Nei giorni scorsi i giornali hanno dato notizia della visita al carcere di Sollicciano da parte del ministro Salvini, il quale ha esercitato una prerogativa che è propria dei parlamentari e dei membri del governo. Un gesto certamente apprezzabile, che ha consentito al leader della Lega di verificare le condizioni di una struttura considerata tra le più invivibili a causa del sovraffollamento (aspetto comune alla quasi totalità delle carceri italiane) e per le criticità strutturali del penitenziario fiorentino: «Una struttura – riferisce il “Corriere della Sera” – che necessiterebbe di essere demolita e ricostruita ex novo, in quanto monolite in cemento armato che d’estate diventa un forno e d’inverno una sorta di ghiacciaia». L’alternanza forno/congelatore – è noto, ma a pochi importa – è una delle caratteristiche peculiari delle galere italiane. Bene, quindi, se la visita di Salvini può rivelarsi utile per accendere i riflettori sul dramma vissuto quotidianamente da decine di migliaia di detenuti senza volto e senza voce. Meno bene se, come maliziosamente sospetta l’Osapp (una sigla sindacale della polizia penitenziaria), Salvini abbia approfittato del suo status di parlamentare per fare visita al padre della sua compagna, Denis Verdini, non appena quest’ultimo è stato condotto nel carcere di Sollicciano dopo avere violato la misura degli arresti domiciliari alla quale era sottoposto. Prendendo a prestito La fattoria degli animali, con George Orwell verrebbe da dire che i detenuti sono tutti uguali, ma alcuni detenuti sono più uguali degli altri.
Si sa che il personaggio è volubile e, per questo, poco credibile anche quando apparentemente sostiene una giusta causa. Anche perché, in decenni di attività politica, Salvini ha sostenuto tutto e il contrario di tutto. La contraddizione, tra chi passa disinvoltamente dal sostegno ai referendum sulla giustizia all’invocazione di più reati e più carcere, è di facile lettura.
Con la sentenza Torreggiani, nel 2013 l’Europa ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti umani: «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pena o trattamento inumani o degradanti». Non ricordo iniziative di Salvini per porre fine a questo vergognoso sconcio. Ricordo invece altre uscite, rivelatrici di ben altra sensibilità sui temi del garantismo, della giustizia e dell’esecuzione della pena.
Tra le tante, la pubblicazione delle fotografie dei presunti boss e mafiosi che nella primavera del 2020 furono scarcerati, a suo dire, “con la scusa del Covid”, sull’onda della polemica sollevata dal settimanale “L’Espresso” e dal programma televisivo “L’Arena”. In seguito si sarebbe accertato che i boss scarcerati furono tre, gravemente malati: e pazienza se tra i “boss” del post di Salvini vi era anche chi invece era stato rimesso in libertà dal Tribunale della Libertà per “evidenti ragioni di inconsistenza indiziaria”.
Dal primo gennaio ad oggi nelle carceri italiane sono stati registrati 21 suicidi, ai quali vanno aggiunti 31 decessi “per altre cause”. Una vera e propria emergenza, che in generale non sembra affatto turbare il sonno dei politici del nostro Paese. Nonostante le “visite” di Salvini.
La Giornata del malato
La Giornata mondiale del malato, istituita da Giovanni Paolo II e giunta alla trentaduesima edizione, anche quest’anno è stata onorata dall’Agape con la visita agli ospiti della RSA “Mons. Prof. Antonino Messina”. Nel suo messaggio, Papa Francesco si è soffermato sulla necessità di “curare il malato curando le relazioni”: «L’esperienza dell’abbandono e della solitudine ci spaventa e ci risulta dolorosa e perfino disumana. Lo diventa ancora di più nel tempo della fragilità, dell’incertezza e dell’insicurezza, spesso causate dal sopraggiungere di una qualsiasi malattia seria. Il tempo dell’anzianità e della malattia è spesso vissuto nella solitudine e, talvolta, addirittura nell’abbandono. […] La condizione dei malati invita tutti a frenare i ritmi esasperati in cui siamo immersi e a ritrovare noi stessi. In questo cambiamento d’epoca che viviamo, specialmente noi cristiani siamo chiamati ad adottare lo sguardo compassionevole di Gesù. Prendiamoci cura di chi soffre ed è solo, magari emarginato e scartato».
Dopo la consegna del dono dell’associazione da parte del presidente Iole Luppino (un cero per la piccola cappella della struttura), i volontari hanno recitato il Santo Rosario condotto dal parroco don Marco. Con la consueta disponibilità e sensibilità, il coro parrocchiale “Cosma Passalacqua”, guidato dal Maestro Angela Luppino, ha aderito all’iniziativa accompagnando le preghiere con l’esecuzione di canti religiosi. Molto intensa ed emozionante la partecipazione attiva di alcuni anziani, tra i quali non c’era purtroppo la signora Rosa, deceduta qualche giorno prima ed alla quale la Giornata è stata dedicata.
Presso la chiesa di Sant’Ambrogio, don Marco ha infine celebrato la Santa Messa in onore dei volontari dell’Agape che continuano a vivere nel ricordo di tutti: Adelina, Anna, Marco, Antonella, Sarina.
Dietro la curva
La notte che te ne sei andato, ti ho sognato. Eri con uno dei tuoi amici più cari: alcuni mesi fa vi avevo visti insieme: non guidavi più da molto tempo ormai, e lui ti portava in giro con la macchina. Per distrarti, o soltanto per starti vicino: senza il bisogno di tante parole, con il gesto silenzioso che è il dono dei veri amici. Allora pensai a quanto amore, a quanta attenzione, a quanta delicatezza contenga il sentimento dell’amicizia. Capace di bastarsi e di brillare nel buio più nero.
Nel sogno giocavate a biliardo nella sala dell’ex cinema, cosa che credo non abbiate mai fatto. Mi sei passato davanti e a me, che ti guardavo stupito, la tua amata sorella Sara ha detto: «Lo vedi, ora sta bene». Al risveglio, ho appreso la triste notizia.
Una coincidenza. Una coincidenza come quella che ti vede raggiungere, dopo appena due settimane, un altro tuo grande amico. Due coincidenze che però fanno riflettere sulla bellezza di questo sentimento. Avevi molti amici perché sapevi farti volere bene, perché nella compagnia avevi la battuta pronta, perché la tua presenza in questi troppo pochi anni è stata discreta ma sostanziale. Io stesso ho avuto modo di sperimentarlo, quando ti sei fatto fermare davanti al bar per salutarmi, alla fine di una mia spiacevole esperienza. Non potevi scendere dall’auto, non ce la facevi già: eppure, dal tuo calvario hai pensato a me. Avevi sofferto per me e ora eri felice per me.
Hai abbracciato la Croce e l’hai portata sulla cima del Golgota, con coraggio e dignità. Senza cedimenti. L’ha abbracciata con te tua moglie Maria, infaticabile: una lottatrice dal volto gentile anche mentre il mondo le stava crollando addosso, che ha dato a tutti noi una lezione su come si possano affrontare le tempeste della vita senza perdere la tenerezza. Senza lasciarsi andare allo sconforto; senza commiserarsi. L’ha abbracciata con te Rita. I suoi occhi grandi e neri non avrebbero dovuto assorbire tutta questa sofferenza: «C’era tutto un programma futuro/ che non abbiamo avverato». Chissà. Noi, stretti dalle corde dei nostri limiti umani, non possiamo decifrare gli imperscrutabili disegni di Dio. Cosa la sua matita ha disegnato e quale sia l’interpretazione degli schizzi sul foglio.
Sappiamo però che il dolore di questi anni ha avuto il suo luminoso contraltare in un amore altrettanto grande. Quello che ha tenuto avvinghiati in un unico abbraccio te, Maria e Rita. E con voi i vostri familiari: un battito solo, le ali spiegate al di sopra delle angosce quotidiane.
Ha scritto un Poeta: «La morte è la curva della strada, morire è solo non essere visto. Se ascolto, sento i tuoi passi esistere come io esisto».
La tua vita è volata via in fretta, ma ora tu sei lì, dietro la curva della strada. Chi ti ha voluto bene sentirà ancora i tuoi passi. La vita, nei momenti decisivi, sgrossa del superfluo e riduce all’essenziale. A ciò che conta veramente: l’amore di chi ci lascia, l’amore di chi resta.
Fai buon viaggio, Cosimo
Sulla proposta di intitolazione di una piazza al dottore Giuseppe Chirico
Leggo con piacere che ieri l’Associazione culturale “Aspromonte”, per iniziativa del presidente Massimiliano Rositano, ha protocollato al comune la richiesta di intitolare una piazza di Sant’Eufemia al medico condotto Giuseppe Chirico, per tutti “Don Pepè”: nello specifico, la piazza attualmente dedicata a don Giovanni Minzoni nel rione Paese Vecchio.
Come sa bene chi segue “Messaggi nella bottiglia”, più volte io stesso ho avanzato la proposta di omaggiare la memoria di questo nostro illustre concittadino. Della valorizzazione della figura professionale e umana del dottore Chirico mi sono occupato per la prima volta nel 2001, come autore del testo per il documentario biografico realizzato dalla Pro Loco, in occasione dell’assegnazione (“alla memoria”) del “Premio Solidarietà – Ginestra”. In qualità di consigliere comunale di minoranza, il 16 ottobre 2017 ho proposto l’istituzione di una commissione toponomastica, per la quale con delibera C.C. 42/2017 del 27 novembre 2017 è stato approvato il regolamento. Il 27 giugno 2018 ho poi protocollato la proposta di intitolazione della pineta comunale a Giuseppe Chirico (con allegata la relazione richiesta ai sensi dell’art. 9, comma 3).
Nel mio ultimo libro ho dedicato un paragrafo alla biografia di Giuseppe Chirico, che considero tra i migliori figli di Sant’Eufemia, mentre in ultimo, il 24 agosto 2023, ho indirizzato all’attuale sindaco Pietro Violi una lettera aperta, nella quale riprendevo la mia vecchia proposta e allargavo il ventaglio delle possibilità aggiungendo alla pineta comunale altri due spazi pubblici: la piazzetta accanto al monumento dei caduti, attualmente priva di denominazione, oppure – ipotesi molto suggestiva – uno dei due lati in cui corso Umberto I divide piazza don Minzoni, laddove si svolgevano le passeggiate serali del dottore Chirico, rievocate dal professore Giuseppe Calarco proprio nel documentario realizzato dalla Pro Loco.
Personalmente concordo con la posizione della Deputazione di Storia Patria per la Calabria, che è contraria alla sostituzione dei nomi di piazze e vie, per cui propenderei per l’ultima opzione, che non comporterebbe la cancellazione del vecchio toponimo.
Va anche detto che, nel 2002, al dottore Chirico era stato intitolato il Centro semiresidenziale di riabilitazione di Sant’Eufemia d’Aspromonte, che ha chiuso i battenti nel 2016. Tuttavia, negli stessi locali dovrebbe prossimamente sorgere una casa di comunità, da realizzare con i fondi del Pnrr assegnati alla provincia di Reggio Calabria. Al momento non sappiamo cosa ne sarà della denominazione: se cioè sarà mantenuto anche dalla nuova struttura. Ad ogni modo, tutte le alternative elencate mi sembrano valide e meritevoli di essere sottoposte all’attenzione dei nostri amministratori.
Pino Fedele, da oltre sessant’anni la voce di Sant’Eufemia per la “Gazzetta del Sud”
Era il 20 aprile 1966 e un tiepido sole accoglieva il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat nel secondo dei quattro giorni di visita ufficiale in Calabria, presso il Mausoleo garibaldino. Con lui, anche l’allora vicepresidente della Camera dei deputati e futuro inquilino del Colle, Sandro Pertini. Un fiume di persone si radunò nel bosco in cui l’eroe dei due mondi era stato ferito più di un secolo prima: in testa, il sindaco Diego Fedele, da un mese sindaco e al primo dei tre mandati al timone dell’amministrazione comunale di Sant’Eufemia d’Aspromonte (i primi due consecutivi, dal 31 marzo 1966 al 5 febbraio 1976; il terzo, dal 2 dicembre 1981 al 29 maggio 1985).
Una fotografia di quella memorabile giornata ritrae accanto a Saragat e a Fedele un giovane cronista, di lì a poco vincitore del Premio “Petronio”, assegnato all’uomo più elegante nel corso dell’annuale festa che l’Associazione dei sarti organizzava in piazza Municipio. Al tempo Pino Fedele, storico corrispondente da Sant’Eufemia, già da diversi anni collaborava con la “Gazzetta del Sud”, giornale per il quale continua a scrivere, con la sua proverbiale scrupolosità, anche oggi che – da pochi mesi – ha scollinato gli ottanta.
E pensare che aveva iniziato per caso. Era ancora uno studente quando un suo professore, collaboratore della “Gazzetta” come cronista sportivo, gli chiese di sostituirlo dopo il litigio avuto con l’allenatore della squadra di calcio del paese. Per qualche anno l’insegnante firmò così gli articoli scritti da Pino Fedele, il quale in seguito ottenne dal giornale l’incarico ufficiale. Quasi contemporaneamente assunse anche l’incarico di corrispondente per il quotidiano nazionale “Il Tempo”, che dedicava alcune pagine proprio alla cronaca dalla Calabria.
Più di sessant’anni di parole dettate alla redazione (quando gli articoli venivano trasmessi telefonicamente), di ticchettio dei tasti della macchina da scrivere per la stesura del pezzo da inviare con il fax, di file word da inoltrare in allegato via mail.
Il lavoro del corrispondente locale è preziosissimo per la comunità. Lo era senza dubbio in misura maggiore nel passato, quando – prima dell’avvento dei social e dei giornali online – era il mezzo che consentiva ai piccoli comuni di uscire fuori dai propri angusti confini, offrendo una ribalta più vasta. Per questo, l’autore degli articoli godeva di una certa autorevolezza. Finire sul quotidiano dava prestigio a fatti e persone: iniziative politiche, attività delle associazioni, eventi e protagonisti della vita locale. «L’ho letto sulla Gazzetta» era il timbro che conferiva rilevanza a ciò che avveniva in posti sperduti.
A Pino Fedele va riconosciuto il merito di svolgere da oltre sei decenni una funzione sociale rilevantissima con i suoi pezzi di cronaca, i suoi resoconti, le sue segnalazioni: «I miei articoli – dichiara – sono sempre frutto delle mie conoscenze dirette, delle mie percezioni personali e del convincimento che sta alla base di ciò che scrivo, al di là di ogni possibile condizionamento. La finalità è portare a conoscenza di quanti mi leggono le novità e le positività qualificanti che affiorano nell’ambito paesano e nei dintorni».
Prima di andare in pensione conciliava l’attività di giornalista (per molti anni è stato anche capo redattore della rivista “Incontri”, edita dall’Associazione culturale Sant’Ambrogio) con l’impiego presso l’Ufficio agricolo di zona, oltre che con altri impegni. Fondatore e presidente dello Sci Club di Sant’Eufemia all’inizio degli anni ’90, nel 1997 socio fondatore e a lungo segretario della Pro Loco, è tutt’ora delegato di zona dell’AIL e presidente della sezione eufemiese dell’ADSPEM. Uomo di grande fede, dalla metà degli anni Sessanta occupa con tenacia il suo posto di portatore della statua dell’Addolorata nella tradizionale Processione dei Misteri e, tra gli incontri più significativi della sua vita, conserva quello con Giovanni Paolo II in occasione della beatificazione di Padre Annibale di Francia, che a Sant’Eufemia lasciò tracce del suo apostolato con la fondazione, nel 1915, dell’Istituto antoniano delle Figlie del Divino Zelo.
Frugando nel cassetto dei ricordi, mi rivedo venticinquenne a bordo della sua mitica Ford Escort azzurra, destinazione Delianuova, dove entrambi (io per “Il Quotidiano della Calabria”, lui per la “Gazzetta del Sud”) seguivamo la Deliese negli anni d’oro della permanenza in Eccellenza e in Serie D.
Credo che uno dei segreti della sua curiosità intellettuale e della sua perseveranza sia l’applicazione quasi ossessiva nella risoluzione di cruciverba e sudoku, suo vero grande hobby. Per questo l’augurio è che possa continuare ancora a lungo ad incrociare parole e numeri.
*Foto: collezione privata di Rosa Fedele
Tutti colpevoli
Nell’indifferenza generale, è di oggi la notizia del nono suicidio dall’inizio del 2024 nelle carceri italiane, ventitreesimo decesso se sommato ai quattordici “per altre cause”. Uno al giorno in quella che è, ormai da tempo, una contabilità drammatica: 157 morti nel 2023 (69 suicidi, più 88), 171 nel 2022 (84 più 87).
Questi freddi numeri dovrebbero spingere la politica ad intervenire, ma la sensazione è che la situazione dei penitenziari sia vissuta con un fastidio generale. Il lato buio della luna non interessa a nessuno e chi solleva la questione – per senso di umanità o semplicemente perché sa di cosa parla – nella migliore delle ipotesi è considerato un idealista; nella peggiore, un colluso della “feccia umana” che popola le nostre carceri.
Non ci sono distinguo che tengano. Detenuti psichiatrici che non dovrebbero stare in carcere, ma da qualche altra parte? Balle. Lo sanno tutti che molti detenuti si fingono pazzi pur di ottenere qualche beneficio o sconto di pena. E pazienza se Matteo si è impiccato, mantenendo la promessa fatta ai familiari. Malati? Ancora balle. La gente è capace di tutto pur farla franca: anche inventarsi una qualche patologia utile per ottenere la certificazione di incompatibilità con il regime carcerario. Tossicodipendenti? Peggio per loro, avrebbero dovuto tenersi alla larga da certa robaccia.
Un detenuto fragile ha molte ragioni per togliersi la vita e pochissime per tentare di restarvi aggrappato. La dignità calpestata quotidianamente, in una situazione di oggettiva spersonalizzazione che inizia non appena varca il cancello del carcere. Il recluso è un numero di matricola, un pacco senza voce. Ciò che era “fuori” rimane un ricordo lontano, da sopprimere per non impazzire. Deve adattarsi alla nuova realtà, e farlo in fretta. Altrimenti non potrebbe resistere alle ispezioni corporali e alla perdita della sua intimità, alla guardia che dallo spioncino lo osserva mentre è sotto la doccia in mutande o gli punta la torcia contro la testa sul cuscino, nel cuore della notte. Né potrebbe accettare la convivenza con altri quattro, cinque o più detenuti in pochi metri quadrati: uno spazio talmente angusto da non riuscire a stare tutti in piedi contemporaneamente. Non potrebbe resistere a muffa e umidità, all’acqua sporca del rubinetto, al gelo dell’inverno e all’afa dell’estate, alla frutta immangiabile.
Nessuno ascolta l’uscente garante nazionale delle persone private della libertà, quando snocciola i dati della vergogna e denuncia lo spaventoso sovraffollamento penitenziario: 60.382 persone, a fronte di una capienza effettiva di 47.300 posti disponibili.
Nessuno ascolta Rita Bernardini e Roberto Giachetti, quando iniziano lo sciopero della fame (il “Grande Satyagraha”: il digiuno introdotto da Gandhi come forma di lotta non violenta), dando seguito a quanto deliberato nel dicembre scorso dal X congresso di Nessuno Tocchi Caino.
L’Italia è il Paese delle emergenze a favore di telecamere. In carcere le telecamere non ci entrano e ciò che non si vede non esiste. Nessuno ascolta, nessuno vede. Ma non per questo si è meno colpevoli.
Venticinque anni dopo, la stessa voglia di pioggia
Il mio incontro con Fabrizio De André è avvenuto intorno ai tredici anni. Merito del professore Saverio Garzo, che d’estate caricava di ragazzini la sua BMW 316 e li portava al mare. Tra le musicassette che facevano da colonna sonora durante il viaggio, una raccolta di canzoni di De André, che così entrò nella mia vita. Pochi anni dopo ricevetti come regalo per il mio compleanno il vinile di “Tutti morimmo a stento”, concept album del 1968 che parla della “morte psicologica, morale, mentale, che un uomo normale può incontrare durante la sua vita”. Sulla scena musicale italiana fanno il loro ingresso drogati, assassini, impiccati; per la prima volta un cantautore affronta il tema della pedofilia (“Leggenda di Natale”). Ritratti di personaggi derelitti, abbandonati ai margini della società, sui quali sin dall’inizio della carriera De André posa lo sguardo riconoscendo loro dignità e il diritto ad una possibilità: quella di “consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità” (“Smisurata preghiera”). In loro il cantautore genovese intravede l’altra faccia della luna, in loro trova il bagliore di una tragica grandezza. Siano essi ladri, prostitute, travestiti, criminali: se non proprio gigli, in fondo vittime di questo mondo (“La città vecchia”). Compresi i suicidi, ai quali al tempo era negata anche l’umana pietà: «Di un omicidio – scriverà – sono responsabili soltanto gli autori del crimine ed eventualmente i loro mandanti; di un suicidio, invece, è generalmente responsabile tutta la società o almeno quella microsocietà che lo ha reso possibile».
Subito dopo acquistai il doppio album del concerto del 1979 con i brani arrangiati dalla Premiata Forneria Marconi. Una contaminazione riuscitissima, che raggiunge l’acme nell’interpretazione chitarristica di “Amico fragile” proposta da Franco Mussida.
Dietro le canzoni di Fabrizio De André c’è uno studio gigantesco, una ricerca continua e originale tra le culture non soltanto musicali del suo tempo. Georges Brassens e l’anarco-individualismo nella primissima fase della sua carriera. I vangeli apocrifi studiati per raccontare nell’album “La buona novella” la vicenda del “più grande rivoluzionario di tutti i tempi” attraverso la voce degli esclusi dalla storia ufficiale, come il ladrone Tito, che in punto di morte “nella pietà che non cede al rancore” impara l’amore.
Genova e il Mediterraneo crocevia di culture e di sonorità sublimate nel capolavoro assoluto “Crêuza de mä”. E ancora: il ’68 e la contestazione in “Storia di un impiegato”, con la maturazione della convinzione che non esistono poteri buoni, l’esperienza collettiva del carcere e l’anatema “per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti”. Edgar Lee Masters e la sua “Antologia di Spoon River” tradotta da Fernanda Pivano in “Non al denaro, non all’amore né al cielo”: la dimostrazione che musica e letteratura possono fondersi senza perdere in bellezza, forza, profondità. E chissà se sulla collina De André ha finalmente incontrato il matto che nella penombra inventa parole. Il parallelismo tra popolo sardo e nativi americani nell’album dell’indiano, con l’esperienza autobiografica del sequestro di persona del quale fu vittima insieme a Dori Ghezzi, nella struggente “Hotel Supramonte”. Le collaborazioni con Giuseppe Bentivoglio, Francesco De Gregori, Massimo Bubola, la Premiata Forneria Marconi, Nicola Piovani, infine Ivano Fossati nell’ultimo straordinario lavoro, “Anime salve”. Ancora un viaggio – l’ultimo – denso di suggestioni, per dare voce a chi viaggia in direzione ostinata e contraria, ma anche la premonizione dell’imminente congedo nel sibillino “mi sono visto che ridevo/ mi sono visto di spalle che partivo”.
Come le nuvole di un altro suo fortunato brano, anche Fabrizio De André sta tra noi e il cielo, va, viene e ogni tanto si ferma, come per darci un riferimento, una chiave di lettura su ciò che nel mondo accade. Senza che, venticinque anni dopo, sia minimamente diminuita la voglia di pioggia che la sua scomparsa ci ha lasciato.
La sedia vuota
Ci sono assenze che non riusciamo ad accettare, ma abbiamo imparato a convivere con le sedie vuote, riempendo d’amore l’aria rarefatta e la nebbia del ricordo. Pazienza se fino ad un certo punto sembrava tutta discesa, una corsa senza freni verso un traguardo qualsiasi, reale o immaginario. Ma comunque a portata di mano. Così almeno credevamo. Come quando dai nostri pochi anni guardavamo al 2000, lontanissimo. Chissà cosa saremmo stati e dove. Cosa avrebbe portato. Poi di colpo il 2000 è arrivato e non ce ne siamo neanche accorti. Tanto che stiamo per planare sul 2024. Per certi aspetti senza averci capito molto, sballottati dalle onde del tempo. Impegnati a tenere la testa a pelo d’acqua. Per non affogare. Oppure, avendoci capito fin troppo. Su come gira e su quanto la vita sappia essere sorprendente, nel bene e nel male. Individuando la chiave di senso proprio in questa imprevedibilità, che richiede riflessi e spirito di adattamento. Che non è rassegnazione, ma consapevolezza che la vita è questa, e tocca viverla oggi. Alzando un altare agli attimi di felicità, abbracciando il dolore per addomesticarlo. Anche se l’ieri ha fatto di noi ciò che adesso siamo; anche se il domani è la tensione che dà linfa alle nostre idee, alle nostre azioni. Potremo essere migliori o peggiori, dipende da noi ma non soltanto da noi. Perché con gli altri e con le circostanze bisogna farci i conti: «È tutto un complesso di cose/ che fa sì che io mi fermi qui», suggerisce il poeta. Prendere atto dello scarto tra aspettative e realtà mi sembra già un buon punto di partenza. Un compromesso onorevole con la propria coscienza è il fondamento della pacificazione con sé stessi. E solo se si è in pace con sé stessi si può vivere in pace con il mondo, trovarci residenza. Qui e ora.
Buon anno a tutti
E non è forse questo sistema carcerario una pena di morte più lenta e ipocrita?
Secondo il dossier “Morire di carcere”, costantemente aggiornato da Ristretti Orizzonti, ad oggi sono 68 i suicidi registrati in carcere nel 2023: il secondo dato più alto dal 1992, dietro soltanto alla cifra monstre del 2022, quando furono 84 i detenuti che decisero di farla finita impiccandosi con le lenzuola o inalando il gas delle bombolette dei fornelli da campeggio che si utilizzano per cucinare. Un dato drammatico, al quale vanno aggiunti gli 87 decessi per “altre cause” di soggetti anziani, malati di tumore, cardiopatici, tossicodipendenti. In totale, 155 morti “di carcere”: uno ogni due giorni e qualcosa.
Il “custos” non sa custodire. Il sovraffollamento e la penuria di figure professionali (psicologi, educatori, personale sanitario) non aiutano, né solleva il morale dei detenuti più fragili la quotidiana offesa alla dignità umana, che può manifestarsi con la mancanza d’acqua, il caldo insopportabile d’estate e il freddo gelido d’inverno, la sospensione delle attività trattamentali nei periodi festivi, alcune sadiche assurdità regolamentari.
Sulla carta, in Italia la pena di morte è stata da tempo abolita. Ma la pena che si sconta nei penitenziari fino a quando non sopraggiunge la morte, è soltanto una versione più ipocrita della pena di morte tradizionale. La sostanza non cambia.
Tra il 25 febbraio e il 16 settembre 2020, ho scritto molto. Il brano che segue risale alla metà del mese di luglio, quando un detenuto si tolse la vita nel carcere di Santa Maria Capua Vetere:
«Appuntato! Appuntato!». Sono le 22.00, nelle celle molti detenuti già dormono. Si sentono rumori fortissimi, come di una battitura in corso nel reparto dei “comuni”, nel plesso di fronte alle nostre finestre. Già due giorni fa si era verificato un episodio del genere, in tarda mattinata, quando lo stesso detenuto aveva tentato di impiccarsi utilizzando come cappio un lenzuolo annodato alle sbarre della finestra. Questa volta pare abbia raggiunto il suo scopo.
«Vergogna! Vergogna!», il grido che squarcia il buio della notte. Le guardie tardano ad intervenire, ma la protesta è indirizzata contro la mancata adozione di precauzioni nei confronti di un povero cristo che aveva già tentato il suicidio: ad esempio, assegnandogli un “piantone” per la sorveglianza e per l’assistenza. Ma sono le voci di “radio carcere”, che non posso verificare. Quel che è certo è che lo sventurato è riuscito a concretizzare il proposito suicida.
Le urla e la battitura durano una ventina di minuti, poi tra i reparti cala un silenzio di piombo. La nostra è una rabbia impotente che non può superare la recinzione del carcere.
Nessuno ascolta, nessuno può ascoltare. Neanche se si è in mille a gridare, a percuotere le scodelle, a scaraventare le brande contro il “blindo”. I detenuti sono fantasmi invisibili, le loro voci sono destinate a spegnersi nel buio. D’altronde esiste una ragione ben precisa se la stragrande maggioranza delle strutture penitenziarie sono state costruite nelle periferie delle città, in luoghi isolati che dimostrano plasticamente la distanza tra il dentro e il fuori. Sottrarre il carcere alla vista della popolazione libera rassicura sul fatto che il “male” si può circoscrivere e isolare. Quello che vi accade dentro e la sofferenza gratuita che produce non oltrepassano la recinzione: «Occhio non vede, cuore non duole».
Il giorno dopo, nessuno dice niente: né i detenuti, né tantomeno gli agenti penitenziari. Forse nel carcere subentra davvero l’abitudine, l’assuefazione alla morte. E comunque, per l’amministrazione penitenziaria, meno se ne parla, meglio è.
«Lo avevan perciò condannato/ vent’anni in prigione a marcir/ però adesso che lui s’è impiccato/ la porta gli devono aprir». Ripenso inevitabilmente ai versi della “Ballata del Michè”, alle lenti speciali che consentivano a Fabrizio De André di guardare con pietà a quest’umanità derelitta.
Link: E non è forse questo sistema carcerario una pena di morte più lenta e ipocrita? (ildubbio.news)
Il Natale di solidarietà dell’Agape
Venerdì 29 dicembre, presso la sala ricevimenti “Cagnolino”, avrà luogo il tradizionale veglione di fine anno che conclude le iniziative del “Natale di solidarietà” dell’Agape.
Le attività dell’associazione presieduta da Iole Luppino hanno avuto inizio il 2 dicembre, con la consegna alla RSA “Prof. Mons. Antonino Messina” di un albero di Natale che dopo le festività sarà messo a dimora nel giardino. I volontari dell’associazione, insieme alle operatrici e agli ospiti della struttura, in un clima di partecipata condivisione hanno poi recitato il Santo Rosario in onore dell’Immacolata.
La realizzazione della seconda iniziativa è stata resa possibile grazie alla sensibilità del coro parrocchiale “Cosma Passalacqua”, con il quale da tempo l’Agape organizza presso la RSA “Messina” momenti di intrattenimento musicale. Con l’accompagnamento del coro, sono stati infatti intonati i canti della tradizione natalizia, eseguiti al ritmo del battito delle mani e con il coinvolgimento degli anziani della struttura, alcuni visibilmente emozionati.
Qualche giorno fa i volontari hanno invece fatto visita ai partecipanti alla colonia estiva per scambiare gli auguri e per consegnare un regalino da mettere sotto l’albero.
L’evento del 29 dicembre non è soltanto l’occasione per trascorrere una serata in allegria tra giochi, canti e balli. Tutte le attività dell’associazione, a cominciare dalla colonia estiva che è quella economicamente più dispendiosa, sono infatti finanziate con il ricavato della tombolata di fine anno. Per questo è importante partecipare. L’Agape è sostanzialmente uno strumento a disposizione del territorio (non l’unico, ovviamente), che consente alla nostra generosa comunità di dare un contributo concreto per la realizzazione di iniziative di solidarietà.
Vi aspettiamo!