Sant’Eufemia d’Aspromonte e il terremoto del 16 novembre 1894

Alle ore 19 circa del 16 novembre 1894 è ormai piena notte: se ne hanno la possibilità, le famiglie sono attorno al braciere, oppure già sotto le coperte per non soffrire troppo gli schiaffi dell’inverno. Qualcuno si attarda nelle cantine per un bicchiere di vino, ma la maggior parte della gente si sta per addormentare. Quella notte però non si dormirà, né a Sant’Eufemia, né in molti altri centri pre-aspromontani. E di freddo, nelle strade, ne raccoglieranno parecchio gli sfollati del terremoto che in soli sedici lunghissimi secondi rade al suolo cittadine e villaggi. Il bilancio finale conta 98 vittime e ingentissimi danni, con il triste primato di perdite di vite umane toccato a San Procopio: 48 e il paese ridotto in macerie. Ma è tutto il circondario di Palmi a piangere morte e distruzione: sette vittime a Bagnara (alle quali vanno aggiunte le sei della frazione Solano), otto a Seminara e altrettante a Palmi, epicentro del sisma del 6.1 grado della scala Richter, altre a Melicuccà, Sinopoli, Santa Cristina e Delianuova. Un numero che per Palmi sarebbe stato ben più elevato se in quei giorni la città non fosse stata teatro di un avvenimento che un anno dopo la Chiesa riconobbe come miracolo: il movimento degli occhi della statua della Madonna del Carmine, per oltre due settimane consecutive, che richiamò l’attenzione della stampa anche nazionale. Miracolo o caso, fu infatti proprio la processione organizzata il 16 novembre a fare sì che quasi tutta la popolazione si trovasse per strada quando la terra tremò e le case cominciarono a crollare.
Sant’Eufemia fu semidistrutta. Le vittime furono sette, cinque delle quali risiedevano nel Paese Vecchio, le altre due al Petto: Concetta Bagnato, 37 anni; Grazia Maria Monterosso, 72 anni; Antonino Condina, 36 anni; Maria Antonia Cutrì, 3 anni; Angela Nocito, 88 anni; Natale Occhiuto, 2 anni; Carmina Zagari, 95 anni. Più di 200 i feriti. La chiesa Matrice subì lesioni molto gravi, quella del Purgatorio rovinò parzialmente. Il quartiere Campanella (o “Rocca”) fu quello che subì danni minori insieme al Petto, dove però la chiesa crollò quasi completamente. Le case rimaste in piedi subirono danni talmente gravi da mettere in serio pericolo l’incolumità della popolazione, per cui in gran numero furono successivamente demolite: 212 abitazioni crollarono totalmente, 326 parzialmente, 432 furono gravemente danneggiate e 188 lesionate in modo lieve. I danni furono quantificati in circa due milioni di lire.
Sui luoghi colpiti dal disastro giunsero nei giorni successivi reparti di truppa e squadre di operai sottoposti agli ordini del maggiore del Genio civile Angelo Chiarle, i quali si occuparono della demolizione delle case diroccate, della rimozione delle macerie, del puntellamento della abitazioni recuperabili, della costruzione delle baracche, della distribuzione di indumenti e di alimenti, dello svolgimento di servizi di pubblica sicurezza. Del coordinamento con la prefettura per tutte le operazioni di soccorso si occupò invece il consigliere provinciale Michele Fimmanò, il politico eufemiese più influente dall’Unità d’Italia al primo decennio del Novecento.
A fine febbraio 1895 furono consegnate 64 baracche: la chiesa, l’ospedale, le scuole femminili, il municipio, l’ufficio telegrafico e l’ufficio postale, oltre alle “baracche varie”. Furono inoltre puntellate 32 case, demoliti totalmente 5 fabbricati e parzialmente 64. Un anno dopo, l’area denominata “Pezza Grande” risultava così occupata da un vasto baraccamento strutturato con strade, piazze, una chiesa e una rivendita di privativa, che ospitava più di 200 famiglie e che costituì il primo nucleo urbano dell’assetto che Sant’Eufemia avrebbe definitivamente assunto dopo il terremoto del 1908, quando fu edificato l’intero omonimo rione.

* Tutte le fotografie sono tratte da “Il terremoto del 16 novembre 1894 in Calabria e Sicilia. Relazione scientifica della Commissione incaricata degli studi dal Regio Governo”, Roma 1907. In apertura, il campanile diroccato della chiesa del Purgatorio; a fine articolo, nell’ordine: case rovinate; chiesa del Petto; chiesa del Purgatorio.

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Ballando sotto la pioggia

Il mio recente post Impressioni di Londra ha convinto Mario a raccontare qualcosa della sua esperienza di giovane “scappato” dall’Italia quasi vent’anni fa e accolto da una città che gli ha dato la possibilità di non rimpiangere niente di quella scelta. Ho sempre pensato che ci vuole molto coraggio per abbandonare questa nostra martoriata terra, tanto quanto ne serve per restare. [D.F.]

La mia storia d’amore con Londra cominciò una piovosa notte di giugno del 1997. Era il 16 giugno, per essere esatti. Due settimane prima avevo comprato un biglietto di sola andata, così, d’impulso, dopo aver letto un articolo sulla capitale inglese dove, tra le altre cose, mi si assicurava che avrei trovato lavoro in due secondi.
Avevo 22 anni. Da marzo mi trovavo a Milano, dove ero giunto proveniente dalla Sicilia dopo un viaggio in treno di 23 ore, ovviamente senza biglietto, il mio posto tra il corridoio ed il bagno, in una nuvola di fumo di sigarette. Come un “vu cumprà” terrone senza vergogna, vendevo prodotti inutili porta a porta, mentre mamma pensava fossi a Palermo a studiare psicologia. Conseguentemente, mia madre non crede a ciò che le dico da 19 anni. In verità, la mia carriera universitaria durò quattro mesi, il tempo di capire che avrei avuto almeno 30 anni prima di riuscire a guadagnare qualche soldo. Cosa per me impensabile, avendo assaporato l’indipendenza economica già a vent’anni, quando guadagnavo uno stipendio giocando alla guerra come sottotenente dell’esercito.
Quando arrivai a Londra, tutto il mio mondo in una singola valigia, mi resi conto di non capire una parola di inglese. Subito dopo mi ricordai di non avere un biglietto di ritorno. Panico, per cinque minuti. Le mie preoccupazioni hanno sempre una vita breve. Giunsi al mio ostello dopo essermi perso due volte in Underground: almeno per un tetto avevo avuto il buon senso di prenotare tutto tramite un’agenzia italiana.
Avrei diviso una stanza con tre sconosciuti. Uno di loro sarebbe poi diventato uno dei miei migliori amici. La prima notte mi portò a Piccadilly Circus a ballare sotto la pioggia “perché a Londra puoi fare quello che ti pare, quando ti pare”: una frase che non ho mai dimenticato e che negli anni mi ha spinto ad osare, a tentare di riuscire in “altro”, cose che in Italia non avrei mai considerato.
Essere via ti libera. Per me è stato come stare di fronte ad una tela bianca, pennello in mano, e cominciare a dipingere la mia vita, come la volevo io e non come se la immaginavano ed aspettavano gli altri.
Il mio primo lavoro non lo trovai in due secondi ma in due giorni, giusto in tempo, perché non avevo più soldi. Il 1997 fu un attimo, terminato a Trafalgar Square, arrampicato su un monumento ad aspettare la mezzanotte sopra un mare umano. Lavoravo in un McDonald’s dalle 7 del mattino alle 15.00, poi in un Pub dalle 18.00 alle 23.00 ed infine in strada dalle 23.30 all’una di notte, a fare volantinaggio per una discoteca dove il sabato notte vi lavoravo come cubista(!). Poi si usciva in centro. Dormivo pochissimo ma non importava, perché non dovevo chiedere niente a nessuno. Finalmente libero, ero felice.
Per me la felicità è sapere che puoi contare sulle tue forze per “arrivare” da qualche parte, che si può vivere senza dover chiedere favori e che se ti va, puoi lottare per conquistare la tua parte di mondo, senza compromessi, perché se hai delle qualità ti verranno non solo riconosciute ma anche valorizzate. Negli anni ho fatto di tutto, da elfo nei magazzini Harrods a poliziotto nella polizia metropolitana, da manager in un locale ad impiegato bancario, oltre ad altro di cui non parlo per scaramanzia ma che amo.
Ho vissuto a Melbourne, a Malta, a Los Angeles; spendo tanto tempo ad Havana e giro il mondo per lavoro, ma solo a Londra mi sento completo. Solo a Londra mi sento a casa. A Londra sono maturato nell’uomo che sono. A Londra ho trovato me stesso.
Ecco, potrei morire domani e morirei in pace, senza rimpianti. Da quella prima notte a Piccadilly Circus, non ho mai smesso di ballare sotto la pioggia.

[Mario Forgione]

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Un ricordo dell’alluvione del 1966

Le rievocazioni del cinquantesimo anniversario dell’alluvione che il 4 novembre 1966 devastò Firenze si sono concentrate per lo più sul ricordo dei danni prodotti dagli straripamenti dell’Arno. Le 35 vittime, gli sfollati, l’intervento degli “angeli del fango”, giovani di tutte le nazionalità accorsi a migliaia nel capoluogo toscano per strappare al fango i libri e i manoscritti della Biblioteca Nazionale o le opere d’arte dei depositi degli Uffizi rovinati dall’inondazione: su tutte il Crocifisso di Cimabue nella Basilica di Santa Croce, assurto a simbolo dell’alluvione.
In realtà, già da diverse settimane, diverse aree del Centro Italia e del Nord-Est registravano un’eccezionale ondata di maltempo, con esondazioni e frane che raggiunsero l’apice tra il 3 e il 4 novembre. Il bilancio finale, consultabile sulla pagina Polaris (popolazione a rischio da frana e da inondazione in Italia), a cura del Consiglio Nazionale delle Ricerche – Istituto di Ricerca per la Protezione Idrogeologica, è impressionante: oltre 130 morti, quasi 400 feriti e poco meno di 78.000 tra sfollati e senzatetto, 1.000 miliardi di lire di danni. Non solo, quindi, gli 11 metri di livello raggiunti dall’Arno, ma anche il record d’acqua alta a Venezia (194 centimetri), l’esondazione del Piave, del Brenta e del Livenza nel Veneto, del Tagliamento nel Friuli e dell’Adige nel Trentino, dell’Ombrone nel Grossetano, di molti fiumi e canali dell’Emilia Romagna, in particolare nel Modenese.
Lo sforzo solidaristico degli angeli del fango e il lavoro incessante delle forze armate, giorno e notte, nelle aree colpite. Giovani che svolgevano il servizio militare e che nei giorni dell’alluvione diedero un contributo fondamentale per il salvataggio delle vite umane in pericolo. Tra i soldati del 18° Reggimento artiglieria contraerei – di stanza presso la caserma “Giulio Cesare” di Rimini – c’era anche mio padre. La sua compagnia fu destinata al soccorso delle popolazioni nelle aree attorno a Rimini e a Forlì: riempire sacchi di sabbia, trasportarli e accatastarli uno sull’altro per arginare le esondazioni dei fiumi; far muovere le barche piatte da fiume a fondo piatto puntando le pertiche contro il fondo, raggiungere i casolari isolati per trarre in salvo i feriti e coloro che si erano arrampicati sopra i tetti.
A tutti i militari impegnati nell’opera di soccorso fu successivamente consegnato un volumetto contenente i ringraziamenti inviati dalle istituzioni civili e religiose al Generale di corpo d’armata – Comandante la regione militare Nord-Est («Questi ringraziamenti e questi elogi vanno a Te, soldato d’Italia, che per i Tuoi fratelli colpiti dalla sventura hai duramente lavorato, con sacrificio e nel pericolo; e hai dato prova di profondo sentimento del dovere e di alta solidarietà umana») e un attestato di benemerenza firmato dal ministro della Difesa Roberto Tremelloni:
«In un’ora di dolorosi eventi suscitati dalla furia di forze della natura scatenate su vasta parte del territorio nazionale, soldati, marinai ed avieri d’Italia, memori del dovere che li vuole al costante servizio del Paese sia in pace che in guerra, hanno impegnato ogni loro risorsa ed energia per la salvezza delle vite in pericolo, la lotta contro l’epidemia e la rinascita delle speranze, in una umana gara di generosità, di dedizione e di sacrificio. Per questi combattenti di una lotta senza quartiere contro lo sfacelo apportato dalle acque, desidero unire al sentimento degli infelici che essi soccorsero, aiutarono ed incoraggiarono, la meritata calda lode delle Istituzioni Militari che tanto degnamente hanno rappresentato nell’adempimento del civico dovere».

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Impressioni di Londra

Un viaggio è un puzzle di immagini spolverate sulla mente come zucchero a velo, che il tempo avrà cura di soffiare lontano, inevitabilmente. Restano le impressioni che lo spettacolo della vita concede a chi sa e vuole fermarsi un attimo, anche soltanto per rafforzare il ricordo facendolo vivere un po’ più a lungo. Conservare le emozioni del paesaggio, dei volti, della folla anonima che nella metropoli incede indistintamente, quasi sempre di fretta, fiumana umana in movimento verso mete che non sapremo. Per questo affascinanti.
Nel mio breve soggiorno londinese ho camminato. Ma proprio tanto. Dalla mattina alla sera, di notte. Il contapassi di Pasquale a un certo punto non smetteva più di congratularsi! Un cammino per lo più allegro, da turista, ma anche penoso e doloroso quando ha sbattuto contro la solitudine della morte, la vera ragione della nostra trasferta. Nelle scelte di vita bisogna entrarci in punta di piedi, con rispetto e discrezione, pertanto non scriverò di Peppino “Joe” Conte. E non perché il dolore degli altri è “dolore a metà”, ma perché so che la vita Joe l’ha gustata per intero – come l’ape con il fiore – e se n’è andato senza rimpianti, soddisfatto dei suoi 84 anni avventurosi, per certi versi cinematografici. Abbiamo bevuto alla sua salute e, se da qualche parte Joe ci stava osservando, sono certo che avrà sfoderato il suo inconfondibile e paffuto sorriso.
Volti che sfumano, dicevo. Dell’alcolista che alle due di notte chiede 40 penny per onorare il venerdì londinese. Del ragazzo con la lattina vuota che cerca l’elemosina davanti a una chiesa anglicana, accanto a un cimitero di sole croci rovinate dal tempo e di scritte annerite su rettangoli di marmo rotto. Della donna che dorme dentro al sacco a pelo, abbracciata al suo cane, in un riparo di strada trafficatissimo accanto a Westminster.
Ma anche le facce sorridenti dei cinque ragazzi di differenti etnie che arrivano a Piccadilly Circus, con una corda perimetrano una porzione di suolo all’uscita dell’Underground e per qualche ora replicano uno spettacolo di danze e salti acrobatici sulle note di “Gangnam Style” per un pubblico che si rinnova al ritmo scandito dagli arrivi della metro. Gli artisti di strada che a Covent Garden si esibiscono per centinaia e centinaia di bambini rapiti dalla magia e dall’abilità dei giocolieri, stupiti dall’impassibilità delle statue viventi color oro o argento che si animano come per incanto. I visi allegri dei frequentatori delle botteghe dei barbieri nigeriani, aperti anche di notte perché i “Barber Shop”, nella cultura centroafricana, sono veri e propri spazi ricreativi, nei quali c’è chi si ferma anche soltanto per assistere all’ultima puntata della telenovela del momento.
Le voci e gli accenti si accavallano ma sembrano fondersi in un linguaggio universale che tiene insieme le tessere di un mosaico fatto di volti colorati e allegri nel centesimo selfie della giornata. Il contrasto tra miseria e benessere fa riflettere su quanto l’uomo sia davvero artefice del proprio destino, in una città che comunque ha una marcia in più. Che a tutti, soprattutto ai giovani, sembra essere in grado di offrire una possibilità.

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Quella maledetta domenica che si portò via il Sic

Per qualche anno ho gestito un secondo blog, nel quale scrivevo quasi esclusivamente di Inter: un blog da tifoso, con l’immancabile rubrica del commento alle partite e amenità varie, ma che ogni tanto utilizzavo anche per commentare eventi di altre discipline sportive. Oggi che ricorre il quinto anniversario della sua tragica morte sul circuito di Sepang voglio ricordare Marco Simoncelli con il post che scrissi allora. 

Mentre ero in volo, di rientro da Londra, pensavo che sarebbe stata una delle poche domeniche in cui non avrei visto alla Tv la partita dell’Inter. Sarei riuscito ad ascoltare gli ultimi minuti di radiocronaca in macchina, di ritorno dall’aeroporto di Lamezia. Ed infatti è andata così. Proprio per questo motivo avevo pensato di scrivere qualcosa su questa esperienza inedita e antica allo stesso tempo. Sarebbe stato un tuffo nel passato, un amo lanciato nel mare dei ricordi dell’infanzia per ripescare un mondo senza Sky né Mediaset. Un tempo in cui del cartello delle partite, disputate tutte rigorosamente di domenica, riuscivamo a vedere – e con quale attesa! – soltanto la differita del secondo tempo dell’incontro di cartello su Rai 2 verso le 19.00, dopo i saluti di Paolo Valenti dietro la scrivania del suo “Novantesimo minuto”, su Rai 1.
Avrei raccontato di ragazzini attorno a una radiolina e dei “grandi” sulle auto parcheggiate davanti alla pineta comunale, al municipio, ai bordi delle piazze, accanto ai marciapiedi. Delle vecchie schedine del totocalcio con le matrici che andavano benissimo per aggiornare i risultati e che passavano di mano in mano, in una sorta di rito collettivo che dà l’idea di quanto il calcio fosse davvero un romanzo popolare.
Appena entrato in casa, invece, dopo i saluti è arrivata la domanda di mia mamma. Una domanda che nel tono delle parole e nell’espressione del viso conteneva già la risposta: «Hai saputo di Simoncelli?».
Stamattina, mentre preparavo le valigie, con un occhio seguivo nella televisione la gara di Moto2. C’era stato un incidente che aveva coinvolto lo spagnolo Axel Pons, con la conseguente sospensione della gara a due giri dal termine. «Pista pericolosa», mi ero detto.
Le parole di mia mamma sono state un déjà-vu, la mia mente è corsa all’incidente in cui perse la vita Ayrton Senna, nel Gran Premio di San Marino. Allora, durante le prove, era morto Roland Ratzenberger, mentre Rubens Barrichello si era salvato per miracolo. Incidenti premonitori, anche in quel caso, che anticiparono la morte di uno dei più grandi piloti di sempre. Un personaggio amatissimo, come lo era il Sic.
Mancano le parole per descrivere la tragedia che si porta via delle giovani vite. Da domani si parlerà di sicurezza, del gioco che forse non vale la candela, di ragazzi che hanno tutto – soldi, successo – e che ogni tanto perdono tutto in una curva maledetta o per un guasto meccanico.
Da domani si parlerà anche – ed è giusto che sia così – di Marco Simoncelli, del suo essere irregolare e solare: sempre con il sorriso, un po’ guascone, duro quanto serve per sgomitare in pista e staccare un secondo dopo l’avversario. Quel secondo che ti consente di passare davanti e di mandare il pubblico del tuo show in delirio. Un ragazzo che nel paddock era amato per la sua allegria, per i suoi scherzi, per il suo non prendersi mai troppo sul serio. Per essere, in fondo, un giovane innamorato della vita.
Ora però è bene che si fermi tutto. Ci sarà tempo per altri articoli. Ora è il tempo del dolore e del rimpianto per una vita spezzata nel fiore degli anni.
[23/10/2011]

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Vittorio Visalli, anche poeta

Forse non tutti sanno che Vittorio Visalli, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 15 ottobre 1859 e morto a Reggio Calabria il 27 giugno 1931, fu anche poeta. Il maggiore storico del Risorgimento calabrese è celebre soprattutto per due opere: I Calabresi nel Risorgimento italiano. Storia documentata delle rivoluzioni calabresi dal 1799 al 1862 (Torino, 1893) e Lotta e martirio del popolo calabrese. 1847-1848 (Catanzaro, 1928). Diede alle stampe anche diverse altre opere di carattere storico, i testi degli interventi pronunciati in conferenze tenute in tutta Italia e i volumi didattici di storia e di geografia scritti per gli alunni delle scuole elementari, delle scuole medie e delle classi inferiori del ginnasio. In anni più recenti l’editore Barbaro ha poi restituito alla comunità degli studiosi e agli appassionati di storia il volumetto Aspromonte (1995), curando la ristampa anastatica del lavoro che nel 1907 Visalli dedicò al ferimento di Giuseppe Garibaldi nel bosco degli “Zappineddi”, in contrada Forestali (29 agosto 1862).
Lo storico eufemiese ebbe riconoscimenti ufficiali già a un anno dalla morte, con la collocazione di un busto in bronzo presso la biblioteca comunale “Pietro De Nava” di Reggio Calabria, che custodisce anche i circa 1.500 volumi del catalogo “Donazione Vittorio Visalli”, mentre le carte utilizzate per la stesura delle sue opere storiche sono oggi conservate presso l’Archivio di Stato di Reggio Calabria (“Fondo Visalli, 1815-1893”).
Per niente noto è invece il Visalli poeta. Eppure esiste una sua raccolta di 47 componimenti (Semel), stampata presso la tipografia Giuseppe Lopresti di Palmi nel 1894 e oggi praticamente introvabile. Il titolo del volume fa riferimento alla sentenza latina semel in anno licet insanire (“una volta all’anno è lecito impazzire”), come lo stesso autore precisa spiegando “in breve e sinceramente” il motivo della pubblicazione del libro: «Non v’è uomo che durante la sua giovinezza non abbia sentito il bisogno di dare una capatina, più o meno fortunata, nel regno delle Muse; che non abbia sentito nel cervello una fioritura spontanea di poesia, cui l’esuberanza del sentimento e dell’immaginazione alimenta e feconda. Ed anch’io feci come tutti gli altri, e molti fogli rabescai di sonettini e canzonette e versi sciolti, che andavo qua e là disseminando nei giornali o su gli scrittoi di persone amiche, senza curarmi più che tanto delle loro vicende. Ma ora che la rigida prosa della vita e qualche filo bianco tra i capelli mi cominciano ad avvertire che giunge il momento di ammainare le vele, ora ho voluto mettere insieme alcune delle superstiti paginette, e conservarle come ricordo delle fuggite illusioni, dei dolori sofferti. […] È stata una follia? Non lo so dire. Ma se la sapienza antica tollerava che s’impazzisse una volta all’anno, SEMEL IN ANNO, tanto meglio posso chiedere scusa io se sbaglierò, almeno in materia di versi, questa sola ed unica volta».
Le poesie del giovane Visalli, suddivise in tre sezioni (“Calabria”, “Spigolature”, “Pagine grigie”), risentono delle influenze letterarie di fine Ottocento: rime di carattere storico, nelle quali emerge il contrasto tra i grandi ideali del Risorgimento e la miseria della realtà dell’Italia unita; versi che rimandano al classicismo carducciano; liriche intimiste o impregnate del sentimento panico della natura. I temi prevalenti: pene d’amore e gioie dell’amore, morte e vita. Ma anche la condanna dei costumi del tempo, che costituisce il nucleo centrale di alcuni dei componimenti presenti nell’ultima sezione. Ad esempio in “Fine di un monologo”, una sorta di omaggio al poeta Giuseppe Giusti, massimo esponente della poesia satirica nell’Ottocento e creatore del personaggio Gingillino:

È ver: la penna, la vanga, il martello
non dàn guadagno e sciupan molto presto;
più rende una levata di cappello
che non sei mesi di lavoro onesto.

Bisogna che s’appoggi ad un Lucullo
e divenga un suo servo, suo trastullo,
chi non vuole morir povero e brullo.

Strisciar bisogna come Gingillino,
lodare tutto, volgere il pensiero
secondo il vento, e star dimesso e chino
come salcio piangente al cimitero.

Ahimè, la mia colonna vertebrale
è dritta, è salda, e sarà sempre tale!
Mi toccherà finire a l’ospedale.

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Graziadei Tripodi, il restauratore al servizio di Dio

A gran parte degli eufemiesi probabilmente dice poco il manifesto mortuario affisso in paese stamattina, che annuncia le avvenute esequie di Graziadei Tripodi, domenica scorsa nella Chiesa della Santissima Concezione ad Airola, in provincia di Benevento. Accade sovente, quando il defunto da molti anni vive fuori paese. Ci si limita a leggere i nomi dei congiunti, per capire a chi “appartenga” il deceduto e poi si passa oltre, distrattamente.
La morte di Graziadei Tripodi non può però passare inosservata, perché chi ci ha lasciato è (uso il presente, il tempo degli artisti, che tali rimangono per sempre) una grande personalità nel campo della scultura e della pittura: “il restauratore al servizio di Dio”.
Graziadei Tripodi, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 13 giugno 1932 al numero civico 2 di via Nucarabella, appartiene a una famiglia di artisti. Il padre, Carmelo, fu pittore, scultore, musico e fotografo. “Galileo Galielei” e “Sant’Antonio Abate” sono probabilmente i suoi dipinti più celebri (premiati all’Esposizione campionaria internazionale di Palermo, nel 1906 e nel 1907), ma molte altre sue opere d’arte sono sparse in diverse chiese della provincia (Acquaro di Cosoleto, Solano, Gioiosa Ionica, San Procopio, Palmi e ovviamente Sant’Eufemia), in Calabria e in Sicilia. Una passione per l’arte trasmessa dal genitore agli otto figli (due donne e tre maschi), in particolare al restauratore Graziadei, appunto, ad Agostino e al pittore Domenico Antonio (“L’Aspromontano”), artista di fama internazionale pluripremiato per le sue opere, esposte nelle sale più prestigiose di tutti i continenti.
Ma un ruolo non secondario per il successo dei figli lo giocò la madre Carmela Giordano, come riconobbe lo stesso Graziadei nella monografia dedicata al padre in occasione del cinquantesimo anniversario della morte (2000): «Carmela Giordano ha avuto il coraggio di lasciar andare via i propri figli, comprimendo il suo senso materno e i suoi affetti, alfine di evitare loro la “provincializzazione”, cioè il restare “chiusi”, come era successo al padre, nello stretto ambito locale, privo di significativa evoluzione nel campo dell’arte. […] Se noi, figli di Carmelo Tripodi e di Carmela Giordano, sparsi per la penisola, oggi, possiamo offrire qualche contributo all’arte, riconosciuto e gratificato, lo dobbiamo sì al gene paterno ma anche alla maternità e al sacrificio immenso di Carmela Giordano».
Di strada, nel campo del restauro, Graziadei Tripodi ne ha fatta molta. Autore di due lavori fondamentali  Il Restauro. Come e perché (Napoli, 1981), Fra restauro e pittura. Una vita al servizio dell’arte (Caserta, 2012) , le sue abili mani hanno ridato vita ad opere realizzate dai giganti del pennello e dello scalpello: su tutti, Giotto (Cappella Peruzzi, chiesa di Santa Croce in Firenze; ma anche la Cappella degli Scrovegni a Padova), ma anche gli affreschi del Solimena e del Cavallini a Napoli, oltre a un’infinità di opere, a carattere prevalentemente religioso, sparse tra Toscana e Campania, in particolare ad Airola e nel Beneventano.
A Sant’Eufemia Graziadei Tripodi fece ritorno, per un breve periodo, sul finire degli anni Ottanta. In quella circostanza fu promotore di manifestazioni a carattere religioso che ebbero uno straordinario successo (il “Presepe vivente”, tra le vie del Vecchio Abitato e la “Via crucis vivente”); quindi, diede prova della sua grande arte a San Procopio, Favazzina, ma soprattutto nel suo paese natio, grazie al restauro della statua della Santa Patrona.
Graziadei Tripodi, l’artista che portava inciso nel nome il proprio destino.

*La foto è tratta da: http://ettore.ruggiero.eu/il-maestro-graziadei-tripodi-un-capitolo-della-storia-di-airola/ 

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Il dovere della memoria

Sarà che oggi, mentre mi dedicavo alla sistemazione di libri e documenti mi sono ritrovato tra le mani la scatola di vecchie carte che furono sue.
Sarà che tra poche settimane saranno quattro anni che il professore Rosario Monterosso non è più tra di noi.
Sarà che mi mancano le nostre conversazioni e i suoi consigli di lettura.
Sarà che non ho mai smesso di cercarlo e di sentirlo comunque presente: ogni volta che leggo un libro; ogni volta che vorrei essere confortato sulla bontà delle mie riflessioni e delle mie azioni; ogni volta che avrei bisogno di una guida sicura, di una luce che rischiari nel buio confuso di questi tempi tristi.
La sua guida. Le sue lezioni puntuali, chiarificatrici. Come negli anni del liceo, quando dal banco lo ascoltavo incantato e seguivo la traiettoria del suo sguardo, che andava a cercare da qualche parte nell’aula le parole più appropriate per rendere facilmente comprensibili anche i concetti più ostici della filosofia o per sciogliere con semplicità espositiva i nodi storici più controversi.
Sarà che oggi abbiamo un bisogno urgente di gente perbene, rigorosa sotto il profilo etico.
Bagnara, la sua città, dovrebbe essere orgogliosa di avere avuto un figlio con lo spessore umano e culturale di Rosario Monterosso. Invece non lo è. Con i fatti dimostra di non esserlo. Perché altrimenti non si spiegherebbe l’oblio caduto sul professore dal sorriso “rugoso”. A quattro anni dalla sua scomparsa, non mi risulta nessuna iniziativa pubblica per ricordare la figura di un intellettuale coltissimo, di un cittadino impegnato nel sociale, di un animatore culturale generosissimo, di un politico onesto. Nessuno che abbia sentito il bisogno di indicare alle giovani generazioni un modello di umiltà e di umanità.
Non mi risulta una targhetta, un segno qualsiasi del suo passaggio su questa terra, la sua terra. Un ringraziamento all’educatore, prima che ancora al docente, di generazioni e generazioni di studenti; all’infaticabile organizzatore di manifestazioni culturali che hanno portato il buon nome di Bagnara sulle pagine dei giornali; al protagonista di vicende significative nella storia delle Acli, dei Lions e della politica non solo bagnarese.
Il dovere della memoria è esercizio faticoso, ma irrinunciabile se si vuole dare speranza al futuro di una comunità. Non tanto per celebrare ciò che è stato, quanto per indicare un percorso auspicabile di rettitudine morale e di impegno sociale fondamentali per la crescita individuale e collettiva.

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Se ne vale la pena

Tre giorni fa ho ricevuto una telefonata inaspettata che mi ha fatto riflettere, sulla quale ancora sto riflettendo. Dall’altro capo del telefono c’era la signora Angela Gioffrè, che vive nel New Jersey da moltissimi anni e della quale ovviamente ignoravo l’esistenza. Emozionatissima e agitata perché non riusciva a “prendere la linea”, mi ha spiegato di essere la nipote di Giacomo Chiuminatto, il titolare della ditta genovese che negli anni Venti del secolo scorso realizzò i lavori di costruzione della galleria e del ponte di ferro che sono il simbolo del nostro paese. Tramite dei parenti che vivono qua aveva ricevuto il libro che scrissi 4 anni fa sulla toponomastica di Sant’Eufemia (Il cavallo di Chiuminatto) e voleva ringraziarmi per avere ricordato la figura di suo nonno. Una lunga telefonata, nel corso della quale mi ha raccontato dell’incontro di sua mamma (figlia di Chiuminatto) con un giovane del posto, Nino Gioffrè, suo padre, e tutto il resto. L’ha fatto con una felicità genuina, rara, come forse solo i bambini o, appunto, le persone anziane riescono a provare e ad esternare.
A volte ci si interroga sul senso delle cose che facciamo, se ne “vale la pena”. E allora bisogna chiedere, a se stessi, cosa “vale la pena”. Non dovrebbe valere la pena scrivere libri che non avranno mai i lettori neanche dei più mediocri bestsellers. Ma si vive di emozioni e di sentimenti, altrimenti non si vive. Vale la pena restare? Restare o partire, da questa prospettiva, sono un falso dilemma. Certo, qua ho avuto la fortuna di potere fare le cose che amo, ad esempio scrivere: per gioco, per hobby, perché tale ho sempre considerato questa mia attività. Altrove probabilmente avrei potuto avere maggiori gratificazioni professionali, qualsiasi cosa avessi deciso di fare. Ma dipende tutto da cosa mettiamo sul piatto della bilancia. Diventa un falso dilemma perché partire o restare sono entrambe scelte condivisibili. Ho un fratello che ha fatto benissimo ad andare via, quasi vent’anni fa; ne ho un altro che ha fatto altrettanto bene a tornare, dopo più di un decennio fuori. Se siamo capaci di emozionare e di emozionarci, di essere liberi nelle nostre scelte, possiamo stare ovunque e staremo bene.
Per me la scrittura è principalmente una cura dello spirito e se i risultati sono quelli di una telefonata come quella che ho ricevuto, be’: vuol dire che la cura funziona.

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11 settembre 2001, il ricordo

L’11 settembre mi sorprese all’Archivio di Stato di Catanzaro, alle prese con le ricerche per la tesi del dottorato. Mi fu annunciato per telefono da mio fratello Mario, allora in Australia: un intreccio di fusi orario vertiginoso. Per radio, mentre rientravo a Sant’Eufemia, appresi i dettagli di ciò che era accaduto. Provai soprattutto incredulità: sul suolo americano una cosa del genere era impensabile.
Nel gennaio successivo fui a New York, per una ricerca sull’identità italo-americana insieme ad altri colleghi, che ci tenne là per due mesi. Un po’ ci sentivamo tutti americani, sulla scia del monito di Ferruccio De Bortoli sul Corriere della Sera, che parafrasava il vecchio discorso di John Kennedy a Berlino. Per cui non obiettammo nulla alla padrona di casa che ci raccomandò di non togliere le due bandiere a stelle e strisce poste ai lati dell’ingresso. D’altronde eravamo ospiti di un paese straniero.
Non c’era paura in giro, questo mi colpì immediatamente: soltanto commozione e un aumentato sentimento della nazione tra gli statunitensi, qualcosa a dire il vero distante dalle mie corde, che però aveva una sua giustificazione. Ricordo in particolare una processione sulla 5th Avenue con un corteo interminabile per una commemorazione di vittime irlandesi. E poi l’odore aspro, che feriva le narici, del World Trade Center, ben 5 mesi dopo l’attentato alle Torri Gemelle. Ma anche la faccia allegra della guardia giurata che all’Empire State Building prese in consegna la scorta di bottiglie di vino, di birra e di gin che avevamo acquistato poco prima: «Ragazzi, che problema avete?!».
Ci siamo sentiti tutti americani, anche se per poco tempo. Già l’attacco all’Iraq, sulla base di un casus belli totalmente confezionato in laboratorio, ci avrebbe fatto ricredere. Così come tutta la politica statunitense in Medio Oriente, dove l’instabilità regna sovrana e il sogno della democrazia, che napoleonicamente si credeva possibile esportare sulla punta delle baionette, segna decisamente il passo.

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