Giugno

Giugno è la metafora della gioventù, con tutta quell’estate in arrivo e l’inverno una preoccupazione lontana. Che un giorno arriverà, ma è ancora troppo presto per pensarci. Giugno invita alla speranza, come il polline che plana nell’aria, come il giallo e il rosso dei suoi lunghi tramonti.
Era giugno quando diventammo una repubblica, quando la democrazia delle elezioni (e il primo voto delle donne) spazzò via un incubo durato vent’anni. Quasi una nemesi di quel giugno che invece ci aveva trascinato in una folle guerra, adoranti sotto il balcone di Palazzo Venezia. Stregati dalla mascella volitiva dell’uomo della provvidenza, sul cui cadavere pochi anni dopo avremmo pisciato e sputato, dopo averlo preso a calci. Scene da “macelleria messicana”, si disse.
Giugno è mio padre incollato alla radiolina in Australia nel 1970, ubriaco di felicità per il gol di Gianni Rivera nella “partita del secolo”. Sono i suoi rulli e la pittura e i ponteggi, il suo andare per poi tornare e poi riandare. E infine noi.
A giugno niente è definitivo, tutto può accadere. Tutto è vita. D’altronde, nella malinconica Giugno ’73, che racconta la fine di una storia d’amore vittima dei pregiudizi borghesi della famiglia di lei, Fabrizio De Andrè chiude con due versi indimenticabili: «Io mi dico è stato meglio lasciarci/ che non esserci mai incontrati». Come se anche nella tristezza vi sia qualcosa di positivo, che in qualche modo spinge a ricercare ovunque la gioia di vivere, a guardare sempre il bicchiere mezzo pieno. Giugno è sempre un bicchiere mezzo pieno.
Giugno è l’Ulisse di Joyce, ogni anno commemorato nel Bloomsday del 16, giorno in cui si svolgono tutte le vicende dei protagonisti di uno dei romanzi più influenti nella storia della letteratura mondiale. Una lettura difficile, una sfida tra ragazzi pensosi che ascoltano e riascoltano Notte prima degli esami, il dito pronto sul tasto rewind per riavvolgere la musicassetta e gli occhi fissi verso il cielo, ad ammirare la notte trapuntata di stelle, a seguire il disegno di un tempo misterioso.
Infine due corpi sudati che scoprono l’amore, avvinghiati sul sedile di un’auto bollente sotto il sole.
Non dovrebbe finire mai giugno. Le sue giornate luminose colorano di speranza anche le sconfitte, sono gravide di un nuovo inizio.

*Foto @azzurraridolfo

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La chiave della felicità

Esiste un’etica del dovere: io sono cresciuto con questi insegnamenti e sono grato ai miei genitori che me li hanno trasmessi. Ognuno di noi ha dei doveri nei confronti della propria famiglia, degli amici, della realtà in cui vive: nei confronti degli altri, soprattutto di chi sta peggio di noi.
La vera rivoluzione, oggi, è fare il proprio dovere, il proprio pezzettino, perché “se ognuno di noi facesse il proprio pezzettino, ci ritroveremmo in un mondo migliore senza neanche accorgercene”. Questa è l’etica del dovere e questa è la mia regola di vita.
L’ho appresa facendo caffè a 9 anni, salendo sulla cassa della Peroni che mi era necessaria perché altrimenti non ci arrivavo. Il bar di mio padre mi ha dato il privilegio di avere un contatto quotidiano con la gente, di parlare dei problemi reali delle famiglie, di instaurare rapporti di sincera amicizia. Molte persone là dentro mi hanno tenuto sulle ginocchia, mi hanno letteralmente allevato. Alcuni purtroppo non ci sono più, ma verso tutta questa gente ho un debito di umanità e di lezioni di vita che riconoscerò sempre.
Nei nostri 35 anni di attività sono riuscito a far conciliare tutto il resto con quello che ho sempre sentito essere un mio dovere fare. Ho lavorato all’università, ho parlato ai convegni, ho scritto libri… ma ho sempre continuato a stare al bar: e non ho mai pensato, mai, nemmeno per un attimo, che spazzare per terra o lavare bicchieri sminuisse di un niente il valore delle altre mie attività o la mia dignità.
E’ un messaggio che mi sento di rivolgere soprattutto ai giovani, le cui difficoltà comprendo. Giovani innamorati di questo nostro paese, che qui sono nati e cresciuti, che qui vivono e che purtroppo spesso finiscono per andare via.
Sono nato in Australia, conosco le storie dell’emigrazione perché la storia della mia famiglia è fatta di partenze, di ritorni, di affetti sparsi per il mondo. Le storie di chi va via sono tutte uguali: sono storie di distacchi, storie di sacrifici per strappare con i denti la possibilità di un futuro migliore.
Io ho scelto di non lasciare Sant’Eufemia. Altri l’hanno fatto, ed io ammiro questa loro determinazione nel cercare altrove una propria strada, anche se la decisione di partire è sempre pesante per gli affetti che si lasciano alle spalle.
Ma ammiro anche la determinazione di chi è rimasto, la cocciutaggine di chi un modo per realizzarsi lo cerca qui. Perché, secondo me, ogni decisione deve rispondere a una sola domanda: cosa voglio realmente? Dove sto bene?
Il segreto è riuscire a fare pace con i propri sogni, non avere rimpianti. Ed io rimpianti non ne ho. Anche se qualche volta la tentazione di andare via c’è stata, anche se di opportunità ne ho avute diverse.
Una volta mi è stato chiesto: “perché non sei andato via? In qualsiasi città del Nord o all’estero chissà che carriera avresti potuto fare, chissà quante soddisfazioni professionali avresti potuto avere”.
Per me questo non è mai stato un problema. Il problema vero per ognuno di noi è capire di cosa abbiamo bisogno per stare bene. Io ho sempre voluto restare perché questa è la mia dimensione.
A Sant’Eufemia sento di essermi realizzato: con le cose che scrivo, con le cose che faccio, con le persone che conosco. Non mi è mai interessato altro, solo essere me stesso qui, nel mio paese. Fare le cose che mi piace fare, qui. Perché, in fondo, la chiave della felicità è nelle nostre mani.
Questo è il mio tempo, questo è il mio posto, questa è la mia vita.

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Le uova rosse della tradizione pasquale romena

Dai miei vicini di casa romeni ho appreso un aspetto della loro tradizione pasquale che non conoscevo. In Romania, a Pasqua, si usa infatti dipingere le uova di rosso.
Le interpretazioni relative a questa tradizione sono diverse. Il rosso simboleggia infatti il supplizio ed il sangue versato da Gesù sulla croce. Non solo: secondo una vulgata molto popolare, le pietre che colpirono Gesù durante la flagellazione si trasformarono, subito dopo, in uova rosse; e anche le uova portate da Maria a Gesù sofferente si sarebbero miracolosamente colorate di rosso. Infine, sembra anche che mentre i Farisei banchettavano per festeggiare la morte del Cristo, qualcuno per dileggio pronunciò la seguente frase: “quando le uova che stiamo mangiando diventeranno rosse, allora resusciterà Gesù”. E così fu.
Le uova colorate possono anche essere decorate con motivi che rimandano ai temi della vita, della morte, dell’eternità, ecc.: un’usanza che è molto diffusa, in particolare, nella regione Bucovina.
La tradizione di dipingere le uova precede comunque la diffusione del cristianesimo e affonda le radici nella cultura cinese e in quelle della Persia e dell’antico Egitto, dove rappresentava la vita ma anche la rinascita della natura con l’arrivo della primavera. Venivano anche donate alle donne per propiziarne la fecondità.
Alle uova, che sono il simbolo della rigenerazione e della purificazione, viene infine anche attribuito un potere taumaturgico: il loro dono è quindi espressione di buon augurio.

*Per ulteriori approfondimenti:
http://www.ricetterumene.it/tradizioni_dettagli.asp?tradizione_id=8  (da qui è tratta la foto in basso)
http://www.imperialtransilvania.com/it/2016/04/29/leggi-notizia/argomenti/traditions/articolo/la-pittura-delle-uova-di-pasqua-in-romania-unarte-eternamente-viva.html

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I libri insegnano ai ricordi

«I libri hanno bisogno di qualcuno che si prenda cura di loro per continuare a vivere»: da diversi giorni questa frase mi rimbomba in testa, da quando Paola Monterosso – la figlia del mio caro e indimenticato professore Rosario Monterosso – l’ha pronunciata per spiegarmi il senso di un gesto che mi ha molto emozionato.
Conoscevo la biblioteca di suo padre, mio docente di storia e filosofia negli anni del liceo e in seguito amico generoso e prodigo di consigli: si trattasse di libri o di vita quotidiana. La conoscevo perché la sua biblioteca è sempre stata la biblioteca dei suoi alunni.
Averne ricevuto in dono la gran parte per volontà dei tre figli Paola, Giuseppe e Giovanni mi onora e, nello stesso tempo, mi frastorna. Alcuni di quei libri li avevo ricevuto in prestito venticinque anni fa: le Lettere dal carcere di Antonio Gramsci, ad esempio, ma anche libri di storia, di saggistica e di narrativa che sono stati alla base della mia formazione.
Sarà come continuare le chiacchierate interrotte quasi cinque anni fa, anche se fa effetto ritrovarsi tra le mani il libro avuto in prestito nel 1992, o aprirne altri e trovare tra le pagine qualche foglietto con gli appunti, le note a margine, i richiami vergati dalla mano del professore Monterosso. Tuffarsi, così, nel mare aperto dei ricordi: «I libri insegnano ai ricordi, li fanno camminare», ci ricorda non a caso Erri De Luca.
Chissà se riuscirò a leggerli tutti, forse mi servirebbe un’altra vita. O più semplicemente avrei bisogno della testa di “Saro”, come lo chiamava la signora Anna Martino che da quasi un mese ha raggiunto il marito. A me piace pensarli ora insieme nel Paradiso immaginato da Borges: “una specie di biblioteca”.
Nel gesto di Paola, Giuseppe e Giovanni rivive la statura morale del padre, la sua generosità e il suo disinteresse per l’aspetto materiale delle cose: nonostante la sofferenza del distacco e la comprensibile tempesta affettiva. La profondità del suo pensiero e del suo agire.
Una lezione preziosa – che per questo ho inteso rendere pubblica – sui valori della vita, su ciò che realmente conta nelle nostre umane vicissitudini. E che per sempre porterò nel cuore come una delle più belle cose che mi sia mai capitata.

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Cinquecento messaggi nella bottiglia

Cinquecento articoli. Sette anni di parole scritte un po’ per gioco, un po’ per soddisfare l’esigenza personale di comunicare e di condividere notizie, riflessioni, ricerche storiche (mi auguro) interessanti per coloro che seguono il blog.
Tutto ebbe inizio con il post Minita (24 marzo 2010), in seguito diventato anche il titolo del libro che deve tutto ai “messaggi nella bottiglia” lasciati fluttuare, in questi anni, sulle onde virtuali del web.
“Minita” come il nome che io stesso mi ero dato da bambino perché, nel momento in cui mi sono trovato ad affrontare una fase di grande cambiamento e ad accantonare il sogno di una vita, non potevo che ricominciare dalle certezze di sempre, racchiuse proprio in quel nomignolo: la curiosità per tutto ciò che si muove nella società e il desiderio di interpretare gli avvenimenti, di comprendere le persone al di là di ciò che appare a una prima, sommaria, osservazione.
Il blog mi ha consentito di farmi conoscere da gente che non avrei mai immaginato e dato l’opportunità di intrecciare rapporti personali e di confronto con persone altrimenti per me irraggiungibili. Mi ha fatto anche capire che le parole sono importanti e che chi scrive ha una responsabilità non indifferente nei confronti dei lettori, soprattutto se giovani.
Come ogni cosa nelle vite di ciascuno di noi, anche questo sorta di diario in rete ha avuto una sua evoluzione. All’inizio scrivevo con più frequenza e su argomenti della più svariata natura. Con il tempo ho preferito affrontare per lo più questioni di interesse generale, dare libero sfogo alla fantasia in qualche mini-racconto, soprattutto dedicare una particolare attenzione ai temi della dimensione locale e dell’identità eufemiese.
Un tentativo di fare memoria attraverso gli avvenimenti e le biografie più significative degli ultimi due secoli della storia di Sant’Eufemia, ma anche la riscoperta di storie “minime” da incastrare come tessere di un unico e più grande mosaico. Frammenti di vite che fanno parte della nostra vita, del nostro essere comunità.
Inutile ribadire che sono molto affezionato a questa mia creatura. Antoine De Saint-Exupéry ci ricorda che “è il tempo che hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”: io sono pienamente d’accordo con lui.

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La controversa vicenda della ricostruzione di Sant’Eufemia dopo il terremoto del 1908

Il terremoto del 1908 costituisce l’evento più sconvolgente della storia di Sant’Eufemia e il suo snodo cruciale: c’è un “prima” e un “dopo” che va oltre la cronaca di quegli avvenimenti, perché la ricostruzione consegnò ai sopravvissuti un paese radicalmente diverso, a partire dalla sua disposizione geografica. Un tema – la ricostruzione in un nuovo sito di un paese distrutto – ancora attuale e non di facile soluzione, che si scontra con la caparbia di chi non vuole allontanarsi dai posti in cui ha sempre vissuto per una questione affettiva, ma anche di identità. Siamo tutti il prodotto della vita vissuta da altri prima di noi nelle nostre stesse strade, piazze e campagne, per cui la perdita dei “propri” luoghi disorienta e provoca una sensazione di sradicamento che sgomenta.
La Sant’Eufemia rasa al suolo all’alba del 28 dicembre 1908 – che coincideva per lo più con i rioni Paese Vecchio e Petto – era già un paese ferito, le sue abitazioni rese precarie da sismi più o meno recenti. Il terremoto del 16 novembre 1894 aveva infatti provocato sette morti, il crollo totale di 212 abitazioni e quello parziale di 326 (oltre a danni gravi in 432 case e lievi in 188); dopo quello dell’8 settembre 1905 erano state gravemente danneggiate 383 costruzioni, 41 dichiarate inagibili e demolite; 181 infine, gli edifici lesionati il 23 ottobre 1907. Anche per questo la scossa del 1908 ebbe effetti catastrofici: 530 le vittime dell’elenco stilato dall’arciprete Luigi Bagnato (ma i documenti prodotti dalla giunta comunale fanno salire la cifra a circa 700), più di 2.000 feriti e la perdita dell’85% del patrimonio edilizio. L’area circostante la fontana Nucarabella riportò i danni minori, con il macello comunale che rimase quasi intatto. Le poche case non crollate totalmente si trovavano in via Roma, nel rione Campanella e nel tratto di strada compreso tra piazza del Plebiscito (oggi piazza don Minzoni) e il baraccamento costruito per ospitare gli uffici comunali dopo il 1894 nell’area denominata “Piazzetta”. Le zone più basse del paese (rione Matrice, piazza San Giovanni, ma anche via Pace e via Telesio) furono ridotte a un cumulo di macerie; nel rione Petto si salvarono soltanto alcune abitazioni ubicate in alto (piazza Vittorio Emanuele II). Un dato anch’esso significativo: su circa cinquanta lampioni della pubblica illuminazione, ne restarono in piedi nove.
Le autorità militari stabilirono di fare sorgere un nuovo baraccamento nell’area denominata “Pezza Grande”, che già ospitava quello sorto dopo il terremoto del 1894 e che contava anche alcune casette costruite dopo il 1907, ora distrutte. Furono espropriate diciotto proprietà, costruite strade, realizzati un ospedale, una chiesa, l’acquedotto e 1.300 baracche capaci di dare alloggio a circa 5.000 persone.
Un regio decreto del 15 luglio 1909 proibì la costruzione nelle aree distrutte dal terremoto, ad eccezione delle zone pianeggianti del rione Petto, ma il provvedimento governativo non fu accolto favorevolmente da tutta la popolazione e scatenò reazioni violentissime.
L’amministrazione comunale eletta il 22 maggio e guidata dal notaio Pietro Pentimalli era però favorevole al trasferimento nella nuova area, così come il vecchio ma ancora molto influente Michele Fimmanò; di avviso contrario, invece, un consistente numero di famiglie storiche: Capoferro, Gioffré, Condina-Occhiuto. Un fronte agguerritissimo, che non si diede per vinto neanche a lavori ultimati (fine 1910) e che promosse una raccolta di firme da allegare al parere del geografo Mario Baratta, specializzato in sismologia storica, il quale – nell’opuscolo Per la ricostruzione di Sant’Eufemia d’Aspromonte distrutta dal terremoto del 1908 – sostenne che, in realtà, il suolo sottostante alla Pezza Grande era “il peggiore di tutti” e quello del Paese Vecchio “relativamente migliore” in rapporto alla stabilità sismica delle costruzioni.
La giunta e il sindaco risposero indirizzando al presidente del consiglio Giolitti e al ministro dei lavori pubblici Sacchi un memorandum (Per la riedificazione di Sant’Eufemia d’Aspromonte) sottoscritto da oltre duemila firmatari: in premessa venivano avanzati pesanti dubbi sull’onestà intellettuale di Baratta; nel merito della polemica si sosteneva invece che, poiché non era possibile riunire tutta la popolazione nella vecchia area, sarebbe stato più saggio farlo nell’area nuova, che era “separata” e “lontana” dal vecchio abitato: mantenerle entrambe rischiava di innescare un pericoloso dualismo. Nonostante il governo avesse dato ragione all’amministrazione comunale (maggio 1912), non cessarono le pressioni per modificare il provvedimento legislativo che aveva dichiarato inedificabile l’area del vecchio abitato, per la quale comunque il sindaco Pentimalli aveva accordato alcune eccezioni provvisorie, in attesa dell’approvazione del piano regolatore.
Le deroghe concesse, in realtà, rappresentavano la quadratura del cerchio e aprirono le porte alla soluzione definitiva della vicenda, che fu concordata in occasione delle elezioni comunali del 1914 nel salotto dell’avvocato Gabriele Fimmanò (figlio di Michele, da un anno passato a miglior vita). Grazie al sostegno del deputato reggino De Nava, Fimmanò riuscì a fare sedere attorno allo stesso tavolo “i migliori elementi delle due parti”, i quali siglarono un accordo elettorale che poneva fine alle ostilità in cambio – su questo punto garantiva De Nava – della revisione della legge che demandava al Genio civile di Reggio l’ultima parola sulla definizione delle zone edificabili: in concreto, ciò significava l’abolizione del divieto di costruire nelle aree maggiormente colpite dal terremoto, che fu di fatto decretata dal governo il 3 settembre 1916. Il volto di Sant’Eufemia cambiava definitivamente e assumeva quello attuale caratterizzato dalla suddivisione nei tre popolosi rioni di Paese Vecchio, Petto e Pezza Grande.

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Auguri al blog Pont’i Carta

“Pont’i carta” è un blog gestito da 12 ragazzi di Sant’Eufemia, che ieri ha festeggiato i primi due anni di attività. Tutto ciò che si muove in una comunità è sempre positivo, così come il contributo dei giovani alla sua crescita culturale e sociale. È quello che cercano di fare questi ragazzi, che vanno pertanto incoraggiati. Da qui i miei auguri, da “collega” con qualche anno in più sulle spalle. 

Due anni di attività per un blog come “Pont’i carta” che punta a valorizzare la comunità cui si rivolge possono sembrare pochi, in realtà significano molto. Ogni articolo richiede impegno: individuare un tema che sia interessante per i lettori, cercare le informazioni, redigere materialmente lo scritto. Ci vuole costanza, ma anche la precondizione indispensabile di un forte senso di appartenenza alla propria terra. E poi una molla indispensabile: chiedersi cosa si possa fare per rendersi utili.
Parafrasando Francesco Guccini nella sua L’avvelenata, sappiamo bene che “a parole non si fan rivoluzioni». Sarebbe presuntuoso pensare di capovolgere logiche e modi di essere sedimentati nel tempo, soltanto con un articolo. Si può però dare un segnale, indicare che esiste un altro modo di vedere il mondo, di approcciarsi ai temi fondamentali dello stare insieme. Chi scrive ha questa grande responsabilità, perché è quasi naturale diventare, nel proprio piccolo, punto di riferimento per qualcuno. Proprio per questo le parole sono importanti, ma anche il modo in cui vengono “offerte” a chi ci legge. «L’ho letto sulla Gazzetta del Sud»: è una delle frasi più ricorrenti che capita di ascoltare quando qualcuno cerca di sostenere una propria tesi, rafforzandola con l’autorevolezza riconosciuta da decenni al quotidiano più diffuso dalle nostre parti. Tanto è vero che nei bar, dal barbiere, in qualunque posto frequentato da più persone la presenza della Gazzetta (ma anche, fortunatamente, del Quotidiano del Sud: il pluralismo dell’informazione è sempre un bene) è fissa, tutti i giorni.
Ho iniziato sette anni fa a scrivere sul mio blog “Messaggi nella bottiglia”, conosco difficoltà e vantaggi connessi a questo genere di attività. E sono stato molto felice quando, due anni fa, avete intrapreso quest’avventura, per due motivi. Perché siete giovani, ed è sempre bello vedere ragazzi che s’impegnano per il proprio paese; perché alcuni di voi lo fanno “da lontano”, dalle città universitarie in cui vivete o lavorate. Mi sembra una forma d’amore bellissima, da ammirare.
Vi è anche capitato di scontrarvi con chi non ha particolarmente apprezzato qualche vostro articolo di critica, fa parte del “mestiere”. Ma il dissenso è il sale della democrazia, soprattutto se esternato con garbo e senza la pretesa di avere una soluzione preconfezionata, da utilizzare in maniera automatica e acritica. Il rapporto dialettico aiuta sempre a crescere, se la polemica non è strumentale o preconcetta. In ogni caso, la soddisfazione suscitata dalla certezza di avere comunque prodotto un servizio utile per la comunità aiuta a superare ogni possibile incomprensione. Poi, si sa che non si può piacere a tutti: ma non è un motivo valido per tenere la bocca chiusa o le braccia conserte. Il quieto vivere è una malattia pericolosissima, ma la parola può darle molto filo da torcere.
Buon anniversario e buon lavoro.

*Pubblicato su https://ponticarta.wordpress.com/2017/03/13/auguri-speciali-per-ponti-carta/

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L’Agape si tinge di rosa, Iole Luppino eletta presidente

Il nuovo presidente dell’Agape ha il volto sorridente di Iole Luppino, laureanda in Architettura. Una sorta di “rinnovamento nella continuità”, considerato che, nonostante la giovane età (venticinque anni: per una curiosa coincidenza la stessa età dell’Agape), Iole ha alle spalle una lunga esperienza nell’associazione. Rinnovato anche il Direttivo, del quale farà parte il predecessore Pasquale Condello: insieme a lui, l’inossidabile Peppe Napoli, Cettina Violi, Gresy Luppino, Vince Cutrì e l’autore di questa breve intervista.

Qual è il tuo primo ricordo legato all’Agape?
Avevo all’incirca 10 anni quando vi incontrai la prima volta, grazie a mia zia Gina, che era già socia dell’associazione. Mi chiese se volevo venire a visitare il Santuario di San Francesco a Paola ed io risposi di sì. Ricordo che osservavo i ragazzi disabili e osservavo voi che con tanta cura e amore li aiutavate in tutto. Fui colpita da questi gesti semplici che regalavano sorrisi e credo che proprio da quel giorno iniziai a capire il senso della parola “volontariato”.

Cos’è l’Agape per te e, in generale, cosa pensi del volontariato?
L’Agape per me è “amore verso gli altri”. L’Agape ha arricchito la mia vita: l’entusiasmo che mi è stato trasmesso da ogni singolo volontario e ragazzo disabile è un valore che ha segnato la mia vita. Il desiderio di “partecipare”, di “mettersi al servizio” degli altri: sono emozioni che si possono provare solo vivendole. Il volontariato è l’opera più bella che ogni uomo può fare: nel momento in cui riesci a “donare” e a renderti utile nel tuo piccolo, ti senti gratificato perché sai di essere riuscito a fare qualcosa per l’Altro.

Raccogli la “pesante” eredità di Pasquale Condello. Come ti senti? 
Pasquale è e sarà sempre un esempio che cercherò di seguire. Sono pronta a vivere questa nuova fase della mia vita e della mia attività nell’Agape. Mi sento forte perché, oltre all’esperienza personale maturata in tutti questi anni, so di avere accanto nell’associazione gli amici di sempre. Insieme a loro non sarò mai sola.

C’è qualcosa di particolare che vorresti realizzare da presidente dell’Agape? 
Credo che far conoscere la nostra realtà a tutti i ragazzi delle scuole di ogni grado possa rappresentare un primo passo, affinché anch’essi si avvicinino al mondo del volontariato. Per alcuni sarà affacciarsi a un mondo sconosciuto, che però può essere molto utile per la loro formazione: è importante mettere i giovani in contatto con tutto ciò che si muove nella società, coinvolgerli nelle iniziative, diffondere una conoscenza più corretta delle problematiche legate alla disabilità. Inoltre, un maggiore impegno in favore dei soggetti più svantaggiati della nostra comunità e corsi di formazione per noi volontari.

Sei una ragazza giovane: vuoi dire qualcosa ai ragazzi di Sant’Eufemia? 
A tutti i ragazzi dico che il desiderio di mettersi in gioco, di confrontarsi e di rendersi utili per la propria comunità fa maturare come individui e come cittadini del mondo. È un sentimento che deve nascere dal cuore in maniera spontanea e disinteressata e che ha bisogno di essere coltivato, ma aiuta a dare ad ogni vita un significato più pieno.

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Don Pepè Chirico, il medico che aveva una parola di conforto per tutti

«Eccolo, è arrivato don Pepè». Poche parole che riuscivano a infondere speranza, non appena il medico condotto Giuseppe Chirico metteva piede dentro la casa di un ammalato a Sant’Eufemia. Lo ricorda il professore Giuseppe Calarco nella testimonianza rilasciata per un documentario biografico realizzato dalla Pro Loco nel 2001: «Aveva sempre una parola di conforto e la sua presenza al capezzale dell’ammalato trasmetteva serenità, tanto incideva la sua personalità. Don Pepè non era “un” medico, ma “il” medico: sempre pronto ad ascoltare, consigliare, infondere fiducia. Eravamo soliti fare la passeggiata serale. Ricordo che capitava che venisse chiamato per soccorrere qualcuno: senza scomporsi, salutava e col sorriso di sempre si allontanava per fare, come diceva lui, il suo dovere. Questo era il dottore Chirico».
La stima dei suoi concittadini è totale: a lui vengono confidate anche le preoccupazioni di chi, nel secondo dopoguerra, spesso fatica a guadagnare un pranzo dignitoso. Braccianti agricoli, pastori, gente in cerca di una jornata, piccoli artigiani che vivono dell’essenziale: un’umanità a volte dolente, piegata dagli stenti e dalla fatica del duro lavoro, dalle cattive condizioni igieniche delle proprie misere abitazioni, dal dolore causato in quasi tutte le famiglie dall’elevatissimo indice di mortalità infantile. Don Pepè ascolta, consola, consiglia. Una lezione di vita appresa nel negozio di cereali all’ingrosso che i genitori – Gaetano e Maria Domenica Barilà – gestivano nel rione Paese Vecchio, dove Giuseppe Chirico nasce il 16 ottobre 1915, primo di cinque fratelli (quattro maschi e una femmina).
Conclusi gli studi ginnasiali a Palmi e conseguito il diploma di maturità classica presso l’Istituto “Tommaso Campanella” di Reggio Calabria, si iscrive alla Regia Università di Messina e si laurea in Medicina nel giugno del 1940. È destinato a raccogliere il testimone dello zio Stefano, medico condotto del paese sin dalla fine dell’Ottocento, ma con l’entrata in guerra dell’Italia viene inviato in Croazia, dove trascorre gli anni del conflitto prima come tenente, successivamente come capitano medico. Un’esperienza forte e dolorosa, che ne segna il carattere.
Alla fine della guerra rientra a Sant’Eufemia e finalmente può incominciare a dedicarsi alla cura dei propri concittadini. Lo fa a qualsiasi ora del giorno e della notte, con un senso di umanità fuori dal comune. Per quarant’anni la sua è una missione al servizio di tutti: non c’è porta che non sia stata varcata dalla sua esile figura, nella destra l’inseparabile borsa in pelle. Professionista serio e preparato, uomo onesto e dalla profonda rettitudine morale, per il dottore Chirico l’affetto e il rispetto degli eufemiesi assumono le caratteristiche della devozione.
Proprio per questo l’intera comunità rimane sconvolta quando, il 21 febbraio 1976, don Pepè viene rapito mentre sta rientrando dalla visita a un suo paziente. Sant’Eufemia vive settantasette lunghissimi giorni di angoscia, stretta attorno alla moglie ed ai tre figli del “suo” medico. Ma la rabbia e la preoccupazione della popolazione si sciolgono infine in un’esplosione di gioia collettiva, alla notizia del rilascio. Un fiume di persone si riversa nelle strade e accorre commossa sotto la sua abitazione, fino a quando Chirico non si affaccia dal balcone per ricambiare il calore di una folla immensa e per assicurare a tutti che “la nottata è passata”: «È stato un brutto sogno», dichiara al giornalista che ne raccoglie la prima dichiarazione.
La sua missione al servizio del paese riprende con maggiore slancio. Una missione che prosegue anche dopo il pensionamento, per i tanti concittadini che chiedono ugualmente di essere visitati da don Pepè. Dal 3 maggio 1995 – data della sua morte – sono trascorsi oltre vent’anni, ma tra la gente che lo ha così tanto amato è ancora vivo il ricordo dell’uomo e del medico Giuseppe Chirico, uno dei figli migliori di Sant’Eufemia.

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Grazie, presidente

Dopo quindici anni l’Agape si appresta ad affrontare un fisiologico cambio di guida. Tre lustri targati Pasquale Condello, che aveva raccolto il testimone da Luigi Surace, presidente dell’Associazione di volontariato eufemiese dalla sua costituzione (1991) al 2002 quando, appunto, cedette il testimone. Quindici anni fa Pasquale Condello era poco più che un ragazzo, tanto che quella scelta fu da qualcuno vista come un azzardo, nonostante la sua esperienza nell’Agape fosse già datata. In questi anni ha messo su uno studio da avvocato ed è diventato un buon padre di famiglia, con impegni che a volte diventa complicato gestire, se non altro sotto il profilo del tempo da dedicare alle incombenze burocratiche e pratiche dell’associazione. Da qui la decisione di lasciare la presidenza, presa di concerto con tutti i componenti dell’Agape e con le modalità (per utilizzare un gergo oggi molto in voga) del “passo di lato”, piuttosto che del “passo indietro”. Un passaggio formale, ma dovuto, più che sostanziale: tutti quelli che facciamo parte dell’Agape, compreso Pasquale, continueremo nell’impegno a favore dei soggetti più svantaggiati della nostra comunità.
Il ricambio generazionale va praticato, non soltanto enunciato. Ed è questo il senso di una scelta non avventata: all’interno dell’associazione sono presenti energie pronte a dare continuità a un lavoro ormai consolidato. Giovani pieni di passione, maturi e in possesso dell’esperienza necessaria per ricoprire ruoli di grande responsabilità.
I quindici anni di presidenza Condello hanno inciso in profondità nel tessuto sociale eufemiese. La celebrazione della “giornata mondiale del malato” (11 febbraio) è diventata un appuntamento fisso, così come le raccolte di fondi per l’Airc, il Natale e la Pasqua di solidarietà, la collaborazione con il MOVI (movimento organizzato volontari italiani), i progetti realizzati in collaborazione con l’amministrazione comunale e rivolti agli anziani, ai disabili e ai minori provenienti da nuclei familiari disagiati. Ancora, la sinergia con il liceo scientifico “Enrico Fermi” per la promozione – in collaborazione con il Centro Servizi al Volontariato dei Due Mari di Reggio Calabria – della cultura e dei valori del volontariato tra gli studenti. Infine, i pellegrinaggi: su tutti, quello a Lourdes nel 2011 e l’ultimo, a Roma nel 2016, in occasione del Giubileo degli ammalati e delle persone disabili.
Le iniziative dedicate ai disabili hanno rappresentato, in questi quindici anni, il marchio inconfondibile dell’Agape e dell’attività del presidente Condello: in particolare, l’organizzazione annuale della colonia estiva, con il concentrato di emozioni che ogni estate vengono regalate ai volontari da amici più o meno grandi, tutti speciali.
Mi fermo qua, tralasciando gli aspetti personali di questa lunga cavalcata, che pure hanno segnato il mio e il suo cammino. Un cammino che in realtà precede la nostra stessa adesione all’Agape, ma che di certo continuerà ancora, accanto al futuro presidente.

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