemolo? Casini? Allegria, popolo della sinistra). E poi, si sa: la prima volta è tragedia, la seconda farsa.

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