Zio Bud

No, no, e ancora no. Ero ancora in piena euforia per la vittoria della nazionale contro la Spagna, saltavo da un social all’altro per leggere cosa si diceva di questa impresa epica: Conte, certo, grandissimo; ma anche l’abnegazione di una squadra operaia che non si arrende mai. Insomma, una bella pagina di calcio dal valore extra sportivo: con la forza di volontà, con lo spirito di squadra, con la fatica si possono raggiungere risultati inaspettati. Ero tutto preso in queste considerazioni, leggevo, aprivo link, quando sul display del telefonino mi appare il suo faccione barbuto: «È morto Bud Spencer».
Da lì in avanti, tutti a commentare la notizia, a esprimere dispiacere autentico per un attore popolare, amato soprattutto dai bambini. Un gigante buono entrato nell’immaginario collettivo come Totò o Fantozzi, autentiche maschere del cinema italiano, o i protagonisti dei fumetti Marvel. Un compagno di giochi che ha donato al suo pubblico allegria e spensieratezza. Burbero, ma a suo modo affettuoso: chi non avrebbe voluto essere H7-25, il bambino venuto dallo spazio salvato da Bud Spencer in “Uno sceriffo extraterrestre… poco extra e molto terrestre”?
I pugni di Bud Spencer e Terence Hill non fanno male, al massimo “addormentano” chi ne viene colpito. I proiettili delle pistole di Bambino e Trinità non uccidono e non provocano spargimenti di sangue. I loro film sono un ossimoro, ci sono le botte ma non c’è violenza. Anzi, i loro cazzotti fanno ridere. Con quel nome da birra americana e la sua mimica facciale era impossibile non volere bene a Bud, il mito di intere generazioni di ragazzini. Per questo un velo di malinconia ha offuscato, ieri sera, i nostri pensieri. Con la morte di Bud Spencer ognuno di noi perde un pezzo della propria infanzia. Perde la leggerezza di anni che già sapevamo non sarebbero più ritornati. Però è sempre un duro colpo ritrovarsi di fronte alla cruda realtà. Perde il sorriso innocente di un tempo in cui non c’era bisogno della comicità volgare di oggi per provocare al cinema la risata dello spettatore.
Come accade quando ci lascia una persona cara, ci si ritrova a consolarsi tra intimi. Io e mio fratello Luis avremo visto insieme centinaia di volte i film di Bud Spencer e Terence Hill. Avrei voluto chiamarlo ieri sera, magari rifacendo il coro dei pompieri di “Altrimenti ci arrabbiamo” (bo-bo-bo-bo-bo-bo-bo). Ma erano passate le undici, era tardi… Be’: a mezzanotte mi ha chiamato lui! Gli ho raccomandato di non dire niente al piccolo Diego, che stravede per “zio Bud”. Gli ho però chiesto di aiutarmi a tornare bambino, almeno per un attimo, raccontando per il blog le sue impressioni. [D.F.]

A volte dispiaceri “di secondo piano” scompaginano e declassano priorità urgenti e pesanti, a tal punto che puoi trovarti costretto a tenere il segreto. Un pensiero fumoso, che diventa lampante nelle parole di un bimbo di tre anni e mezzo: «Papà, papà: zio Bud! Pum! Pum!». Questa l’esclamazione di mio figlio ogni volta che sul televisore appare il faccione ispido di Bud Spencer, con Diego a mimare il pugno in testa più famoso della storia del cinema. 
Il nostro cagnone di 40 chili l’ho “dovuto” chiamare Bud: perché è grande, grosso e dal cuore tenero, ma è meglio non farlo arrabbiare… 
Come dirgli che “zio Bud” è morto? Più facile fargli accettare l’idea che sia morto l’incredibile Hulk. Che poi, diciamola tutta, è così anche per noi venuti su a pane con l’olio e scazzottate infinite impresse nella memoria più della prima bicicletta. 
È una perdita maledettamente vicina, familiare, perché con lui se ne va una parte consistente della nostra infanzia e della nostra innocenza più pura. 
No, Diego, come canta Guccini, “gli eroi son tutti giovani e belli”. Zio Bud è immortale, il suo corpo immenso e la sua forza titanica sovrasteranno i secoli come una sequoia della California, i suoi occhi buoni come quelli di un Santo ci sorrideranno per sempre, rassicuranti e protettivi. 
È ancora presto, bambino mio, ogni cosa va capita a suo tempo. Per adesso buonanotte, dormi tranquillo. Se un “disauro” (dinosauro, n.d.r.) dovesse arrivare mentre dormi… “Pum! Pum!!!”: ci pensa zio Bud. [L.F]

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Fine corsa

Photo @SaraBonfiglio

Vorrei tornare bambina per potermi lanciare, ancora una volta, sulle tue gambe. Prendendo la rincorsa. Vivere in quel posto che era mio-solo-mio, per sempre. Non desiderare altro. Stretta tra le tue mani, come un trofeo da alzare o un’ostia da tenere alta. Essere la tua ragione di vita nella mezz’ora che precedeva i miei sogni fantastici, abitati dai folletti e dagli spiriti del bosco. Il premio alla fatica della tua giornata infinita, iniziata con il risveglio brusco dell’acqua gelida della fontana di fuori sul viso.
La dura vita dei campi. Tu e i muli, il silenzio dell’universo ritmato dal rumore degli zoccoli. Chissà se mi pensavi durante lo stillicidio di quel tempo lungo. Ma sì, certo che mi pensavi: non potevi che pensare a me, a noi, all’allegria chiassosa dei tuoi figli. Una ricompensa di riccioli e pagliaccetti, cotrareddi rannicchiati come cuccioli che si riscaldano con il loro stesso respiro. Con il terrore del buio e del pappu vecchiu.
Poi niente più. Di colpo. Senza neanche una parola. A cinque anni mi ritrovai mamma di Pinuccio, più piccolo di me, ma come me incapace di comprendere il perché di quel muro altissimo. Abituati al West che si spalancava al di là della porta della nostra casetta di tavole e lamiere, ci ritrovammo in una prigione di cemento affollata di bambini, smarriti tra le stanze infinite dell’orfanotrofio.
Galleggiavamo come piccoli astronauti, fuori dal tempo e dallo spazio. Giorni sempre uguali. Le facce ostili delle suore, facili al rimprovero. E poi quella mia tonaca larga, scomodissima per il gioco dell’elastico. Il mio preferito: salta dentro i due elastici, apri e chiudi, salta di lato, ruota e pesta l’elastico, incrocia… Movimenti che prima riuscivo ad eseguire a occhi chiusi mi risultavano ora impossibili.
Piangevo e non potevo, per via di Pinuccio. Dovevo rassicurarlo, fargli capire che presto saremmo andati via da quel posto triste. I nostri genitori non avevano colpa. Non avevano avuto altra scelta, l’avevano fatto per farci stare meglio. L’avevano fatto per noi.
I ricordi si incatenano agli odori, ai colori, a una folata di vento: déjà-vu improvvisi e inquietanti, come il freddo di quella mattina nelle ossa che ogni tanto ritorna, pungente. Le suore mi avevano fatto indossare il vestito buono, blu e bianco. Non sarei andata a scuola, ma non capivo cosa stesse succedendo. Nel parlatorio mi attendeva mio zio, la barba lunga e la faccia di chi non dorme da giorni. Non disse una parola. Uscendo dall’istituto il gelo dell’inverno mi ferì gli occhi, che cominciarono a lacrimare mentre attorno a me ogni cosa aveva sembianze indefinite. Cominciai a mettere a fuoco nell’istante in cui udì il pianto di mia madre, dal cortile popolato di silenzi. Il mio gigante dormiva al centro della stanza, in giacca e cravatta come prima di un matrimonio, quando rientrava con le tasche gonfie di pasta con il sugo e di cotolette.
La stessa giacca dell’ultima volta che era venuto a trovarci. Io e Pinuccio eravamo nel cortile, la madre superiora si avvicinò tenendo le mani dietro la schiena. Poi le allungò verso di noi: «cucù!». Due pacchi di biscotti! Per noi! Quindi alzò lo sguardo verso la terrazza, dove c’era nostro padre. Da quanto tempo ci stava osservando? Alto, bellissimo, sorrideva e ci faceva “ciao” con le cinque dita. Impazzita dalla gioia cominciai a correre verso la porta che dava sul cortile interno. Sentivo il cuore sbattere contro il petto, sempre più forte, quasi che volesse prendere il volo verso quella mano. Una suora mi bloccò sull’uscio: «non puoi». Non potevo andare da mio padre. Non potevo aggrapparmi alle sue ginocchia. Io, sua figlia. Fu l’ultima volta che lo vidi.
Chi mi avrebbe protetta, d’ora in avanti? Crescevo come quei gattini spauriti, lesti ad infilarsi nel primo buco al minimo rumore. Non ero capace di difendermi dalle insidie di un mondo che non conoscevo. Ero una straniera, osservata con la curiosità che si riserva agli animali del circo, commiserata per la mia condizione di “parcheggiata” presso l’orfanotrofio.
Un tempo che finì dopo l’esame di terza media, quando feci ritorno a casa. Avevo quattordici anni e nessuna esperienza fuori da quella campana di vetro. L’ingenuità mi rendeva facile preda, proprio ora che il mio corpo cominciava ad attirare gli sguardi avidi dei ragazzi. Come potevo resistere alle attenzioni di chi mi faceva sentire importante, io che non ero mai stata niente per nessuno?
Dissi di sì al primo che mi aveva avvicinato e fu la mia rovina. Un inferno cominciato subito dopo il fidanzamento “ufficiale” con Gianni, secondo tradizione celebrato in un giorno di festa comandata. Scegliemmo il Santo patrono, la messa nella chiesa piena di gente che ci circondava per farci gli auguri, le nostre mani intrecciate in fondo al corteo della processione, la cena con i parenti.
Una felicità troppo bella per essere vera era capitata proprio a me. Infatti, non era vera. Durò fino al primo ceffone: «non ti permettere di contraddirmi». Divenni presto una ragazza muta, reclusa in casa. Mai un’uscita per un cinema, le vetrine dei negozi, un gelato. Niente di ciò che era normale per qualsiasi altra ragazza. Volevo scappare da quella vita che frantumava i miei sogni di felicità, ma ormai ero in trappola. Il disonore non poteva e non doveva entrare nella nostra casa. Il matrimonio avrebbe migliorato le cose: così mi fu assicurato. L’arrivo di figli, poi, avrebbe salvato tutto.
Si sbagliavano. Ogni volta che prendevo un pacco di pasta o il pane a cridenza mi sentivo morire. Il mio nome segnato sulla libretta e accanto la lista della vergogna. Lui non lavorava, né si impegnava a cercarselo uno straccio di lavoro. Sua mamma, santa donna, a fine mese cercava di tappare qualche buco. La sua pensione ci permetteva di sopravvivere, ché vivere era impossibile. Lo sanno i miei piedi, che per due anni hanno calzato lo stesso paio di ciabatte, estate e inverno.
Purtroppo, lo sapeva anche Mino, quella volta che mi offrì un passaggio per tornare a casa. Accadde in una delle mie poche uscite dal paese, per una visita specialistica. Mi trovavo alla fermata dell’autobus del ritorno, quando udì una voce: «Maria, lo vuoi un passaggio? Così risparmi tempo e soldi». Mino era simpatico, spiritoso, la battuta sempre pronta. In meno di un’ora avevo riso più di quanto non mi fosse capitato in tutta la mia vita. I venticinque anni di età che ci separavano mi trasmettevano sicurezza. Non avevo mai smesso di cercare mio padre e avevo bisogno di qualcuno che si prendesse cura di me, che mi proteggesse. Come Mino, quando mi raccolse sotto il diluvio dopo l’ennesima lite con Gianni: la guancia calda, viola, segnata dalla violenza dei suoi schiaffi. Mi fece salire sulla macchina e mi asciugò le lacrime con la mano, mi accarezzò con una dolcezza a me sconosciuta.
Mi abbandonai a lui completamente, lo amai con la disperazione di chi sa di avere imboccato un vicolo senza uscita, che avrebbe portato alla gogna pubblica. Ero l’amante di un uomo sposato che poteva essere mio padre. Mino era riuscito a squarciare il velo del mio dolore, sentivo la mia anima rischiarata da una nuova luce. Forse era felicità, o forse illusione. Comunque mi bastava. Che la nostra fosse una storia impossibile contava poco: importava che finalmente vivevo.
Scoprii tardi la meschinità del suo magnificare l’impresa di portarsi a letto una coetanea di sua figlia. I nostri incontri erano prodezze da raccontare; io, lo strumento della sua vanità. E poi, si sa, “cu cunta menti a giunta”: in poco tempo diventai la sgualdrina di mezzo paese, una stupida che chiunque sarebbe stato in grado di scoparsi.
Dovevo fuggire, non voltarmi mai più indietro. Levarmi di dosso sguardi che erano sentenze. Strapparli dalla mia pelle. Puntare gli occhi di chi incrociavo senza provare vergogna. Salvare la mia bimba, l’unica nota positiva nel tragico spartito del mio matrimonio, dalla condanna senza appello di essere figlia di una puttana. Scappai di notte, la mia piccola stretta al grembo su quel treno che non voleva saperne di fermarsi. Mi attendeva la vita che ho voluto e che ho in qualche modo deciso. Anni come attimi, che inseguo a ritroso mentre svaniscono insieme a volti e parole. Sfumati in questo epilogo disincantato che sa di nostalgia delle tue carezze leggere sulle mie guance, ora che la corsa sta per finire.

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Buon viaggio

Ho riflettuto a lungo prima di pubblicare una fotografia “carpita” nell’attesa dell’autobus che ha riportato a Sant’Eufemia la comitiva dell’Agape, a Roma per partecipare al Giubileo degli ammalati e delle persone disabili. Ho vinto la mia perplessità iniziale pensando che è cosa giusta utilizzare l’immagine per richiamare l’attenzione sul messaggio che esprime. E così, mentre il pullman scendeva verso Sud, tra il vociare allegro dei viaggiatori e le canzoni della radio, di getto ho scritto il commento per la foto che ho postato su Facebook.

Si rischia sempre di spettacolarizzare storie che invece vanno trattate con molta delicatezza, cercando di rispettare la dignità umana. Pubblico la fotografia, scattata senza che me ne accorgessi, perché l’uomo con il quale sto conversando non è riconoscibile.
La sua lezione di vita merita di essere condivisa. Di origine siciliana, vive non sa più da quanto tempo a Roma. Mi racconta che ogni giorno fa un paio d’ore di elemosina, quanto basta per racimolare i dieci euro circa che gli sono sufficienti per vivere: mangiare, permettersi un caffè, comprare qualche ricambio (camicie da un euro come quella che indossa).
Mi sta facendo vedere le scarpe acquistate proprio stamattina a Porta Portese: «sono buone, di pelle; durano a lungo». Vive su questa panchina di giorno, mentre di notte è tutto più complicato. Non ci sono molti posti dove potere dormire, un problema soprattutto d’inverno. Nelle stazioni non si può più, anche se a qualche clochard viene consentito: «più che altro per fare vedere di essere tolleranti». È anche pericoloso, bisogna stare attenti a non essere aggrediti.
Mi dice che i poveri non vanno toccati e lo fa senza rabbia, né paura. Non si deve, sottolinea, perché fare del male ai poveri è un delitto che nessun Dio potrà mai perdonare.
Gli chiedo se ha scelto questa vita o se è accaduto il contrario. Mi risponde che non è semplice capire dove finiscono le scelte degli uomini e dove inizia lo zampino del destino. Spesso le scelte di vita iniziano per caso. Il superfluo al quale viviamo avvinghiati come l’edera è frutto di un modello culturale che subiamo e che ci impone di rincorrere una felicità effimera. Un inganno colossale. Mentre invece dovremmo sforzarci di vivere con lo spirito del viaggiatore, concentrato sulla strada da percorrere e sull’umanità da incontrare lungo il cammino, per quanto durerà.
Forse non a caso ci siamo salutati con una stretta di mano, augurandoci reciprocamente “buon viaggio”.
(12 giugno 2016)

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Festa della mamma: l’azalea della ricerca in piazza

In occasione della Festa della mamma, torna in 3.600 piazze italiane l’Azalea della Ricerca AIRC. Domenica 8 maggio, circa 20.000 volontari distribuiranno la piantina simbolo della battaglia contro i tumori femminili e una guida dedicata al tema “maternità e cancro”, contenente gli ultimi risultati della ricerca e le raccomandazioni sullo stile di vita da adottare per ridurre il rischio di una diagnosi tumorale.
Con una donazione minima di 15 euro, potremo così festeggiare le nostre mamme e dare un aiuto concreto alla lotta contro il cancro.
A Sant’Eufemia il banchetto con le azalee sarà allestito in piazza Matteotti, dalle 9.00 alle 13.00, a cura dei volontari dell’Agape.
#iocisono

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La lezione di Ranieri

«È un po’ come se il mio Catanzaro avesse vinto il campionato». Di nuovo Catanzaro come termine di paragone. Alle aquile giallorosse Claudio Ranieri aveva già fatto riferimento quando gli era stato chiesto a quale esperienza calcistica era paragonabile il suo Leicester. Si era ancora ai primi di febbraio, sportivi e addetti ai lavori cominciavano a chiedersi quale fosse il segreto di una squadra ritrovatasi a sorpresa in vetta alla Premier League. Alla domanda di Mario Sconcerti su cosa potesse paragonare la propria squadra, dalle colonne del Corriere della Sera Ranieri non citò nessuno dei club blasonati che aveva allenato in precedenza: «Alla fine della carriera da giocatore ho trovato una squadra così: era il Catanzaro di Gianni Di Marzio, di Palanca, Silipo e gli altri. Capisco non sia un grande esempio, meglio Guardiola. Ma quella era una squadra come il Leicester, un gruppo di amici che viveva insieme». Ed è stato commovente vedere le lacrime di Fausto Silipo alla Domenica Sportiva, lacrime di emozione per il successo ottenuto dall’amico di sempre. Spirito di gruppo, ecco la chiave del successo: il collante che da quarant’anni tiene insieme i calciatori di quel Catanzaro e che, ora, ha fatto sì che diventasse realtà il sogno del primo scudetto in 132 anni di storia delle volpi blu, quotato 5.000 a 1 dai bookmakers inglesi.
La vittoria dell’organizzazione e della forza di volontà. Una vittoria romantica che si fa beffe delle campagne acquisti faraoniche, ma anche una vittoria che le aziende stanno già studiando per capire se il “modello Ranieri” è esportabile in altri settori. Come ottenere grandi risultati con pochi soldi a disposizione, puntando tutto sull’aspetto motivazionale.
Da tre giorni le televisioni inglesi non parlano d’altro. Un inviato della BBC ha setacciato il Testaccio alla scoperta dei luoghi dove Ranieri è cresciuto, raccogliendo anche la dichiarazione in romanesco del fioraio (“Claudio è l’unico con la testa sopra le spalle”). Per Leicester si prevede addirittura un aumento dei flussi turistici, grazie all’impresa compiuta dai ragazzi di “Claudio” (non di “Mr. Ranieri”), che è parte integrante della comunità (“è uno di noi”), con le sue passeggiate al mercato della frutta o la spesa al supermercato, le sue soste con la gente comune per parlare, stringere mani, concedere selfie. L’idolo delle signore over 55, le quali utilizzano come sfondo del display del telefonino la foto con Ranieri, una persona “educata e seria”, un “gentiluomo d’altri tempi” che fa anche “un buon odore”!
Ranieri fa fare bella figura all’Italia. L’immagine dell’italiano all’estero, simpatico e dalle buone maniere, ne esce rafforzata. Il suo è anche il successo di chi ce la fa fuori dal Bel Paese, che se da un lato riapre l’annosa questione della fuga dei cervelli, dall’altra dà linfa al sentimento dell’identità nazionale e dell’orgoglio italiano tra gli emigrati italiani.
Ma la lezione più importante di questa favola l’ha sintetizzata, con semplicità e umiltà, Ranieri stesso, dichiarando a caldo: «L’unica cosa che posso dire a tutti quanti è di crederci sempre. Provateci, non solo nel calcio, ma in tutti i campi della vita». A dispetto di ogni teoria rottamatrice che voleva il sessantaquattrenne Ranieri alle ultime panchine in squadre di seconda e terza fascia, ormai destinato a concludere la carriera senza vincere un campionato di calcio, questa storia insegna che c’è sempre tempo per realizzare i propri sogni, che non bisogna mai arrendersi e che esiste sempre un’altra possibilità finché si ha la forza di crederci. E quindi: God save the coach!

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Diagonale imparabile all’ultimo chilometro

L’epica sportiva sublima la dimensione umana. L’atleta raggiunge il rango delle divinità, prende posto tra i convitati del banchetto olimpico e si inebria di ambrosia. Diventa un dio in terra. Lo sport è poesia perché è fatica e sudore, superamento dei propri limiti, ascesa. È poesia perché è metafora della vita e una vita senza poesia è vita a metà.
I dieci racconti di Diagonale imparabile all’ultimo chilometro (Laruffa, 2010), che fonde nel titolo la magia dei due sport protagonisti del libro scritto dal giornalista del Tg2 Enzo Romeo, non sono soltanto nostalgia del tempo andato, degli anni in cui il business stava ancora fuori dalla porta degli spogliatoi o delle camere d’albergo. La nostalgia è presente e fa anche parte della biografia dell’autore, figlio del presidente della Reggina nel 1946 e ciclista amatoriale a Siderno negli anni Settanta: “Trigòni era il nostro Tourmalet, il nostro Stelvio”. Ma la nostalgia non è l’unica chiave di lettura del bel libro di Romeo. C’è dell’altro.
Ci sono i sogni di una generazione che si è identificata nelle prodezze leggendarie dei miti dello sport, che ha lottato per riscattarsi sul piano sociale con la stessa tenacia degli eroi che correvano dietro a un pallone o si alzavano sui pedali, pronti per lo scatto finale. Con la testardaggine di Fiorenzo Magni, che corre la metà delle tappe del Giro d’Italia con la clavicola e con l’omero fratturati, stringendo tra i denti un tubolare legato al manubrio della bicicletta.
C’è il riscatto “chiamato football club” del MYSA (Mathare Youth Sports Association), avventura iniziata nel 1987 in una baraccopoli di Nairobi e arrivata alla candidatura del Nobel per la Pace, grazie a un sistema formativo basato su tutta una serie di attività sportive, ma anche culturali e artistiche, ricreative e sociali, diventato un modello oggi imitato in molti Paesi.
Pagine di poesie vere, come le Cinque poesie per il gioco del calcio di Umberto Saba. Pagine di cronaca sportiva che sono esse stesse poesia perché vergate da Alfonso Gatto, poeta al seguito del Giro d’Italia per «l’Unità» il cui linguaggio iperbolico ha fatto scuola.
Vittorie e cadute, nello sport come nella vita. La storia di Erminio Bercarich, profugo fiumano approdato a Reggio Calabria nel 1946, che esordisce contro il Lentini indossando uno dei maglioni bianchi di lana offerti dalla tifoseria. Capocannoniere assoluto nella storia della Reggina con 75 reti, appese le scarpette al chiodo sparì, dimenticato da tutti. L’attimo di gloria vissuto da Angelo Mammì, autore del tuffo nel fango che, nel 1972, valse la storica vittoria del Catanzaro sulla Juventus, raccontata da Enrico Ameri e dal tifoso entrato nella sua cabina gridando a squarciagola: «Gol!». Joachim Rafael da Fonseca, ala destra nello Sporting Lisbona vincitore negli anni Sessanta di due campionati, una Coppa del Portogallo e una Coppa delle Coppe, che si ritira dal mondo e diventa Fra Paolo, monaco di clausura nella Certosa di Serra San Bruno, dedito al silenzio e alla preghiera.
Storie note e meno note, avvolte dal fascino della leggenda e dal mistero dell’esistenza umana. Racconti di sport e di vita, per chi ama lo sport e la vita.

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Con l’Agape al Giubileo degli ammalati e delle persone disabili

In occasione del “Giubileo degli ammalati e delle persone disabili”, l’Associazione di volontariato cristiano “Agape” di Sant’Eufemia d’Aspromonte organizza un pellegrinaggio a Roma nei giorni 11 e 12 giugno 2016 (due giorni e una notte).
I partecipanti si ritroveranno in Piazza Municipio, sabato 11 giugno alle ore 6.00: sistemazione dei bagagli e partenza in pullman Gran Turismo per Roma. Sosta lungo il percorso per consumare il pranzo al sacco, a carico dei partecipanti. All’arrivo nella capitale, previsto per le ore 15.00, sistemazione dei volontari, degli assistiti e dei partecipanti nelle camere della Casa Religiosa di Ospitalità “San Giuseppe”, in via Egidio Albornoz, n. 40 (zona San Pietro).
Pellegrinaggio verso la Porta Santa e, a partire dalle ore 18.00, possibilità della visita di alcuni stand nei Giardini di Castel Sant’Angelo (facoltativo) e Festa di benvenuto “Oltre il limite”. Subito dopo, trasferimento nella Casa “San Giuseppe” per cena e pernottamento.
Domenica 12 giugno, dopo la prima colazione presso l’Istituto, appuntamento alle 8.30 in Piazza San Pietro con i canti e le testimonianze (“Quando sono debole sono forte”) in preparazione della Santa Messa con il Santo Padre alle ore 10.00.
Dopo il pranzo presso il ristorante da “Fabio” (via di Porta Cavalleggeri, n. 145), sistemazione nel pullman e partenza per il rientro a Sant’Eufemia.
La quota individuale di partecipazione è di € 125,00 (per un minimo di 50 partecipanti) e comprende: viaggio in bus Gran Turismo; sistemazione presso la Casa Religiosa di Ospitalità “San Giuseppe”; cena giorno 11; colazione e pranzo giorno 12; tassa di soggiorno.

*Acconto richiesto all’atto della prenotazione: € 40,00 da versare entro e non oltre il 30 aprile.
**Per info e prenotazioni contattare il responsabile Peppe Napoli, al numero: 3339284284

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Due parole sul referendum

Nessuna sorpresa, né delusione: raggiungere il quorum era difficile e lo si sapeva. Ho votato, come il 32% circa degli elettori, e ho votato SÌ perché credo e spero che il futuro della politica energetica dellItalia sia nelle rinnovabili.
Rispetto lopinione di chi invece ritiene ancora prematuro o comunque non opportuno affrancarsi completamente dallutilizzo dei fossili e, coerentemente, ha votato NO.
Rispetto anche chi non è andato a votare perché è stanco di questa politica e ne ha le scatole piene; così come rispetto quelli che sono rimasti a casa perché dellavviso che tocchi alla classe dirigente di questo nostro Paese affrontare con competenza e responsabilità una materia così complessa. Comprendo le loro ragioni, che sono fondate.
Rispetto di meno chi invece ha deciso di disertare le urne esclusivamente per fare saltare il quorum, al termine di un “calcolo” politico che niente doveva avere a che fare con il contenuto del quesito referendario. Non si votava pro o contro Renzi e, per quanto mi riguarda, sono allergico ai plebisciti. Il trucchetto di unire il proprio NO con la percentuale (ahinoi sempre crescente) di astensionismo fisiologico che si registra ad ogni elezione è unazione da “furbetti del quartierino” poco dignitosa, come tutte le “furbate”.
Rispetto meno ancora i dirigenti del Partito Democratico travestiti da ultras che si sono lasciati andare a battute da bar dello sport, con espressioni offensive nei confronti di chi non ha fatto altro che esercitare un diritto costituzionalmente riconosciuto, nonché una conquista di libertà ereditata dai nostri padri e nonni.
Non si scrive mai una bella pagina di democrazia quando così poca gente va a votare. Comunque la si pensi.
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Dieci anni fa

Dieci anni a guardarli da qua sono un soffio. Una lunga apnea, un respiro trattenuto e poi rilasciato: ed è già oggi. Oggi una telefonata che non ti aspetti. Oggi le voci di dentro che mettono ordine nel caos di incredulità, dolore e fretta: «molla tutto e parti». Oggi un viaggio in macchina senza soste, all’arrivo gli occhi cisposi per quei 1600 chilometri percorsi d’un fiato, in trance, muti. Oggi i ricordi affastellati che assumono una coerenza luminosa. Che parlano di vita, non di morte. Di quella vita che nelle case del Sud è saga familiare, ovunque ci sia stato qualcuno che abbia voluto riscattare la storia dei propri cari.
Raccontano i sogni di chi ha scelto la rivoluzione andando via, nella valigia la speranza di un futuro migliore, per sé e per i propri figli. Storia di partenze e di incontri, storia di destini puntuali all’appuntamento della vita, quello che soltanto conta. Storia che ha i riccioli biondi di una figlia di Francia diventata più italiana degli italiani. Riccioli biondi e capelli lisci neri sulla testa dei figli e poi dei nipoti, il profumo dell’amore che non conosce confini, meticcio e sublime.
Resta il rimpianto per le tante cose che ancora andavano fatte e per le parole non dette, certo. I crateri che l’assenza (“più acuta presenza”) scava nell’anima, a distanza di anni. Le domande rimaste senza risposta sul perché della vita e della morte.
Domande di ieri, domande di oggi, in un presente eterno fatto di vuoti da riempire con il ricordo, con la felicità dei ricordi.
La festa del ritorno in una casa piccola, se non fosse stato per quella storia di partenze. Se non fosse stato per le onde infinite dell’oceano sfumate sulla battigia di un continente lontano, una distanza che trasforma l’abbraccio in un nodo indissolubile: «quello che è mio è tuo».
Il mare di ogni estate a Favazzina, gli occhi felici e il sale sulla pelle. Spruzzi e tuffi, gol e parate. Quanto mare abbiamo visto insieme? Dov’è finito, oggi, tutto quel mare?
Vuoti da colmare con una carezza ai fiori che la primavera fa sbocciare nel giardino eletto a buen retiro, ascoltando le canzoni che già canticchiarono giovani in chiodo sulle motorette, sorridendo per l’equilibrio precario di fotografie spericolate. Vecchi miti vissuti con la leggerezza di chi sa che tutto è possibile, nella stagione in cui tutto ancora era possibile.

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L’intervista a Pont’i Carta

Qualche giorno fa sono stato contattato da Francesco Martino, che da un anno gestisce insieme a un gruppo di ragazzi di Sant’Eufemia d’Aspromonte il blog Pont’i Carta: abbiamo fatto una chiacchierata sui temi scottanti del momento, toccando questioni nazionali ma anche locali. Pubblico di seguito il contenuto dell’intervista, consultabile nella sua versione originale cliccando sul link:
https://ponticarta.wordpress.com/2016/04/09/a-colloquio-con-domenico-forgione/

Nei giorni scorsi abbiamo incontrato Domenico Forgione, segretario del circolo PD “Sandro Pertini” del nostro Paese. Domenico è un grandissimo studioso della storia di Sant’Eufemia, oltre che dottore di ricerca in Storia dell’Europa mediterranea, giornalista pubblicista, scrittore e autore di numerosi libri sulla storia eufemiese e non solo. E’ proprio per questo, insieme al suo impegno politico che lo vede protagonista nel PD cittadino, che ci ha spinto ad incontrarlo e a porgli delle questioni. In maniera particolare, la nostra breve intervista si è soffermata su un tema che abbiamo deciso di affrontare con decisione anche nei prossimi giorni. Si tratta del referendum del prossimo 17 Aprile, evento che come spesso accade rischia di passare sottobanco, ma sul quale cercheremo di sensibilizzare il più possibile. Dunque, affronteremo anche nei prossimi giorni la “questione referendum” in diversi articoli. Intanto, vi lascio alla nostra conversazione con Domenico, auspicando che da essa si possano trarre già molti elementi di riflessione e di analisi sia sul referendum in se’, sia soprattutto sul nostro modo di porci con il contesto che viviamo, possa essere esso lavorativo, sociale o ambientale. Buona lettura.


1) Partiamo subito entrando nel vivo della questione che vogliamo affrontare. Che idea si è fatto del referendum del prossimo 17 Aprile?
Sono dell’avviso che bisogna sempre andare a votare, si tratti di referendum o di elezioni, anche per rispetto di chi ha lottato contro la dittatura fascista e ha pagato con la prigione e con la vita per la conquista di un diritto che oggi ci consente di essere un popolo libero. Non condivido la posizione di chi invita all’astensione. Ricorda il celebre invito rivolto agli elettori da Bettino Craxi nel 1991 (“andate al mare”) in occasione del referendum sulla preferenza unica, che segnò l’inizio della fine della Prima Repubblica. Credo però, anche, che lo strumento referendario sia talmente importante per il funzionamento della nostra democrazia che andrebbe utilizzato con maggiore parsimonia e preferibilmente per questioni di carattere generale, non tecniche, che rischiano di presentarsi come materia ostica per chi non sia un esperto del settore. Il referendum “sulle trivelle” ha assunto un valore che va oltre gli effetti che produrrà: sia che a vincere siano i Sì, sia se dovessero prevalere i No o, addirittura, anche nel caso di non raggiungimento del quorum. Questo perché, grazie all’intesa raggiunta tra governo centrale e Regioni, nessuna compagnia potrà mai più, in ogni caso, trivellare il mare entro le 12 miglia marine. Tuttavia, il referendum pone una fondamentale questione di principio riguardo la politica energetica nazionale, che personalmente gradirei sempre più “verde” e rispettosa della natura. Da qui il mio Sì, convinto: in favore dello sviluppo delle energie alternative, per la salvaguardia dell’ecosistema marino e, per dirla con le parole di Roberto Speranza, per la promozione di un modello di sviluppo ecosostenibile nel nostro Paese.
2) All’interno del Partito Democratico sono tantissime e molto diverse le posizioni riguardo al referendum. Bersani si è espresso favorevolmente al voto senza però sbilanciarsi verso una preferenza. Guerini e la Serracchiani hanno sposato la linea renziana dell’astensione, mentre Prodi ha chiaramente fatto intendere di essere sulla linea del NO. Infine Speranza ed Emiliano, molto critici con la linea di Renzi e favorevoli al SI. Visto che il referendum è stato proposto da nove regioni, di cui sette governate proprio dal Pd, non crede che ci sia stata un po’ troppa confusione? E il Pd eufemiese, quale linea ha deciso di sposare? Ci saranno delle vostre indicazioni? 
Concordo sulla confusione, che però è anche conseguenza del carattere pluralista del Partito Democratico. Una ricchezza (la presenza al suo interno di diverse sensibilità) che diventa un handicap quando non si riesce a trovare un punto di sintesi. L’errore più grave, per il partito, sarebbe però fare di ogni appuntamento elettorale una sorta di regolamento di conti, un prova muscolare che produce soltanto disaffezione e alimenta l’antipolitica. Lo sforzo di tutti dovrebbe invece essere rivolto a far convivere le posizioni di tutti, senza il ricorso ai diktat della maggioranza: penso, ad esempio, alle troppe volte che su un provvedimento legislativo viene posta la fiducia. E senza, d’altro canto, che la minoranza del partito minacci di fuoruscire dal partito ogni volta che “va sotto”. La democrazia funziona così e, alla fine, in politica contano i numeri: chi ce li ha, porta avanti la sua visione di società, all’interno di una cornice di valori intangibili che i padri costituenti hanno scolpito, in particolare, nella Prima parte della costituzione repubblicana.
Per l’insieme di queste ragioni, non credo sia utile alcuna “crociata”. Personalmente andrò a votare Sì, però ritengo opportuno lasciare libertà di voto agli iscritti del circolo di Sant’Eufemia.
3) Noi di Pont’i carta, come blog nato proprio dalla necessità di sensibilizzare su temi che molte volte non sono conosciuti o che vengono troppo facilmente liquidati, abbiamo interesse a mettere in luce non solo ciò che potrebbe interessare il nostro paese, ma anche più largamente il nostro territorio, la nostra Regione e anche tematiche nazionali come il referendum. A tal proposito abbiamo scelto il referendum come argomento proprio col chiaro intento di sensibilizzare sul rapporto uomo e natura, oltre che su dei modelli economici di sviluppo nuovi e sostenibili. Alla luce di ciò, cosa pensa degli accertamenti che la magistratura sta effettuando sullo sversamento illecito di rifiuti speciali a Gioia Tauro, sempre nell’ambito dello scandalo “Trivellopoli” scoppiato in Basilicata? Quanto questa inchiesta potrà incidere sull’andamento del referendum? 
Sin dall’esordio, ho salutato con favore la nascita del vostro blog, perché credo che ogni luogo di discussione sia (meglio: debba essere) occasione di crescita per la realtà in cui si vive. Vale sia nel caso in cui l’agorà sia reale, sia quando il confronto è virtuale, come nel caso del vostro blog o dei social network. Mi ha fatto pertanto molto piacere il vostro invito a rilasciare questa intervista e vi esorto a continuare su questa strada, quella dell’impegno costruttivo, della ricerca del dialogo e dell’elaborazione di proposte utili per la crescita sociale e culturale di Sant’Eufemia. Per rispondere al merito della domanda, mi auguro che l’inchiesta in Basilicata produca “anche” l’effetto di sensibilizzare maggiormente i cittadini sui contenuti del referendum. Ad ogni modo, ritengo che il lavoro della magistratura finalizzato all’accertamento di eventuali irregolarità nel trattamento di rifiuti speciali nell’impianto di Gioia Tauro non solo è giusto, ma siamo noi cittadini a doverlo pretendere con forza. Sulla salute delle persone non si scherza e se qualcuno ha commesso un reato, attaccando un falso codice identificativo su 26 mila tonnellate di rifiuti speciali pericolosi, deve pagare.
4) Recentemente, in un incontro avvenuto nel nostro comune, cui ha partecipato anche il presidente dell’associazione “Ferrovie in Calabria” Roberto Galati, si è nuovamente discusso della situazione del nostro ponte di ferro della vecchia stazione. Cosa pensa della situazione del nostro ponte? Crede che possa divenire in futuro il simbolo di quel nuovo sviluppo economico sostenibile di cui parlavamo prima? Oppure è destinato solamente ad una funzione simbolica di “memoria collettiva” da conservare?
Nella battaglia per scongiurare la demolizione del ponte della ferrovia il PD di Sant’Eufemia si è speso molto, promuovendo una sottoscrizione che ha raccolto poco meno di 1.100 firme. Lo ha fatto grazie alla collaborazione dei cittadini, delle associazioni e delle istituzioni, in un momento di grande unità che ha fatto onore a tutti i protagonisti di quella lotta. Il primo passo, salvare il ponte, è stato fatto. Bisogna ora attivarsi per ottenere altri due importanti risultati: 1) mettere in sicurezza tutta l’area su cui il ponte insiste, che è interessata da una situazione di gravissimo dissesto idrogeologico; 2) recuperare e ridare “vita” al ponte stesso. In proposito, le soluzioni possibili sono diverse: dal ripristino della vecchia linea taurense San Procopio/Sinopoli – Gioia Tauro per il trasporto locale o in funzione turistica, alla realizzazione sul vecchio tracciato di una pista ciclabile e di un percorso naturalistico, sul modello della politica di recupero delle linee ferroviarie dismesse attuata in molte regioni d’Italia: soluzione, quest’ultima, che personalmente preferisco, in funzione della valorizzazione delle bellezze e dei prodotti dei territori che la ferrovia attraversa.
5) A proposito di futuro, come ultima domanda, vorremmo andare un po’ fuori tema. In quanto segretario del circolo del Pd “Sandro Pertini”, e in quanto studioso e profondo conoscitore della storia di Sant’Eufemia, cosa pensa che riservi il futuro al nostro paese? E, secondo lei, cosa serve seriamente al nostro paese per costruire un avvenire migliore? In tal senso, il circolo, che obiettivi si pone?
“Il futuro è un’ipotesi”, cantava Enrico Ruggeri quasi trent’anni fa. Quindi non so, con certezza, cosa esso ci riserverà. Vedo, come tanti altri, i segni di un declino preoccupante: il lavoro che manca, l’isolamento anche fisico che il nostro paese ha subito con la soppressione dello svincolo autostradale, i troppi giovani costretti ad emigrare, che portano altrove le proprie competenze e vanno ad arricchire il tessuto sociale delle realtà che li accolgono e dove riescono ad affermarsi. Mentre qua la meritocrazia latita e i diritti vengono spesso cambiati per generose concessioni del potente di turno, del compare o di chi sfrutta il bisogno altrui per fare carriera. Sant’Eufemia ha la fortuna di avere al suo interno le “armi” per costruirsi un futuro migliore: realtà associative vivaci e molto attive sul territorio, professionalità riconosciute e un tessuto economico con straordinarie potenzialità, a cominciare dal settore agricolo e da quello dell’allevamento del bestiame. Si tratta di riuscire a capitalizzare questo vasto patrimonio, mettendo da parte l’egoismo dei singoli e pensando, finalmente, al bene comune. La politica non può considerarsi fuori da questo processo: è anzi chiamata a svolgere un compito di guida, in una prospettiva di sintesi delle soluzioni migliori proposte dalle esperienze amministrative maturate negli ultimi decenni. Un paese con poco più di 4.000 abitanti ha bisogno di una prospettiva il più unitaria possibile, che valorizzi al meglio il capitale umano di cui dispone.

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