Gaza come la Sidone di De Andrè

Le parole possono cambiare il mondo? Qualcuno le ascolta? La risposta è un doppio no. Le parole potrebbero forse cambiare il mondo se l’umanità tendesse l’orecchio verso l’altro, se tutti facessimo tesoro della raccomandazione del filosofo Plutarco al giovane Nicandro, contenuta nell’opuscolo “L’arte di ascoltare”: «Il saper ascoltare bene è il punto di partenza per vivere secondo il bene».
Ciò che sta succedendo a Gaza conferma la nostra sordità. Beati i possessori della verità e del giusto, beati coloro che sventolano vessilli da ultras: bandiere di vittoria da piantare nelle pance dei morti, sosteneva Ignazio Buttitta, in una spirale di contrapposizione ideologica e di violenza della quale non si riesce a vedere la fine.
Ragione e torto, dicevamo. Il diritto di esistere di Israele, il diritto della popolazione palestinese a vivere con dignità.
Le brigate al-Qassam e Netanyahu sono indifendibili. Criminali. Non esiste una ragione che spieghi la caccia all’uomo di Hamas nei kibbutz della Striscia e non esiste una ragione che giustifichi la vendetta indiscriminata di Israele sui civili di Gaza.
Si è indifferenti alle conseguenze di un disastro umanitario spaventoso, ancora soltanto all’inizio. E sono state spazzate dal vento le parole di umana pietà dedicate da Fabrizio De Andrè all’attacco subito dalla città libanese di Sidone, ad opera delle truppe del generale Sharon nel 1982, nel corso della guerra civile libanese: «Me la sono immaginata – spiegò – come un uomo arabo di mezz’età, sporco, disperato, sicuramente povero, che tiene in braccio il proprio figlio macinato dai cingoli di un carro armato».
L’album era il capolavoro Crêuza de mä (1984). La canzone, in dialetto genovese come tutte le tracce del disco, si intitolava Sidùn. Di seguito, il testo tradotto in italiano:

Il mio bambino il mio
il mio
labbra grasse al sole
di miele di miele
Tumore dolce benigno
di tua madre
spremuto nell’afa umida
dell’estate dell’estate
E ora grumo di sangue orecchie
e denti di latte
e gli occhi dei soldati cani arrabbiati
con la schiuma alla bocca cacciatori di agnelli
a inseguire la gente come selvaggina
finché il sangue selvatico non gli ha spento la voglia
e dopo il ferro in gola i ferri della prigione
e nelle ferite il seme velenoso della deportazione
Perché di nostro dalla pianura al molo
non possa più crescere albero né spiga né figlio
ciao bambino mio l’eredità
è nascosta
in questa città
che brucia che brucia
nella sera che scende
e in questa grande luce di fuoco
per la tua piccola morte

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E la chiamano informazione

Chiedo anticipatamente perdono se aggiungo il mio inutile commento all’inutile polemica attorno alla quale si stanno sprecando fiumi di inutile inchiostro: ben quattro pagine solo sul Corriere della Sera, stamattina. Approfitto della vicenda Meloni/Giambruno per esporre qualche considerazione sull’infimo livello raggiunto dal giornalismo nostrano e sullo squallore del dibattito politico attuale.
L’informazione televisiva e dei giornali da tempo si è ridotta a brutta copia della fogna social. Una perversa degenerazione nella quale l’unica certezza è che l’originale è sempre meglio dell’imitazione. Sui social, pudore e deontologia sono retaggi del passato, ma tv e carta stampata non stanno meglio in salute. La domanda non è più: «Dove va il giornalismo?». Bensì: «C’è ancora da scavare?». Vada quindi per i fuori onda, che tutto sono tranne che giornalismo. Se vogliamo almeno estrarre i piedi dalla melma, al fondo di un poderoso sforzo intellettuale chiediamoci, piuttosto, perché certi fuori onda vengono trasmessi a distanza di quattro mesi dalla loro registrazione. È stata la vendetta di Mediaset, che si era legata al dito la frase di Meloni: «Ha dimenticato di aggiungere che io non sono ricattabile», pronunciata a commento degli aggettivi (“supponente, prepotente, arrogante, offensiva”) appuntati su un foglietto da Silvio Berlusconi?
O, con un colpo solo, Antonio Ricci ha tolto le castagne dal fuoco sia a Mediaset che alla premier, portando brillantemente a compimento l’esecuzione dell’indifendibile (e, come sembra, da mesi ex first gentlemen) Giambruno, in un perfetto regolamento di conti aziendale e politico?
Potrebbe insomma avere ragione l’ideatore di Striscia: «Un giorno [Giorgia Meloni] scoprirà che le ho fatto un piacere». D’altronde, il meglio (anzi, il peggio) di sé Giambruno lo aveva già ampiamente sfoggiato in diverse precedenti occasioni: indimenticabile l’idiozia sulle donne che se si ubriacano, perdono i sensi e finiscono per trovare il lupo che le violenta. Qualcuno a Mediaset potrebbe avere fatto due conti sull’opportunità di dare ancora spazio ad un giornalista incline ad affermazioni sconsiderate, si tratti di donne, cambiamento climatico, relazioni internazionali o altro.
Salterei a pie’ pari la questione privata, pur osservando l’irritualità di una relazione dichiarata conclusa su un social. Ma i tempi sono questi, noi vecchi mummioni dobbiamo farcene una ragione. Provoca invece abbastanza ribrezzo constatare la frequenza con cui la lotta politica si riduce ad attacchi al parente di turno, in un’orgiastica esaltazione per un risultato irraggiungibile sul piano dei contenuti. Tra l’altro, tutto da verificare: a me pare, infatti, che da questa vicenda la presidente del consiglio ne esca rafforzata.
L’opposizione alle politiche governative andrebbe fatta su questioni forse più serie e possibilmente con argomentazioni intellettualmente più impegnative dello sfottò per la contraddizione tra ciò che si dice e ciò che accade. Per quella strada, in pochi probabilmente sarebbero immuni da contestazioni.
Purtroppo, da tempo la sinistra è incapace di un siffatto sforzo culturale e non perde occasione per dare ragione a chi le attribuisce un’atavica propensione alla doppia morale, specialmente nel campo dei diritti e delle libertà individuali. Nulla di nuovo: è il solito beverone di cinismo shakerato con l’ipocrisia. Prosit.

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Pietro Pentimalli, il sindaco della concordia

Nell’attività di ricerca storica locale, le difficoltà più ostiche si riscontrano quando occorre reperire fonti non ufficiali, ma utilissime per la realizzazione di un affresco quanto più aderente alla realtà che si decide di collocare sotto la lente d’ingrandimento. Ciò accade perché scarse sono le informazioni disponibili al di là di quelle contenute, quando esistono, tra i faldoni dell’archivio di stato. I piccoli comuni sono spesso privi di un archivio storico, nelle biblioteche non sono custoditi i giornali e i quotidiani del passato, le pubblicazioni di autori locali risalenti nel tempo sono pressoché introvabili. A Sant’Eufemia, i terremoti hanno inoltre distrutto i patrimoni documentari delle famiglie, mentre tra gli effetti delle migrazioni va considerata anche la dispersione di molte carte private. Per tutte queste ragioni, può risultare complicato tirare fuori dal cono d’ombra personaggi storici che meriterebbero un posto d’onore nella storia della propria comunità.
Il notaio Pietro Pentimalli (18 ottobre 1869 – 31 ottobre 1950) rientra in pieno nella categoria delle illustri personalità eufemiesi trascurate proprio a causa degli ostacoli che si parano davanti a chi vorrebbe approfondirne il profilo biografico, nonostante le poche informazioni a disposizione siano sufficienti per comprendere la grandezza del personaggio e il suo impatto nella storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte.
Più volte consigliere comunale nell’ultimo decennio dell’Ottocento e assessore agli inizi del Novecento, Pietro Pentimalli fu il sindaco della rinascita dopo il disastro del terremoto del 1908. Un evento drammatico sotto il profilo umano, che ebbe ripercussioni decisive nella storia politica e amministrativa di Sant’Eufemia. La vicenda, nota, riguarda la ricostruzione del paese, attorno alla quale roventi furono le polemiche tra i due fronti contrapposti: l’amministrazione comunale eletta il 22 maggio 1910, con sindaco Pietro Pentimalli, era favorevole alla riedificazione nella nuova area della “Pezzagrande” e contava sull’appoggio del vecchio ma influentissimo Michele Fimmanò; l’altro gruppo, capeggiato dagli ex sindaci Francesco Capoferro e Antonino Condina-Occhiuto, era invece contrario e aveva tra i più agguerriti sostenitori il medico condotto Bruno Gioffré, il quale “con la sua splendida oratoria, con la facile parola di cui era dotato, accendeva gli animi degli eufemiesi, incitandoli alla resistenza”: «Più volte – ricordò il commissario prefettizio Francesco Cavaliere in un rapporto del 1918 – le campane a stormo riunirono i cittadini delle due parti, più volte stavano per verificarsi eccessi sanguinosi irreparabili». In una manifestazione, risalente al 1914, tale Pietro Crea si mise addirittura alla testa del corteo di protesta che dal Paese Vecchio si recò in “Pezzagrande” agitando un drappo nero, in segno di lutto per un trasferimento che per alcuni avrebbe significato la morte del paese.
Sappiamo come andò a finire. Grazie all’intervento del deputato reggino Giuseppe De Nava, si riuscì a superare il divieto di edificazione nel vecchio sito, per cui la ricostruzione nella nuova area non comportò l’abbandono coatto dei rioni preesistenti. L’accordo prevedeva inoltre la riconferma di Pietro Pentimalli alla guida del comune nelle elezioni del 1914.
Pentimalli fu politico tenace e tessitore dotato di un alto senso di responsabilità, caparbio nel centrare l’obiettivo etico, prima ancora che amministrativo, dell’unione e della concordia cittadina. Qualità rare al giorno d’oggi, che riecheggiano nel discorso pronunciato il 5 luglio 1914, in occasione della posa della prima pietra del nuovo palazzo municipale: «Attorno a questa pietra, come attorno ad un’ara, deponemmo, in sacrificio magnifico, tutte le nostre passioni, purificando l’anima nel più sublime ideale che arrida agli umani: l’amore della nativa terra. Sia fatidica la data che accomuna la rinascita della nostra città a quella degli spiriti composti a feconda pace».

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La profezia di Paolino Visalli

Ascoltata la sentenza del tribunale che lo condannava a diciannove anni di prigione, il 20 settembre 1852 Paolino Visalli avrebbe pronunciato le celebri parole: «Per me bastano diciannove giorni; lascio ai miei giudici il resto della pena».
Nel libro Vitaliano Visalli ed i suoi figli (1790-1860), Luigi Visalli ricostruì nel 1935 le vicende che interessarono la sua famiglia in epoca risorgimentale. Dopo il fallimento dei moti del 1848 e lo sbandamento del comitato reggino che aveva il quartier generale nei “Piani della Corona”, dove era di stanza la Terza divisione dell’esercito calabro-siculo guidata dall’eufemiese Ferdinando De Angelis Grimaldi, sugli insorti si abbatté la scure della repressione borbonica, che si tradusse in condanne pesantissime. Eccessive se si considerano contestazioni quali “avere insultato il ritratto del sovrano”, oppure essere stati trovati in possesso di un fazzoletto simile a quello dei “repubblicani”.
La famiglia Visalli, sulla scorta di accuse fumose (“discorsi contro la Monarchia regnante”) fu decimata. Vitaliano morì latitante, i figli Ottaviano (padre dello storico Vittorio) e Paolino furono condannati a diciannove anni, il figlio minorenne Vincenzo a sette. Nelle rivoluzioni e nelle controrivoluzioni accade non di rado che sotto il manto degli ideali sbandierati si nascondano, in realtà, questioni personali e private. Non sfuggivano a tale logica le accuse contro Vitaliano Visalli, probabilmente inviso a parte della popolazione eufemiese per il suo ruolo di esattore comunale. Un episodio inquietante, d’altronde, si era verificato il 13 maggio 1848, giorno in cui il sindaco Antonino Lupini era stato deposto da rivoltosi che avevano occupato il municipio alla ricerca dei registri della fondiaria, da distruggere per cancellare i titoli giuridici che giustificavano la ricchezza dei proprietari terrieri. Venuti a sapere che i registri erano custoditi da Vitaliano Visalli, i ribelli avevano addirittura tentato di incendiarne l’abitazione, prima di essere messi in fuga dalle guardie nazionali. Organizzatore di quel tumulto era stato un certo Agostino Calabrò, “sinistro ceffo di malvivente, […] pignorato per mancato pagamento delle imposte”, che nel 1850 fu l’istigatore della denuncia presentata contro i Visalli da tale Pasquale Tripodi.
Paolino era inoltre accusato di avere portato il cappello “all’italiana” (“guarnito di penna e di nastro tricolore”), altrimenti noto come cappello “alla Ernani”, dal nome del protagonista dell’omonima opera di Giuseppe Verdi. Indossato dai patrioti risorgimentali come simbolo dell’aspirazione alla libertà e all’unità della patria, il copricapo trovò più tardi la consacrazione nel quadro “Il bacio”, del pittore Francesco Hayez (1859).
E pittore era lo stesso Paolino, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte nel 1824 e trasferitosi a Napoli nel giugno del 1846 per frequentare la scuola di Giuseppe Cammarano, esponente della pittura neoclassica partenopea, presso la quale si era formato il fratello Rocco, prematuramente scomparso a soli ventitré anni nel 1845 e autore delle opere “San Francesco” e “Santa Filomena”, conservate oggi nella chiesa delle Anime del Purgatorio a Sant’Eufemia.
In seguito al peggioramento delle condizioni di salute del fratello maggiore Francesco, nell’ottobre del 1847 Paolino Visalli era rientrato in paese e vi era rimasto per quasi tre anni prima di ritornare a Napoli, nel tentativo di sfuggire alla reazione borbonica. Tra la fine del 1850 e l’inizio del 1852 – scrive Luigi Visalli – realizzò una cinquantina d’opere, quasi tutte andate distrutte nel terremoto del 1908.
La sua prolifica attività pittorica fu bruscamente interrotta il 16 febbraio 1852. Arrestato, fu tradotto a Reggio Calabria presso il carcere di San Francesco (l’ex convento dei frati minimi, oggi sede del tribunale per i minorenni), dove il successivo 20 settembre accolse la sentenza di condanna.
Sugli ultimi giorni di vita di Paolino Visalli, che soffriva di gravi problemi di salute, drammatica è la testimonianza recuperata dallo storico Francesco Arillotta tra le annotazioni del diario segreto del sacerdote don Francesco Pontari, nello stesso periodo ristretto a San Francesco in attesa del processo.
Il 4 ottobre don Pontari sottolineava la crudeltà dei carcerieri nel rigettare la richiesta del “moribondo” Visalli, il quale domandava di incontrare il medico eufemiese Giuseppe Oliverio, anch’egli condannato per i fatti del 1848: «Non gli fu permesso. Al tardi venne il confessore Massara; dietro essersi confessato prega il confessore d’intercedere presso il custode maggiore per il medico, ma non l’ottenne». Il 9 ottobre 1852, poco prima della mezzanotte, Paolino Visalli esalava l’ultimo respiro. Dal giorno della sua condanna erano trascorsi esattamente diciannove giorni.

*In foto, Il bacio (Francesco Hayez, 1859)

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Bisogna vedere

L’odore del carcere rimane nelle narici, persiste alle docce e al tempo che scorre. Un tanfo di chiuso, una miscela di umidità, cibi cucinati, fumo di sigarette, afrore di corpi costretti in spazi angusti. La casa circondariale di Vibo Valentia non fa eccezione. Anzi. Le infiltrazioni d’acqua si accertano a vista d’occhio, i muri scrostati e le ampie chiazze di muffa ricordano che ci troviamo in un luogo di pena. Ma un luogo, per essere di pena, deve presentare condizioni di vivibilità disumane, da bestie? Non è già la privazione della libertà una pena sufficiente? Ulteriori e gratuite afflizioni non aggiungono niente, semmai tolgono. La dignità.
Il lungo tour di Nessuno Tocchi Caino nelle carceri calabresi ha fatto proprio ieri tappa a Vibo. Una delegazione di iscritti guidata da Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti, insieme al garante regionale dei diritti delle persone detenute Luca Muglia e a rappresentanti delle camere penali vi ha trascorso oltre quattro ore, nel corso delle quali ha incontrato la direttrice dell’istituto, il comandante della polizia penitenziaria, il dirigente sanitario e visitato infine alcune sezioni.
Per me si trattava di mantenere la promessa silenziosa di tre anni fa: «In carcere ci tornerò da cittadino libero». Così è stato e non posso che ringraziare NTC per avermi dato questa opportunità, che è soprattutto desiderio di non dimenticare, di separare con il cribro dell’umanità il bello dal brutto, di provare a trasformare una vicenda personale dolorosa in qualcosa di utile.
Su “La Stampa” di oggi, Mattia Feltri scrive che “il nostro Stato è indecente con i suoi cittadini privati della libertà”. A volte ciò accade per la disumanità dell’uomo, altre per criticità strutturali come quelle riscontrate a Vibo, che vanificano il lodevole impegno della sua direttrice: un edificio fatiscente a soli ventisei anni dalla sua inaugurazione, la cronica carenza di agenti e un’area sanitaria al collasso, nonostante l’eroismo dell’esiguo personale sanitario.
Vibo non è un carcere, è un lazzaretto abitato per quasi la metà della sua popolazione da detenuti psichiatrici, tossicodipendenti e soggetti affetti da patologie con le quali già fuori si ha difficoltà a convivere. Figuriamoci in un posto governato da “domandine” alle quali non si sa mai se e quando qualcuno risponderà. Un universo di detenuti e “detenenti” (copyright di Marco Pannella) dolente e ai più sconosciuto.
Il tempo in carcere non esiste, forse per questo gli orologi con il datario nei corridori sono fermi ad ore e date diverse da sezione a sezione. È un tempo morto, ucciso dall’inedia e dalla successione di giorni sempre uguali, consumati nell’attesa di qualcosa: la telefonata a casa, l’arrivo del pacco, la visita familiare o dell’avvocato. Un lento stillicidio di minuti che è tutto nell’andatura dei detenuti nel cortile per il passeggio: una vasca di cemento che uomini in tuta e scarpe da tennis percorrono con passo regolare avanti e indietro o in senso circolare, come nella celebre “ronda dei carcerati” di Van Gogh.
Visitiamo l’isolamento, la media e l’alta sicurezza. L’isolamento è un girone infernale umido e ammuffito, squallida la saletta della socialità completamente spoglia, senza neanche una sedia. Come ovunque, molti detenuti riconoscono Rita, la chiamano per nome e le sottopongono problematiche varie. Lei prende appunti, pone domande, spiega cosa si può fare, lascia il suo recapito e chiede di essere contattata. Molti carcerati non sono consapevoli di avere dei diritti che possono e devono rivendicare. Il giovane sconfortato al pensiero della vita sfuggitagli di mano, ma fiero per avere ricevuto due encomi in altrettanti concorsi di poesia, quando ci allontaniamo accenna un sorriso.
I detenuti hanno fame di parole, da pronunciare e da ascoltare. Ogni volta che riescono ad incontrare qualcuno proveniente dal mondo di fuori, è una ventata d’aria fresca che li fa sentire vivi.
Nell’alta sicurezza l’accoglienza è calorosa. Il camerotto a sei posti è troppo piccolo, ma ci stiamo lo stesso, seduti sugli sgabelli e in piedi. La cella è un po’ buia perché la luce entra a fatica dalla finestra coperta da teli e indumenti stesi ad asciugare. La terza branda di un letto a castello è una mensola del supermercato, da lì un detenuto prende i pacchi di patatine che apre per noi, mentre un altro prepara il caffè sul fornellino da campeggio. Dividiamo i panini distribuiti dall’amministrazione carceraria, come in un rito sacro: «Dai, mangiate, così non andate via».
Nella media sicurezza incontriamo un signore di 87 anni. Che ci fa in carcere un vecchio quasi novantenne? Qualsiasi reato abbia commesso, dovrebbe esserci un modo per fargli scontare la pena altrove. C’è il detenuto che ha salvato dal suicidio il compagno di cella, afferrandolo in tempo prima che il nodo al collo lo strangolasse. Fuori non si ha idea dell’umanità possibile in un posto che l’immaginario collettivo considera abitato da diavoli. L’istantanea finale ha il volto desolato del detenuto che non riesce ad ottenere un permesso di avvicinamento in un carcere vicino a casa, per potere così fare il colloquio con i familiari e riabbracciare il figlio, dopo quattro anni e mezzo.
Il 27 ottobre saranno trascorsi settantacinque anni dal monito rivolto da Piero Calamandrei ai colleghi deputati: «In Italia il pubblico non sa abbastanza che cosa siano certe carceri italiane. Bisogna vederle, bisogna essere stati, per rendersene conto». Bisogna vedere, sì. E bisogna raccontare.

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I fantasmi di Buenos Aires

«Chissà come mi chiamavo in Argentina/ e che vita facevo in Argentina?»: la dolorosa domanda del protagonista di una canzone di Francesco Guccini, ma anche l’interrogativo senza risposta dei parenti di gente inghiottita dal buco nero della storia, quando ancora la possibilità di mantenere i contatti con i propri congiunti nelle lontane Americhe o in Australia era una chimera. Prima di internet, prima dei telefoni, prima delle lettere che pochi erano in grado di leggere e scrivere. Chi partiva, davvero moriva. Settanta, ottant’anni fa. Ieri.
Lo sappiamo bene, noi figli e nipoti di diaspore sentimentali e umane laceranti, la valigia di cartone conficcata come un pugnale in un angolo del cuore.
Hai voglia a cercare. Carmine Candido, mio bisnonno, e suo figlio Francesco, fratello di mia nonna: spariti in qualche barrio di Buenos Aires, nel cui porto fu costruito l’Hotel dell’Emigrante, dichiarato monumento nazionale nel 1990 e oggi sede del Museo dell’Immigrazione e del Centro d’Arte Contemporaneo: per circa un milione di immigrati sbarcati tra il 1911 e il 1953, punto di approdo e sete di speranza. Dopo i controlli burocratici e sanitari a bordo dei piroscafi di terza classe, per verificare che non vi fossero passeggeri con malattie contagiose o privi di regolari documenti, i nuovi arrivati venivano infatti qui accolti e registrati, ma anche sfamati. La struttura era dotata di cucine, refettori, bagni, docce e grandi camerate da 250 letti a castello, capaci di ospitare fino a 4.000 persone. La durata del soggiorno in genere non superava i cinque giorni, entro i quali il nuovo arrivato veniva “ritirato” da chi lo aveva “chiamato” oppure, dopo una sommaria formazione e l’accettazione di una delle offerte lavorative proposte dall’Officina del Lavoro, veniva indirizzato alla destinazione finale. Ne passarono di italiani dall’Hotel, come certifica il dato di oltre il 50% di argentini discendente da avi italiani, che fa degli argentini di origine italiana il primo gruppo etnico del Paese.
Il contadino analfabeta Carmine Candido, con il suo metro e cinquantacinque centimetri di altezza, era stato un eroe della Prima guerra mondiale, attestato da un encomio solenne in calce al foglio matricolare: «Nell’assalto ai trinceramenti nemici, dava prova di slancio e coraggio finché rimaneva ferito. Bosco Triangolare, Carso 19 luglio 1915». Eroe ma poco di buono, se a un certo punto della sua vita abbandonò la moglie e quattro figli, senza dare più notizie di sé. Dando così ragione, a distanza di tempo, alla suocera Tecla che aveva fatto di tutto per ostacolare il matrimonio con Rosa e che, una sera, dalla finestra gli aveva scaraventato in testa “u zi Peppi” pieno di urina.
Non era infrequente che uomini abbandonassero la famiglia e se ne facessero un’altra undicimila chilometri a Sud. Così dovette andare anche per Carmine, il cui nome mai fu pronunciato né dalla moglie, né dalle tre figlie fino all’ultimo giorno della loro vita. Il figlio, invece, in Argentina ci andò. A differenza del padre, l’archivio digitale del museo dell’emigrazione conserva le tracce del suo arrivo a bordo del piroscafo “Genova”, con l’annotazione di due date: 9 febbraio e 3 luglio 1949. Due sbarchi a distanza di pochi mesi potrebbero spiegarsi con il progetto dei Candido di raggiungere, tutti, il capofamiglia a Buenos Aires, fallito quando la commissione che doveva valutare lo stato di salute degli emigranti decretò l’inabilità di Rosa, ormai quasi cieca. Fu allora che Francesco, carbonaio come il cognato Mico, con il quale alla fine della seconda guerra mondiale si era trasferito a Morlupo per lavorare da operaio nella bonifica dell’Agro romano, affrontò la prima traversata oceanica. Probabilmente per avvisare il padre che il resto della famiglia non lo avrebbe raggiunto, per rientrare a casa e riferire la decisione del genitore di restare in Argentina, per – infine – ripartire subito, trovando un buon motivo per scappare nell’amore non corrisposto da Peppina, la quale per anni ne aveva respinto il corteggiamento. Contro la donna si sarebbe però accanito il destino, quando le fece incontrare Rosa nel forno dove le famiglie, mensilmente, portavano il grano per fare il pane. Rosa teneva in tasca una lettera e una foto del figlio: «È proprio bello. Si è sposato? Ora me lo prenderei», le parole della ragazza, riportate in una lettera che di lì a poco avrebbe solcato le onde dell’oceano e che, nel giro di pochi mesi, portò alla celebrazione del matrimonio per procura.
Una storia con tutti gli ingredienti del lieto fine si trasformò invece in un incubo per Peppina. Arrivata in Argentina, la giovane rimase talmente sconvolta dal degrado della stamberga nella quale vivevano padre e figlio, che cominciò a mostrare segni di squilibrio e fu immediatamente rispedita in Calabria.
Dopo la morte del padre, all’inizio degli anni Cinquanta, Francesco si limitò a sporadiche lettere, che continuò ad inviare fino a quando la madre non morì, nel 1971. In seguito, di lui non si seppe più nulla e vani sono stati tutti i tentativi di capire che fine abbia potuto fare, quando e dove sia morto.
«La distanza è atlantica/ la memoria cattiva e vicina/ e nessun tango mai più ci piacerà… Ecco, ci siamo/ Ci sentite da lì? Ma ci sentite da lì?», fa dire Ivano Fossati agli emigrati attanagliati dalla malinconia in “Italiani d’Argentina”. Forse se lo sono chiesti anche Carmine e Francesco, nelle notti di confessione con la propria anima.

  • Le fotografie da Buenos Aires sono di Mario Forgione
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Con Sant’Eufemia tra gli anziani della residenza sanitaria assistenziale

Sin dalla sua fondazione, tra la RSA “Mons. Prof. Antonino Messina” e l’Associazione di volontariato cristiano “Agape” perdura un rapporto speciale, che nel tempo si è consolidato grazie alla realizzazione di iniziative di solidarietà presso la struttura di via Silvio Pellico. Anche ora che non è consentito effettuare le visite come nel periodo pre-covid, sono infatti diverse le occasioni di incontro: il “Natale di solidarietà”, la Via Crucis pasquale, la Giornata Mondiale del Malato, momenti di preghiera nel corso dell’anno con la recita del Rosario.
I volontari si sentono a casa, da parte della direttrice Rossana Panarello e del personale che lavora nella struttura ci sono sempre grande disponibilità, spirito di collaborazione e un’apertura verso l’esterno che non è scontata, ma che è molto gratificante.
Anche questa volta è stato così per l’idea, sposata con entusiasmo dal parroco don Marco Larosa, di fare vivere la novena di Sant’Eufemia anche agli ospiti della struttura, alla quale la presidente dell’Agape Iole Luppino ha consegnato una statuetta della Santa Protettrice. La visita e la recita della coroncina in onore di Sant’Eufemia è stata impreziosita dalla presenza del coro polifonico parrocchiale “Cosma Passalacqua”, con il quale da diversi anni l’Agape – specialmente all’interno della RSA – opera sinergicamente. Vivere al meglio l’associazionismo significa collaborare con le realtà operanti sul territorio, portatrici di identità proprie che, messe insieme, moltiplicano gli effetti positivi delle singole specificità.
Dopo la recita della coroncina, guidata da don Marco, il salone della struttura è stato inondato dalla soave musica del Maestro Angela Luppino e dalle voci del coro parrocchiale, che ha eseguito i canti tradizionali dedicati a Sant’Eufemia: “Tutta bella, tutta pura” e “Leviam giulivi un cantico”. Un’esibizione toccante, alla quale molti anziani hanno dato un attivo e molto emozionato contributo.
Per i volontari dell’Agape i momenti vissuti nella RSA “Messina”, emotivamente forti, sono unici. “Come se qualcuno li disegnasse con cura”, ha commentato un volontario, “ma in questa occasione con una cura addirittura maggiore rispetto al solito”: «Un luogo di sofferenza si trasforma di colpo in un angolo di paradiso nel quale il canto e la preghiera diventano, per chi crede in Dio, speranza di eternità».
La struttura sanitaria è parte integrante della comunità eufemiese. Non è un luogo di morte, bensì un luogo di dedizione, di amore, di vita al di là delle difficoltà e del destino intuibile per coloro che si accingono a percorrere l’ultimo tratto di strada. I quali, proprio per questo motivo, meritano la massima considerazione. Osservando gli anziani e l’attività del personale della struttura si riesce a comprendere quanto sia orrenda l’imperante cultura dello scarto, più volte denunciata da Papa Francesco, e quanto sia inestimabile il valore di ogni singola esistenza umana.

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La musica di Vincenzo Orlando nella tradizione religiosa eufemiese

Il 31 ottobre del 2024 saranno dieci anni che Vincenzo Orlando, per tutti il “Professore Orlando”, non è più tra noi. Eppure la sua presenza nella comunità eufemiese è ancora forte, soprattutto nei giorni della novena in onore di Sant’Eufemia, per la quale ha composto l’inno “Leviam giulivi un cantico”. L’espressione pacata e i modi gentili sono stati il tratto caratteristico di un uomo mite, di un nonno affettuoso con i nipoti e interessato al loro rendimento scolastico, di un artista capace di imprimere sul pentagramma la devozione religiosa dei suoi concittadini.
Il Maestro Orlando, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 17 agosto 1926, proveniva da una famiglia umile. Il padre, Vincenzo Antonio, esercitava la professione ciabattino, mentre la madre Eufemia Panuccio era casalinga. Nella modesta abitazione di via Lupini, dove visse con i genitori e – dopo il matrimonio – con la moglie Grazia Maria Fedele, ebbe il primo incontro con la musica grazie al genitore, suonatore di corno nel complesso bandistico del paese. Alunno del maestro elementare Pentimalli nelle classi allestite all’interno delle baracche costruite dai milanesi dopo il terremoto del 1908, già a undici anni alternava i giochi con i bambini della “ruga” alle esibizioni con la banda, che ne forgiarono la passione e ne segnarono il destino.
Diplomatosi in clarinetto presso il conservatorio “San Pietro a Maiella” di Napoli (24 settembre 1964), fu clarinetto solista nella banda comunale di Acireale e I° clarinetto nel Teatro Massimo di Palermo. In Sicilia svolse un’intensa attività concertistica nell’opera lirica; successivamente si distinse come clarinettista in diverse bande della provincia reggina, in particolare a Seminara, che dopo il pensionamento costituì una delle mete preferite dei quotidiani viaggi in compagnia della moglie (per visitare la chiesa della Madonna dei Poveri), a bordo della sua inconfondibile Fiat Uno bianca. Amante dei sonetti di Ugo Foscolo, insegnò musica nelle scuole secondarie inferiori di Giffone, Galatro, Cinquefrondi, Sant’Eufemia d’Aspromonte e Palmi, dove – presso la scuola media “Milone” – concluse la carriera di docente.
La centralità della figura di Vincenzo Orlando nel panorama culturale eufemiese si rileva nel suo impegno di organista e maestro del coro polifonico parrocchiale della chiesa di Sant’Eufemia Vergine e Martire, per il quale compose le sue musiche più celebri: la “Ninna nanna” per Gesù Bambino, eseguita durante le festività natalizie; “La Desolata”, canto a due voci uguali per coro, in tre parti (“Tomba”, “Ah perché mai”, “Chiusa in cheta e oscura stanza”) e “Stava Maria Dolente”, che chiude la raccolta dedicata ai riti della Settimana Santa; le litanie del Santo Rosario. Infine, il ciclo delle opere in onore di Sant’Eufemia, tra le quali vanno ricordati i canti “Tutta bella, tutta pura” e “Da questi monti”, oltre alla toccante “Leviam giulivi un cantico”. Eseguito nel corso della messa solenne, l’inno per la Santa Patrona alimenta il ricordo del suo autore, che è indissolubilmente legato ai festeggiamenti del 16 settembre.

*La banda di Seminara nel biennio 1956-57. Dal basso, Vincenzo Orlando è il terzo da destra della seconda fila.

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Lettera aperta al sindaco di Sant’Eufemia, prof. Pietro Violi

Apprendo con soddisfazione il ripristino della viabilità in corso Umberto I, chiuso a seguito dell’incendio divampato nei giorni scorsi. Da tempo seguo con il dovuto distacco le vicende politiche paesane, non perché l’argomento non mi interessi, bensì perché non mi ritrovo nei toni spesso eccessivi del dibattito, specialmente se affidato a quello sfogatoio che ormai sono diventati i social.
A volte condivido l’operato di questa amministrazione, a volte no, come legittimamente fa ogni cittadino. Analoghe reazioni valgono per le azioni dell’opposizione. Entrambe mi rappresentano, così come rappresentano tutta la comunità eufemiese. Nell’ottica di una sana dialettica politica, preferisco gli atteggiamenti propositivi a polemiche spesso sterili e strumentali. È questo lo spirito di una proposta che mi sento di avanzare, nella convinzione di intrepretare il sentire comune.
Ha suscitato molto dispiacere la notizia della distruzione dell’abitazione che fu del dottore Giuseppe Chirico, il nostro caro “Don Pepè”: uno dei personaggi più amati nella storia eufemiese, apprezzato da tutti per le sue qualità umane e professionali.
Da consigliere comunale e da componente della Commissione toponomastica istituita su mia iniziativa, il 27 giugno del 2018 avevo protocollato la richiesta di dedicare al dottore Chirico la Pineta comunale, che non ebbe allora seguito.
Credo che oggi i tempi siano maturi e che la proposta essere presa in considerazione, almeno nella sua impostazione generale. Si potrebbe riproporre nuovamente la Pineta comunale, ma mi permetto di segnalare anche altre due opzioni: la piazzetta accanto al monumento dei caduti, che è priva di denominazione, oppure – ipotesi molto suggestiva – uno dei due lati in cui corso Umberto I divide piazza don Minzoni, laddove si svolgevano le passeggiate serali del dottore Chirico, rievocate dal professore Giuseppe Calarco nel documentario su “Don Pepè” realizzato dalla Pro Loco nel 2001: «Eravamo soliti fare la passeggiata serale. Ricordo che capitava che venisse chiamato per soccorrere qualcuno: senza scomporsi, salutava e col sorriso di sempre si allontanava per fare, come diceva lui, il suo dovere. Questo era il dottore Chirico». Ciò consentirebbe di perpetuare il ricordo del dottore Chirico in un luogo a lui caro senza cancellare la memoria del sacerdote di Ardenza, del quale proprio ieri ricorreva il centenario della barbara uccisione per mano fascista.
L’amministrazione comunale potrebbe anche determinarsi diversamente, affermando una propria prerogativa. Ma sarebbe in ogni caso encomiabile suggellare l’affetto senza tempo degli eufemiesi con l’intitolazione al dottore Giuseppe Chirico di uno spazio pubblico.

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Passeggiata storica/9

Il viaggio nella storia eufemiese, dopo avere attraversato i tre grandi rioni cittadini (“Paese Vecchio”, “Petto” e “Pezzagrande”), si conclude nei pressi della Pineta comunale con il ricordo di un eroe della Grande Guerra.

PANNELLO 9: LUIGI CUTRÌ

Luigi Cutrì, di Bruno e Maria Giuseppa Versace, nacque il 9 agosto 1869. Ad appena 17 anni si arruolò volontario nell’esercito e da sottotenente, nel 1889, prese parte alla campagna di Etiopia, guadagnando una medaglia di bronzo e l’encomio solenne del capitano Umberto Ademollo. Nel 1911 partecipò con il grado di capitano alla guerra italo-turca (o di Libia). Si distinse negli scontri che, a Derna, videro impegnati i soldati italiani agli ordini del generale Vittorio Trombi contro le truppe capeggiate da Enver Bey: impresa che valse a Cutrì il conferimento della croce dell’Ordine militare dei Savoia.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale partì volontario e fu destinato sul Carso. Con la brigata “Casale” fu impegnato sin da subito nei combattimenti per espugnare il Monte Podgora. Ferito ad una spalla il 4 luglio 1915 (Prima battaglia dell’Isonzo), fu nominato maggiore del 12° reggimento fucilieri per merito di guerra e assunse il comando del battaglione. Tornato in prima linea al termine della convalescenza, prese parte alla Quarta battaglia dell’Isonzo. Morì in combattimento, il 30 novembre 1915, “in seguito a ferita d’arma da fuoco al capo” e fu sepolto nel cimitero di Pubrida, frazione di Gorizia. Decorato con la medaglia d’argento al valor militare.

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