Piazza Aid Committee, o della memoria cancellata

Da ragazzino mi è capitato spesso di giocare a calcio con altri miei coetanei in uno spiazzo denominato “piazza Aid Committee”. Per noi che trascorrevamo ore ed ore nella “nostra” piazza, quella intitolata a Giacomo Matteotti, era una soluzione di ripiego da adottare quando l’altra ci veniva preclusa, per i più svariati motivi. Finivamo così per arrangiarci un isolato più in alto, nell’area sottostante la chiesa di Sant’Ambrogio.
Ogni tanto qualcuno di noi si chiedeva il perché di quel nome, senza mai riuscire a risolvere il mistero di quelle due parole straniere.
Oggi piazza Aid Committee non esiste più: una ventina d’anni fa venne ristrutturata e ribattezzata “piazza maresciallo Azzolina”, in ricordo del servitore della patria e buon padre di famiglia ucciso nei pressi della fontana “Pirina” il 17 giugno 1996. Una decisione saggia, quella dell’amministrazione comunale del tempo, che così intese onorare il sacrificio del comandante della stazione dei carabinieri di Sant’Eufemia.
Ma la memoria non si coltiva seppellendo altra memoria. Su questo punto la Deputazione di Storia Patria per la Calabria ha una posizione chiara, purtroppo ignorata da chi si occupa della toponomastica delle città. Ogni toponimo ha una sua “storia”, racconta un’emozione, testimonia valori condivisi che fanno di una massa di persone una comunità. Per queste ragioni, la Deputazione è contraria alla sostituzione dei vecchi toponimi.
Un accorgimento di buon senso sarebbe il mantenimento dell’antica denominazione accanto alla nuova (nel caso specifico: piazza maresciallo Azzolina, già piazza Aid Committee), come pure da qualche parte accade. Non è il caso nostro.
In genere la sostituzione di un toponimo è frutto dell’emozione del momento o dell’esito di un processo storico, che sempre annovera vinti e vincitori. Tutta la toponomastica fascista, alla caduta del regime, è stata infatti cancellata e sostituita con quella democratica.
Io, che considero l’antifascismo il valore fondante della Repubblica italiana, non sono tuttavia convinto della bontà di questa scelta. Non ne sono convinto perché il Ventennio, con i suoi drammi e con i suoi crimini, fa parte della storia di questo Paese ed è illusorio pensare di poterlo cancellare o fare finta che non sia esistito.
Due esempi. Il gerarca fascista Maurizio Maraviglia nel 1926 aveva presenziato ad uno dei momenti più alti della storia di Sant’Eufemia: l’inaugurazione del palazzo comunale costruito dopo il terremoto del 1908 e l’apertura del nuovo acquedotto. La via dedicatagli – successivamente intitolata a Giovanni Amendola – ricordava quindi l’opera di ricostruzione attuata dal governo nazionale, ma anche ciò che quest’opera simboleggiava: il riscatto di un popolo che letteralmente si risollevava dalle macerie.
Il genovese Giacomo Chiuminatto era stato invece titolare della ditta che realizzò la galleria e il ponte in ferro della linea taurense (la vecchia “littorina”). Perché cancellarne il nome, tra l’altro sopravvissuto nel sentire comune grazie alla locuzione “poti quantu o cavaddu i Chiuminatto” (riferito a persona forte, come lo erano i cavalli da tiro utilizzati dalla ditta per il trasporto del materiale da costruzione)?
Analoga sorte è toccata a piazza Aid Committee, che onorava la storia di straordinaria generosità degli emigrati eufemiesi negli Stati Uniti costituitisi in comitato di aiuti a beneficio della propria terra di origine, nel 1966. Presidente del comitato era il commendatore Vincenzo Ascrizzi, il quale a ventitré anni (nel 1927) era giunto a Brooklyn con un diploma di ragioniere in tasca. Qui aveva lavorato alle dipendenze della Bank of America e della National City Bank, era stato manager della Sunland Beverage Company e infine (1947) aveva aperto un’agenzia di viaggi che negli anni ’60 contava circa venti dipendenti. Ascrizzi, che fu membro di diverse organizzazioni benefiche (tra queste, la Boys Town of Italy), ricevette numerosi riconoscimenti per la sua attività filantropica: nel 1963, il presidente della Repubblica Antonio Segni gli conferì la “Stella della solidarietà di seconda classe” e il titolo di commendatore; nel 1965 fu nominato cavaliere dell’Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme; nel 1968 il Vaticano lo elevò al grado di cavaliere di Gran Croce.
L’elenco delle opere benefiche realizzate a Sant’Eufemia grazie alla raccolta di fondi del comitato è imponente: ristrutturazione delle chiese di Santa Maria delle Grazie, Sant’Eufemia, Purgatorio e Sant’Ambrogio (alla quale fu anche donato un terreno); fondi destinati alla scuola media, alla realizzazione di un “primo lotto di strade interne” e del “primo lotto della rete idrica esterna”; l’acquisto di un’autoambulanza Fiat; aiuti annuali all’Orfanotrofio antoniano femminile.
L’Aid Committee ha rappresentato per anni il volto migliore della nostra emigrazione. Un filo ideale tiene unite persone distanti migliaia di chilometri e le fa sentire comunità, protagonisti di una storia condivisa e di un destino comune. Piazza Aid Committee ricordava una bella pagina di solidarietà tra fratelli lontani, che non andava assolutamente cancellata.

*In foto, le insegne dell’Ordine della Stella della Solidarietà Italiana (oggi denominato “Ordine della Stella d’Italia”)

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L’eufemiese Ferdinando De Angelis Grimaldi e i moti del 1848

La partecipazione eufemiese ai moti del 1848 è legata indissolubilmente all’opera di Ferdinando De Angelis Grimaldi, figlio di Tommaso e Caterina Violi, nato a Sant’Eufemia il 10 settembre 1787. Già volontario nell’esercito borbonico nei primi anni dell’Ottocento, De Angelis Grimaldi aveva poi proseguito la carriera militare sotto il regno di Giuseppe Bonaparte e con Gioacchino Murat, al servizio del quale il 23 aprile 1815 partecipò alla “battaglia di Radicena e Casalnuovo” contro briganti e borbonici, che si concluse con un bilancio di 53 morti e 150 feriti. Dopo il ritorno dell’ancien régime rientrò tra i ranghi del restaurato esercito borbonico, come attesta la qualifica di “capitano onorario” annotata nell’Almanacco reale del Regno delle Due Sicilie per l’anno 1819.
Esponente di punta dei liberali moderati a Sant’Eufemia, fu sindaco dal 1837 al 1842, successivamente “capo urbano” e, dal 1848, capo della Guardia nazionale del comune. Nel biennio 1847-1848 svolse un ruolo di primo piano per la causa risorgimentale, attestato dalla corrispondenza con i promotori reggini dei moti, in particolare con i fratelli Romeo di Santo Stefano, dai quali ricevette l’incarico di comporre la cosiddetta “lista di insorgenza”, un elenco di uomini disposti ad unirsi alle squadre degli insorti.
De Angelis Grimaldi si muoveva nell’alveo del riformismo costituzionale borbonico, fautore dell’evoluzione in senso liberale della monarchia di Ferdinando II. Una finalità che niente aveva a che vedere con la jacquerie del 13 maggio 1848, quando a Sant’Eufemia i rivoltosi occuparono il municipio, deposero il sindaco Antonino Lupini e tentarono di dare fuoco ai registri della fondiaria. In quella circostanza, fu proprio l’intervento di De Angelis Grimaldi e delle sue guardie urbane a ristabilire l’ordine nello spazio di due giorni.
Il giro di vite imposto dal governo borbonico con il “colpo di stato” del 15 maggio, fece però mutare la natura della rivolta. A Reggio Calabria presero l’iniziativa i fratelli Plutino, Stefano Romeo e Casimiro De Lieto, i quali organizzarono il quartier generale del comitato reggino sui “Piani della Corona”. Il 19 giugno circa 150 insorti furono accolti a Sant’Eufemia da De Angelis Grimaldi, il quale li condusse nei paesi limitrofi per il reclutamento di altri volontari. Il proclama emesso il 24 giugno a Santa Cristina e rivolto ai “Fratelli Calabresi” ribadiva ancora il carattere costituzionale e liberale dell’insurrezione, nel solco del neoguelfismo giobertiano: «Rispettate la religione cristiana, e gridate con voce unanime: vogliam conservata la costituzione, colle modifiche che i nostri rappresentanti saran per fare». Ma, già il giorno dopo, un altro proclama sanciva lo strappo definitivo da Ferdinando II: «È rotto ogni vincolo tra il tiranno e il popolo […]. Il Borbone siede sopra un trono lavato di sangue e i Calabresi questa volta non sono indulgenti come prima ai di lui vantaggi».
La tipografia degli insorti fu allestita a Sant’Eufemia presso l’abitazione dei fratelli Pietro e Paolo Parisi. Alla fine del giro tra i paesi aspromontani, circa 500 volontari costituirono un “Comitato provvisorio di pubblica sicurezza”, presieduto da Casimiro De Lieto: Plutino e Romeo furono nominati segretari, Pasquale Cuzzocrea cassiere; a De Angelis Grimaldi fu invece affidato il comando della Terza divisione dell’esercito calabro-siculo.
Il bollettino diramato il 28 giugno spiegava l’obiettivo dell’insurrezione: «I Deputati qui sottoscritti, tenuta presente la protesta fatta dal Parlamento alli 15 maggio ultimo, ed atteso l’urgente bisogno di tutelare la libertà nazionale contro un governo violatore manifesto dello statuto fondamentale e provocatore dell’anarchia e della guerra civile, han risoluto di riunirsi qui in Sant’Eufemia nella Casa Comunale in Comitato permanente di pubblica sicurezza per la provincia di Reggio Calabria. […] Questo Comitato prende sotto la sua tutela la conservazione dell’ordine pubblico, la sicurezza dei cittadini e della proprietà e il rispetto delle leggi».
Un cannone, armi e munizioni furono trasportate al campo militare. Tuttavia, la compagnia di De Angelis Grimaldi non prese parte ad alcuna operazione, anche perché i rinforzi attesi dalla Sicilia non arrivarono. Gli insorti tentarono di congiungersi con il reparto catanzarese a Monteleone, ma lungo la strada furono avvisati della vittoria borbonica nella battaglia dell’Angitola. De Angelis Grimaldi decise quindi di sciogliere l’accampamento, accompagnò un’ottantina di volontari siciliani a Bagnara per farli da lì imbarcare e infine si diede alla macchia sull’Aspromonte con pochi fedelissimi, tra questi i nipoti Filippo e Saverio. Condannato a morte nel 1849, unico tra i patrioti eufemiesi, riuscì a riparare all’estero: prima a Marsiglia, poi a Mentone. Subirono gravi condanne anche i tre fratelli Visalli: diciannove anni di carcere Paolino e Ottaviano (papà dello storico Vittorio), sette Vincenzo. Una condanna di diciannove anni fu inoltre comminata a Francesco Pentimalli, Pietro e Antonino Parisi. Per tutti gli altri (una trentina), le pene oscillarono tra i tre e i sette anni.
De Angelis Grimaldi rientrò in Italia nel 1862, a processo di unificazione nazionale completato. Nel 1865 fu a un passo dalla candidatura per il Parlamento nazionale, che non si concretizzò nonostante le informazioni positive raccolte dal prefetto di Reggio Calabria. Già vecchio e malato fu invece eletto consigliere comunale a Sant’Eufemia. Morì nella sua abitazione in via Belvedere l’11 agosto 1868, “venerato e compianto”, secondo quanto riportato da Vittorio Visalli nel suo I Calabresi nel Risorgimento italiano.

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Una pillola di Faber

Il mio “incontro” con Fabrizio De André è stato molto precoce, intorno ai tredici anni. Merito del professore Saverio Garzo, che d’estate caricava di ragazzini la sua BMW 316 e li portava al mare. Tra le musicassette che facevano da colonna sonora per il viaggio, una raccolta di canzoni di De André, che così entrò nella mia vita. Pochi anni dopo ricevetti come regalo per il mio compleanno il vinile di Tutti morimmo a stento e, successivamente, il doppio album del live con la Premiata Forneria Marconi.
“Faber” ha una grande responsabilità sulla mia formazione. Ci sono i libri letti e le persone conosciute, le esperienze fatte, certo. Ma c’è anche lo sguardo di De André sugli ultimi, la sua capacità di offrire sempre una visione del mondo diversa da quella “ufficiale”, l’umanità dei ritratti di derelitti che la società spinge ai margini, non vuol vedere o – peggio ancora – condanna in virtù di una presunta morale della quale è depositaria il Potere: ladri, prostitute, travestiti, drogati, assassini.
Dietro le canzoni di Fabrizio De André c’è uno studio gigantesco, una ricerca continua e approfondita, originale, delle culture non soltanto musicali del suo tempo. Georges Brassens e l’anarco-individualismo nella primissima fase della sua carriera. I vangeli apocrifi studiati per raccontare nell’album La buona novella la vicenda del “più grande rivoluzionario di tutti i tempi” attraverso gli occhi degli esclusi: un’operazione che porta i personaggi del Vangelo a perdere un po’ di sacralizzazione “a vantaggio di una loro maggiore umanizzazione” e che si manifesta clamorosamente in quella sorta di antidecalogo che è Il testamento di Tito: «nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore».
Genova, la Sardegna, infine il Mediterraneo crocevia di culture e di sonorità sublimate nel capolavoro assoluto Crêuza de mä. E ancora: il ’68 e la contestazione in Storia di un impiegato; Edgar Lee Masters con la sua Antologia di Spoon River tradotta da Fernanda Pivano in Non al denaro, non all’amore né al cielo, una contaminazione tra generi che dimostra come la musica e la letteratura possono fondersi senza perdere bellezza, forza, profondità. Le collaborazioni con Giuseppe Bentivoglio, Francesco De Gregori, Massimo Bubola, la Premiata Forneria Marconi, Nicola Piovani, Ivano Fossati nell’ultimo straordinario lavoro, Anime salve: ancora un viaggio – l’ultimo – denso di suggestioni, per riuscire a dare voce a chi “viaggia in direzione ostinata e contraria” e per riconoscere a tutti la possibilità di “consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità”. Ma anche la premonizione dell’imminente congedo nel sibillino “mi sono visto che ridevo/ mi sono visto di spalle che partivo”, nella canzone che dà il nome all’album.

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Il tempo della neve

Il tempo della neve è un tempo sospeso. Il sogno di una notte calma, che consegna al risveglio una sensazione di leggerezza. Una parentesi candida che placa la fatica del vivere quotidiano. Un ricordo lontano e rinnovato, piacevole come tutti i bei ricordi. Un mantello di serenità.
Sono io a quattro anni insieme ai miei fratelli, lo stupore per la scoperta incredibile fatta da tre bambini appena arrivati dall’Australia, il pianto incredulo: «la neve è fredda, non mi sento le mani!». È Mario incollato con il naso al vetro della finestra notti intere, incantato dalla magia dei fiocchi silenziosi.
Forse è vero che quando nevica si torna bambini, ma di certo non fa male allo spirito mangiare neve, ciucciare ghiaccioli o fare di una carota un naso.
Il mondo sembra fermarsi, i minuti dilatarsi nell’illusorio desiderio di sospingere più in là la ripresa della normalità. Si vive di fretta, inseguendo sempre qualcosa, con la dannata ossessione di arrivare da qualche parte. Come se arrivare fosse lo scopo: arrivare dove, poi.
La neve e la fretta sono invece antitetiche. La neve non può andare d’accordo con la frenesia di chi vorrebbe la strada pulita dopo un’ora. Nell’era dei social, una nevicata può essere l’ottava meraviglia del mondo o una calamità naturale di dimensioni bibliche. Tutto diventa eccessivo e drammatico, bello e ipocrita. Spesso falsato dal protagonismo di chi racconta o documenta: d’altronde informazione e social network sono evidentemente in una situazione di pericoloso corto circuito.
La lezione che la neve indica a noi affannati e distratti viandanti può riassumersi nel bisogno di sintonizzarsi sulla stessa frequenza della natura, liberandosi dalle zavorre mentali che non ci permettono di godere delle piccole cose. Ad esempio, camminare con la sola compagnia del silenzio, il passo lento che soltanto consente di conoscere un posto, di notare particolari di uno scorcio non apprezzabili dal sedile di una macchina in movimento, di respirarne l’anima. Anche soltanto per un giorno.

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Ntoni u spazzinu

Per parecchi anni, gennaio è stato un mese felice. Il compleanno di mia nonna Ciccia e quello di Mario, il campionato di calcio che riprendeva dopo la pausa natalizia, la speranza della neve e la sensazione di trovarmi seduto sullo slittino al cancelletto di partenza, pronto a lanciarmi velocemente verso l’estate laggiù in fondo. Oggi è un po’ diverso. Gennaio è il mese delle assenze: di nonna, la mattina dell’esame di storia moderna; di zio Ntoni, fratellastro di mia mamma, la notte in cui la morte entrò proprio dentro la nostra casa per svegliare tutti e addormentarne uno. Diciotto anni fa.
Ntoni “u spazzinu” aveva rischiato di morire appena nato, come sua mamma a pochi mesi dal parto. Tragedie familiari frequenti negli anni Trenta e anche in seguito, con la sala parto “allestita” dentro le abitazioni che impegnava tutte le donne della rruga: chi riscaldava l’acqua, chi porgeva tovaglie e ferri del mestiere alla mammina, chi preparava il pranzo per gli altri componenti della famiglia, chi si limitava a pregare perché tutto andasse per il meglio. Le preghiere servivano, eccome.
Ntoni la superò, anche se qualche traccia di quella battaglia gli rimase incisa tra le pieghe del cervello per tutta la vita. Riuscì però ad ottenere un posto da spazzino comunale, quando ancora il politically correct non aveva introdotto la figura dell’operatore ecologico e quando il netturbino proveniva esclusivamente dai ceti più poveri della società. Grazie al lavoro, soggetti a rischio di emarginazione riuscivano a ritagliarsi un ruolo e a svolgere una funzione nella comunità, contribuendo così al perseguimento del bene comune. Che in questo caso consisteva nel mantenimento della pulizia delle strade e delle piazze del paese.
Una cantilena di nomi forse meno prestigiosa di quella “Zoff-Gentile-Cabrini” vittoriosa a Spagna ’82, ma impressa nella mente dei bambini di allora: l’autista Peppino “llipari”, Saro “mbisca”, Vincenzo “u merru”, Ciccio Lombardo, Gianni Pitasi, Mico “u bandista”, Ciccio “cciamparancella”, Vincenzo “u bagasciu”, Ciccio “gaddina”. Quest’ultimo anche vandijaturi, in possesso di una voce squillante che dagli incroci delle strade raggiungeva i cortili e le case per annunciare il bando, generalmente la chiusura dell’acqua nel periodo estivo: «jettu u bandu… ca e cincu i stasira… chiudinu l’acqua!». Infine mio zio Ntoni, appena un ciuffetto di capelli sopra il centro della fronte, nascosto dal cappello blu come la sua divisa da spazzino comunale. Un uomo forte e senza misura, la cui figura spesso s’intravedeva appena, coperta dalla carriola caricata all’inverosimile di cartoni, che spingeva nelle salite del paese cercando di tenere il castello in equilibrio.
È innegabile che il servizio porta-a-porta degli anni Ottanta fosse efficientissimo, le strade del paese spazzate tutti i giorni senza l’ausilio di mezzi meccanici, la via occupata dalle bancarelle del mercato pulita ogni domenica in tempi record. Ci pensavano loro, con le ramazze di brojera che spesso ho visto preparare per zio Ntoni da mio nonno, la faccia caliata dal sole anche in vecchiaia, come se gli anni di duro lavoro da carbonaro o nei cantieri gli avessero per sempre marchiato la pelle. Il sangiovanni con il parroco del paese don Antonio Messina, suo padrino di cresima, comportava inoltre a Ntoni alcuni impegni extra: lavori nella casa del sacerdote, ma anche la raccolta della legna e dei rami per il “luminario” che il 6 settembre – allora come oggi – veniva acceso in onore della Protettrice.
Una vita di fatica analoga a quella di molti altri lavoratori anonimi: gente umile, dignitosa, esemplare nella propria semplicità.

*Nella fotografia, da sinistra: Peppino Oliverio, Mico Bonfiglio, Saro Bonfiglio, Vincenzo Federico, Ciccio Modaffari, Vincenzo Panuccio, Francescantonio Pentimalli.

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Buon anno

Da sempre ho un debole per il pettirosso. Minuscolo e imponente con quella macchia rossa al centro che lo fa sembrare un soldato a petto in fuori. In questi giorni il gelo lo spinge dai boschi alla porte delle abitazioni o sulle ringhiere dei balconi, in cerca di cibo. Mi piace pensare che sia sempre lo stesso: quello di venti o trent’anni fa, e che torni da me perché già allora le briciole dei biscotti o del pane erano a lui destinate. A lui che, poveretto, chissà che freddo soffriva ma con dignità. A lui che forse era triste, nella sua gelata solitudine.
Forse è proprio quello che disegnai alle scuole elementari su un cartellone che poi rimase attaccato alla parete tutto l’anno, insieme alla vendemmia o alla primavera realizzate da altri miei compagni. Un pettirosso enorme su un ramo troppo piccolo per poterne reggere il peso, ma che importava.
Molto dopo sarebbe arrivato Fabrizio De André: un furibondo bisogno di domande più che di risposte, di dubbi più che di certezze, di una prospettiva umana che fosse in grado di regalare una “goccia di splendore” anche all’ultimo della terra. E con lui il “pettirosso da combattimento” dell’apocalittica Domenica delle salme, che si salva dall’incendio della barba del “poeta della Baggina” e indica nella lotta uno strumento di giustizia.
Situazioni distanti che forse non casualmente riaffiorano nella mente, come tessere di un mosaico più grande e misterioso. La ricerca delle radici, il senso della storia e delle storie che Maurizio Maggiani sublima nelle pagine del suggestivo romanzo Il coraggio del pettirosso; il lancinante album di Loredana Bertè (Un pettirosso da combattimento), impreziosito dalla straziante traccia Zona Venerdì, in morte di Mia Martini.
Il pettirosso è il sogno impossibile, deciso nell’inverno che una dolorosa perdita familiare aveva reso più freddo degli altri, per consolare e riscaldare – lui che arriva con il gelo – le anime nostalgiche.
Chissà come e perché sono arrivato fin qua. In fondo volevo soltanto scrivere due parole di augurio per l’anno che stanotte accoglieremo con la stessa identica speranza dell’anno scorso e per salutare quello che in qualche modo sta per finire. Consapevoli di avere fatto ciò che cuore e raziocinio hanno comandato. Senza l’urgenza di un bilancio che forse altri in questi stessi minuti stanno già facendo, disponendo sui piatti felicità e dolore, rimpianti e sogni. Quei sogni che soli possono rendere affascinante l’incognito e che ci spingono ad agire. Che ci fanno uscire dal bosco e danzare nel freddo, per continuare a vivere e per affrontare con coraggio ciò che il futuro ci riserverà.

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Suonala ancora

Ogni ricorrenza è un termometro che misura la febbre del tempo. Scotta quando seduti a tavola qualche sorriso manca e, proprio in quei momenti che dovrebbero essere di allegria, il vuoto nella pancia segnala assenze pesanti. Sentimenti che la quotidianità della vita riesce a tenere sopiti, nascosti dal fardello delle troppe cose da fare, si rivelano nudi. Innocenti, fieri, finalmente liberi.
Non si scappa dalle feste e dal loro carico di inevitabile malinconia. Da bilanci personali più o meno definitivi, rabberciati di anno in anno. Dalla speranza che matura i germi del futuro. Dal bisogno di darsi progetti, scadenze, altri traguardi nella corsa senza freni che scava sui volti rughe più profonde, curva le schiene, spruzza neve sui capelli.
Scrutiamo pensierosi l’orizzonte, come i reduci che vi vedono scorrere i fotogrammi di mille battaglie. In cerca di risposte – o soltanto di consolazione – al nostro andare incomprensibile e sorprendente. Un gorgo di dubbi che inghiotte anche il presente, a volere a tutti i costi svelarne il fascino. Domande che sfuggono da ogni parte, come l’aria di un pallone bucato che si cerca invano di tappare con la mano.
Si dirà che non si può vivere ripiegati su se stessi, e probabilmente è vero. D’altronde la solitudine è spesso una conquista effimera, raccattata, che non riesce a tenere a bada l’ansia di risposte definitive agli ostinati “chi siamo”, ai prorompenti “cosa vogliamo”. Siamo troppo impegnati a vivere, per fortuna. Consapevoli del fatto che una vita non basta e che un’altra non ci è data. Una condanna e un’opportunità, a pensarci bene. Perché l’urgenza costringe all’azione: domani potrebbe essere troppo tardi.
Una filosofia che il ragazzino sembra già conoscere quando viene aiutato ad alzarsi dalla sediolina; quando spinge le gambe con tutta la forza che ha in corpo per arrivare faticosamente alla pianola. Un passo dopo l’altro, in una moviola accorata che scaccia via ogni dubbio rendendoci piccoli davanti al sogno impossibile di fare andare con gli occhi quelle leve esitanti.
Lo sa, deve saperlo per forza mentre suona Jingle bells sorretto da mani sicure, tra il silenzio e l’emozione della sala, tutta concentrata sulle sue dita che battono i tasti bianchi e neri: «Suonate campane, suonate tutto il tempo».
E suona anche tu. Per te e per noi. Per la vita che insegni.

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Il trovatello Giuseppe Silvani, sconosciuto eroe di Sant’Eufemia

Della prima guerra mondiale si è detto tutto. Fiumi d’inchiostro versati dagli storici per ricostruire le battaglie ed elaborare le statistiche dell’inutile strage. Eppure qualcosa di nuovo, se si continua a cercare, ancora salta fuori. Storie minime, piccole storie dentro la storia grande. Quelle sconosciute dei tantissimi giovani anonimi catapultati dai posti più sperduti dell’Italia nelle trincee del Carso, per combattere una guerra di posizione della quale niente sapevano. Costretti, nel nome della Patria, a patire il freddo e la neve, a lottare con il fango e con i pidocchi, a soffrire la fame e le malattie. Nelle narici il fetore nauseabondo dei corpi in decomposizione dell’orrenda carneficina voluta dalla follia dei comandi militari, il costo umano di poche decine di metri di linea del fronte guadagnate ad ogni offensiva e puntualmente perse nel volgere di pochi giorni.
Di questi eroi per caso poco si sa, soldati analfabeti che non hanno lasciato diari, testimonianze, tracce delle loro esistenze. Per immaginare qualcosa della loro esperienza bellica occorre pertanto affidarsi alle scarne informazioni riportate sulle schede dell’Ufficio notizie e nei ruoli militari. Può capitare così di imbattersi in soldati che, prima di essere spediti al fronte, dovettero subire un processo per diserzione: giovani emigrati all’estero che non avevano risposto per tempo alla chiamata alle armi, ma che rientrarono in Italia e regolarizzarono la propria posizione, svolgendo prima l’addestramento e poi finendo nelle zone dichiarate in stato di guerra.
Anche tra i soldati eufemiesi vi fu chi rimpatriò per servire il Paese “con fedeltà ed onore”. Sfogliando le carte dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria, in particolare una storia mi ha colpito più di altre: quella di Giuseppe Silvani, numero di matricola 42357. Un cognome mai udito a queste latitudini ha una sola spiegazione, riportata nel ruolo: “figlio di N.N. e di N.N”. Insomma, un trovatello per il quale la semplice verifica presso lo stato civile del comune fuga il dubbio di un possibile errore nell’indicazione della provenienza.
Giuseppe Silvani nasce proprio a Sant’Eufemia, il 20 febbraio 1893. Dopo qualche giorno sarà Grazia Borrello (“di anni quaranta, pia ricevitrice dei trovatelli”) a raccoglierlo dalla “ruota” del comune, dove presumibilmente la madre l’aveva lasciato. Fino ai primi anni del Novecento anche a Sant’Eufemia funzionò infatti la cosiddetta “ruota degli esposti”, che accoglieva i neonati abbandonati dai genitori per diverse ragioni: figli della vergogna o bimbi ai quali i genitori non erano in grado di garantire nemmeno la sussistenza. I neonati venivano portati di notte nella “ruota”: appena udita la campanella, chi si occupava del servizio la faceva girare verso l’interno, apriva lo sportello e prestava le prime cure all’innocente fagotto tratto in salvo.
Il bambino raccolto da Grazia Borrello – si legge nell’atto di nascita redatto dall’ufficiale di stato civile, nonché sindaco, Antonino Condina Occhiuto – “era avvolto in pochi pannilini [panni ottenuti da lenzuola, camicie, tovaglie] bianchi, con le braccia sciolte e col capo coperto da una cuffietta anche bianca. Fra i pannilini che l’avvolgevano fu trovato un biglietto colla scritta seguente: Questo trovatello si chiama Giuseppe. In vista di che ho imposto il nome Giuseppe ed il cognome Silvani. E poiché in questo Comune manca un pubblico ospizio pei fanciulli abbandonati, ho consegnato il predetto bambino alla locale Congregazione di Carità, la quale avrà cura di affidarlo a buona e onesta nutrice perché l’allevasse”.
Non sappiamo chi abbia allevato il piccolo Giuseppe. Sappiamo però che appena giovinetto egli prende la via del mare, come molti suoi coetanei in cerca di fortuna Oltreoceano. Ha appena vent’anni quando sbarca ad Ellis Island il 15 marzo 1913, dopo la traversata a bordo della “Madonna”, una nave a due alberi capace di trasportare 1364 passeggeri. La chiamata dell’esercito arriva proprio mentre si trova negli Stati Uniti, per cui Silvani non riesce a giungere nella caserma di destinazione entro il termine stabilito. Dichiarato disertore e denunziato al tribunale militare di Bari, una volta rientrato in Italia si costituisce presso il distretto di Reggio Calabria (11 dicembre 1914) e viene lasciato a piede libero in attesa di giudizio. A fine anno la commissione d’inchiesta dichiara il non luogo a procedere per inesistenza del reato, cosicché il 1° gennaio 1915 Silvani inizia l’addestramento nel 41° Reggimento Fanteria e, con l’entrata in guerra dell’Italia, si ritrova sul Carso. In prima linea nella decima battaglia dell’Isonzo con il 1° Reggimento Fanteria, viene ferito alla coscia destra da un colpo d’arma da fuoco sul monte San Marco (23 maggio 1917). Dopo la convalescenza è nuovamente nei campi di battaglia e, l’11 agosto 1918, è protagonista di un’operazione audace che gli vale la medaglia di bronzo al valor militare, con la seguente la motivazione: «Volontario in un’ardita pattuglia riusciva, con grande ardimento e sprezzo del pericolo, a raggiungere una forte posizione nemica e, dopo una violenta lotta corpo a corpo, cooperava alla cattura di alcuni prigionieri che trascinava nelle nostre linee. Monte Asolone quota 1440».
Una medaglia che Silvani mai riceverà, così come le altre due conferitegli alla fine del conflitto: quella “Commemorativa della Guerra 1915-18”, istituita con R.D. 1241 del 25 luglio 1920, e quella “Interalleata della Vittoria”, istituita con R.D. 1918 del 16 dicembre 1920.
Il 20 aprile 1920 Giuseppe Silvani è infatti già nuovamente negli Stati Uniti, appena sbarcato dalla nave “Pannonia”. Qui si perdono le sue tracce e in suolo americano, con ogni probabilità, Silvani morirà, figlio di nessuno ed eroe sconosciuto ai suoi stessi concittadini.

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Il puzzle spezzato

Non abbiamo mai conosciuta un’ultima volta, il colpo secco della porta che scuote le pareti: io di qua e tu di là. Magari con l’orecchio attaccato all’anta per sentire i passi che si allontanano o il silenzio sospeso, incerto sul da farsi. Chissà. Neanche il basta altissimo e arduo da scalare a mani nude, le dita che cedono, si arrendono e non fanno andare oltre. Ci proviamo stavolta. Ci proviamo, sì.
L’angoscia dell’addio confonde momenti distanti in un flusso unico che mescola dolore e rabbia. Un fiume che precipita verso il mare e tutto travolge. Siamo due naufraghi che non hanno più la forza di aggrapparsi a un legno, sballottati dalla furia del troppo orgoglio.
Niente sembra più bastarci. Le tue risate e le mie. Il tuo naso freddo di tramontana. La rosa nella valigia accanto ai cioccolatini. Il sole rosso intascato dall’orizzonte, leggero come una carezza sulle guance. La libertà soffiata dalle onde sui nostri corpi profumati di battigia. La vita inventata giorno per giorno, messa insieme a fatica e ora sparpagliata per terra, come i cartoncini di un puzzle spezzato.
Ogni flashback è una discesa nel buco nero del passato. Ciò che per me è stato, dimenticato, confinato nell’angolo delle recriminazioni, degli errori, in fondo delle scelte. E che per te è presente ancora vivo e sanguinante. Sei rimasta là, intrappolata da ciò che poteva essere e non è stato. Un paesaggio di fiaba che avevi sognato e che ancora cerchi, stretta dentro un vestito di ricordi feriti.
Aspetti che io ritorni per prenderti e portarti via, dici. Che io entri nel sogno frantumato e da lì ti tiri fuori. Non so farlo. Avrebbe dovuto farlo quel ragazzo, non può farlo quest’uomo.
Il grido lanciato si spegne nel vuoto, impotente per quanto forte e disperato. L’attesa diventa un tempo circolare di rimpianti che dilatano i minuti della notte e trasformano il sogno in incubo. Notti che furono la magia di un tappeto di stelle srotolato sulle nostre teste, quando ogni respiro era felicità. Quando ci facevamo rapire dal mistero delle costellazioni cercando di decifrare nelle figure indovinate le tracce del destino.
Era nelle nostre mani. Ma il dolore ha bisogno di attenzione, non della rabbia urlata nel ping-pong estenuante delle accuse. Forse non siamo stati all’altezza del sogno. Forse il sogno era impossibile. O forse doveva semplicemente andare così, una vendetta degli dei irritati dalla pervicacia dei nostri sbagli. Mancano persino le parole, fiaccate dal corpo a corpo finale e avide di riposo. Desiderose soltanto di una tregua.
Che inganno il silenzio della notte ricamata di stelle, ora che il tempo è finito. Ora che le nostre facce camminano schiacciate sul marciapiedi, indifferenti all’illusione di bagliori lontani.

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L’eufemiese Carlo Muscari, martire della rivoluzione napoletana del 1799

Carlo Muscari, figlio di Francesco e Lavinia Pugliatti, nacque a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 17 marzo 1770. Il ramo paterno apparteneva ad una ricca ed aristocratica famiglia di proprietari terrieri originaria di Melicuccà, che si era trasferita a Sant’Eufemia alla fine del XVII secolo, mentre la madre era una nobildonna reggina. Tra i suoi avi si segnalano un Mercurio Muscari laureatosi a Napoli in diritto pontificio e civile nel 1694 e Giuseppe Maria Muscari (1713-1793), “legato in affettuosa amicizia con Papa Braschi” (Pio VI), che fu procuratore generale dell’Ordine di San Basilio e rettore del convento eufemiese di San Bartolomeo, andato distrutto nel terremoto del 1783 (circostanza nella quale perì anche Francesco Muscari), quando già da due anni era abate perpetuo della chiesa di San Basilio a Roma. E proprio alle cure dello zio paterno fu affidato il giovane Carlo, che nella capitale pontificia compì gli studi umanistici prima di trasferirsi a Napoli, dove si laureò in legge e dove già si trovava il fratello maggiore, avvocato Giuseppe, che curò la formazione anche di un altro fratello, Gregorio: sia Giuseppe che Gregorio furono successivamente autori di opere di diritto molto apprezzate. Nella capitale partenopea, allo scoppio della rivoluzione, i tre furono raggiunti dal quarto dei fratelli, Mercurio.
Nel lavoro dedicato alla massoneria nel Regno delle Due Sicilie, Ruggiero Di Castiglione sottolinea l’adesione di Carlo a una delle logge massoniche fondate dall’abate Antonio Jerocades e il suo coinvolgimento in una congiura giacobina che nel 1794 gli procurò l’arresto e la reclusione nel carcere della Vicaria per “asportazione d’armi proibite, bestemmie, miscredenze, violenze ed altri eccessi”, oltre che per il possesso di “alcuni libri sediziosi francesi”.
Dopo la proclamazione della repubblica napoletana e la costituzione del governo provvisorio degli insorti, Carlo fu tra i sette membri della “Commissione pel piano delle Finanze” e capitano della II Compagnia della Guardia nazionale repubblicana, della quale faceva parte anche un altro eufemiese, il futuro medico Gaetano Capoferro, allora studente presso l’Università di Napoli. Il 20 gennaio 1799 partecipò alla presa del castello di Sant’Elmo, si distinse nelle operazioni che portarono all’arresto di numerosi seguaci del regime borbonico e infine fu trasferito alla Legione Bruzia. Con il fratello Gregorio fu componente della Commissione “degl’informi”, che si occupava dell’epurazione della burocrazia borbonica e della sua sostituzione con un personale fedele al nuovo corso.
Lo storico Vittorio Visalli riferisce che Carlo “combatté aspramente a Torre Annunziata contro Pandigrano e Sciarpa” (rispettivamente: Nicola Gualtieri, un criminale comune condannato all’ergastolo, scarcerato e arruolato nell’esercito sanfedista del cardinale Ruffo, e Gerardo Curcio, che guidò un esercito di sbandati al servizio della causa borbonica). Il fratello Gregorio fu, invece, “l’imperterrito duce” della Legione Calabra, circa duemila calabresi posti a presidio di Castelnuovo e del forte di Vigliena, che il 13 giugno 1799 fu fatto saltare in aria dai giacobini assediati dalle truppe sanfediste. Dopo la capitolazione i repubblicani sbandarono. Carlo, Gregorio e Giuseppe Muscari si asserragliarono nei Castelli. Mercurio, che inizialmente aveva trovato rifugio in un convento, da lì fu costretto a scappare. Carlo e Gregorio furono condannati a morte; Giuseppe e Mercurio all’esilio fuori dal regno. Per i loro beni fu disposta la confisca.
Il trattato di capitolazione sottoscritto il 19 giugno concedeva agli insorti la facoltà di trasferirsi in Francia. Carlo fu così imbarcato sul vascello inglese “Audace”, ma appena arrivato a Napoli l’ammiraglio Nelson ordinò la sospensione del trattato. Mentre Gregorio riuscì a scampare alla forca e a riparare in Francia con gli altri due fratelli, Carlo fu incarcerato e sottoposto a processo. Assolto dalla Giunta di Stato, si scontrò con la volontà del sovrano Ferdinando IV di Borbone, al quale spettava l’ultima parola. Vincenzo Cuoco indica nella condanna di Muscari il paradigma del clima giustizialista instauratosi con il ritorno dei Borboni: «Le sentenze erano fatte prima del giudizio. Chi era destinato alla morte doveva morire […]. Dal processo di Muscari nulla si rilevava che potesse farlo condannare; ma troppo zelo avea dimostrato Muscari per la Repubblica, e si voleva morto. La Giunta, dicesi, ebbe ordine di sospender la sentenza assolutoria e di non decidere la causa finché non si fosse trovata una causa di morte. A capo di due mesi è facile indovinare che questa causa si trovò».
Tra gli ultimi patrioti ad essere giustiziato, Carlo Muscari fu impiccato il 6 marzo 1800 a piazza Mercato e poi sepolto nella chiesa di Santa Caterina ai Funari.
A cent’anni dalla sua morte, l’amministrazione comunale di Sant’Eufemia ne onorò il sacrificio e la memoria: il consigliere provinciale Michele Fimmanò tenne il discorso commemorativo a conclusione del quale, all’interno del municipio, fu scoperta una lapide in marmo: «Tradita la fede dei patti/ da bieca voluttà di tiranni/ CARLO MUSCARI/ milite della Repubblica Partenopea/ moriva strangolato a Napoli/ il 6 marzo 1800/ I cittadini eufemiesi dopo 100 anni/ a ricordo ed esempio».
Andata distrutta dopo il terremoto del 1908, una riproduzione dell’iscrizione fu collocata alla fine degli anni Venti nel palazzo municipale da poco edificato. Purtroppo tra le macerie del palazzo demolito alla fine degli anni Ottanta, è incredibilmente finita anche la lastra di marmo che ricordava un grande eufemiese: nessuno ha pensato di salvarla, nessuno ha sentito il dovere di riprodurla.

*Fonti:
– Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, Editore Laterza (1980)
– Ruggiero Di Castiglione, La massoneria nelle Due Sicilie e i “fratelli” meridionali del ’700, vol. III: Dal legittimismo alla cospirazione, Gangemi editore (2009)
– Michele Fimmanò, Carlo Muscari. Commemorazione nel centenario della sua morte, Tipografia Adamo D’Andrea (1900)
– Domenico Forgione, Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Nuove edizioni Barbaro (2013)
– Rocco Liberti, Il nucleo familiare di un martire della repubblica napoletana: Carlo Muscari da Santa Eufemia, in “Rivoluzione e antirivoluzione in Calabria nel 1799”, Atti del IX Congresso storico calabrese, Laruffa editore (2003)
– Vincenzo Mezzatesta, Carlo Muscari di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Capolegione, in “Calabria Sconosciuta”, n. 30 (1985)
– Vittorio Visalli, I Calabresi nel Risorgimento italiano. Storia documentata delle rivoluzioni calabresi dal 1799 al 1862 , G. Tarizzo e figlio (1893)

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