Disagio

Abbiamo già perso quando ci chiediamo: «ma chi me lo fa fare?». Eppure è difficile nascondere il disagio e la delusione, due sentimenti che spingono al disimpegno, a chiudersi nel proprio io e là trovare conforto. Nel piccolissimo di chi ha sperato di dare un contributo di passione e di valori, è un po’ quel che accadde tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, quando la disillusione prese il sopravvento sull’onda lunga del ’68, della contestazione, dell’esplosione di creatività degli anni ’70, ma anche delle grandi lotte politiche e sociali sfociate nel terrorismo. Gli anni del “riflusso”, furono definiti.
Eppure ci sarebbe bisogno di società civile: non quella dei convegni e delle parate, bensì quella che si rimbocca le maniche e cerca di fare qualcosa di buono per la collettività. Non ne sto facendo una questione di politica superiore, né di amministrazione locale: parlo in generale, anche se è evidente che i segnali di questo decadimento morale è possibile coglierli pure nelle nostre piccole realtà. Ci stiamo imbarbarendo, siamo diventati volgari, insopportabili, verbalmente violenti e incapaci di confrontarci con l’altro senza ricorrere all’insulto.
Ecco: viviamo in una realtà per certi versi insopportabile, regredita e degradata. Nella quale ogni giorno che passa è sempre più faticoso riuscire a riconoscersi. Nella quale molte delle cose in cui si è sempre creduto sono andate perse o non contano più niente. A cavallo tra due ere: una che è ormai in pieno declino, che forse è già morta tranne che nella testa di chi ancora ostinatamente cerca di coglierne qualche bagliore di luce; l’altra sempre più dirompente, una slavina che sta portando via tutto.
Una realtà fatta di scostumatezza e di gente senza alcuna idea di cosa significhi il termine “rispetto”, quello vero, non la loro idea di seconda mano, anche di terza, filtrata da un armamentario concettuale superato e vivo soltanto nei ricordi nostalgici di qualche anziano.
E poi l’ipocrisia delle anime belle, quelle che predicano grandi valori, valori che scompaiono quando entrano “in conflitto” con le proprie tasche. Perché quella è l’unica cosa che conta, il denaro. Per il denaro si può anche vendere l’anima al diavolo, in tanti lo fanno quotidianamente. E la cosa sconfortante è che troppa gente riconosce che, se solo si trovasse in quella situazione, farebbe la stessa identica cosa. Ci si gira dall’altra parte, si fa finta che non sia successo niente, sperando che domani possa andare meglio.
Disagio e delusione. Perché a nessuno può essere chiesto di diventare martire o giustiziere, quella è la vocazione degli eroi e “beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”. Ma neanche si può mandare a quel paese mezzo mondo e cercare rifugio sotto una campana di vetro.
È questa la vera solitudine.

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“A Dio” di Vittorio Gassman

Oggi Vittorio Gassman, “il Mattatore”, avrebbe compiuto 95 anni. Una personalità debordante e un artista sublime, versatile, protagonista di pellicole che hanno fatto la storia del cinema. Siamo sempre stati abituati alla presenza scenica imponente di un uomo sicuro di sé, istrionico, per utilizzare l’aggettivo che ne ha sempre accompagnato la carriera. Ma Gassman è stato uomo dai grandi dubbi, fino alla fine. Da quando non c’è più lo associo istintivamente alla poesia (“A Dio”) che la figlia Paola lesse nel funerale, che ritagliai dal Corriere della Sera e che tutt’ora conservo, tanto mi colpì. Versi che appartengono all’uomo più che dell’artista. Un uomo combattuto dall’eterna contraddizione tra fede e ragione, che probabilmente al tramonto della sua vita era riuscito a risolvere. 
Comunque la si pensi in materia di fede, si tratta di versi toccanti e intimi dedicati ad una questione centrale nella storia dell’umanità.

A DIO

Eri, come “La lettera smarrita” di Poe,
nello spazio impensato perché
scontato.
Eri e Sei – forse ora ho capito –
fra le parole che ho tanto usato e
osato;
sempre ci sei stato, eri lì,
ci sei ancora e voglio decifrarti,
stanarti usando sì le parole ma in
modo
diverso e in diverso modo la follia,
il mestiere con cui la parola
mi diventa grafia, mania, nodo,
vuoto suono od effetto. E fola.
Solo quello so fare, solo lì
c’è speranza che Tu adesso compaia,
perfetto,
se vuoi in rima, rimando con te stesso,
in un metro o in un altro. Tu
puoi innalzare al cielo qualunque
prosodia;
purché Tu appaia, le fruste parole
si faranno Parola, e col mio io
sepolto finalmente parlerai,
che mai è stato quel che era forse
destinato
ad essere, un io mancato, strangolato.
Parlami a perdifiato, Ti cedo
ogni suono o silenzio; e già ti vedo
emergere da quella pila di parole
inutilmente sparse nel cassetto,
cancellarne rime e rumore,
facendone linguaggio perfetto.
Cancella anche me, cambiami,
conducimi,
ritraducimi, parla Tu per sempre,
Signore.

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Carmelo Tripodi

Nel 1906 il contesto socio-economico di Sant’Eufemia è quello tipico dell’entroterra aspromontano, caratterizzato da una bassa scolarizzazione, da un indice elevato di mortalità infantile e dal dominio di pochissime famiglie benestanti alle quali si contrappone una massa di contadini e pastori. Accanto ad essi, vi è la presenza significativa di un diffuso e apprezzato artigianato, al quale però corrisponde una scarsa gratificazione economica in un regime che ancora conserva per lo più i caratteri del baratto. Il sistema di trasporto più diffuso è quello a dorso di mulo, anche se da poco una corriera consente di arrivare a Bagnara, mentre per la Littorina bisognerà aspettare ancora vent’anni.
Sant’Eufemia d’Aspromonte si sta leccando le ferite del terremoto che l’8 settembre dell’anno precedente, pur non causando vittime, aveva semidistrutto il paese: 41 case erano state infatti dichiarate inabitabili e subito demolite, mentre 383 erano state gravemente danneggiate (altre 181 avrebbero subito danni nel successivo sisma del 23 ottobre 1907), preparando così il terreno per la tragedia del 28 dicembre 1908, quando fu annientato l’85% del patrimonio edilizio e rimasero sotto le macerie 537 eufemiesi (oltre 2.000 i feriti).
Perché questa premessa? Perché è da questa realtà che, proprio nel 1906, partono verso Palermo due quadri destinati all’Esposizione Campionaria Internazionale: “Galileo Galileo” e “Sant’Antonio abate”. L’autore delle opere si chiama Carmelo Tripodi e i due lavori gli avrebbero procurato le più alte onorificenze: Premio Concorso Universale Gran Corona d’oro con medaglia al valore artistico; Premio dell’Esposizione Gran Premio e Croce Insigne; Premio Concorso Nazionale Targa della Città di Padova. L’anno successivo Tripodi si sarebbe inoltre imposto nel Premio Concorso Internazionale “Gran Coppa d’Italia” e, nel 1912-1913 sarebbe stato eletto membro della Giuria d’Onore all’Esposizione Internazionale di Parigi.
Insomma, da uno dei posti più sperduti e sconosciuti d’Italia salta fuori un talento artistico che riesce ad imporsi in campo nazionale e internazionale. Basterebbero soltanto queste brevi informazioni per illustrare la caratura del personaggio. Un artista a tutto tondo, versatile e dal “multiforme ingegno”, che ha dato lustro alla nostra comunità e del quale occorre perpetuare la memoria.
Carmelo Tripodi nasce infatti a Sant’Eufemia d’Aspromonte il 28 aprile del 1874 (e vi muore il 31 marzo 1950), figlio di Giuseppe e di Teresa Filardi, originaria di Melicuccà. Da ragazzo frequenta la bottega di un pittore del luogo (Versace) che gli trasmette l’amore per il disegno e per la pittura; quindi, nel 1895, si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Messina e, completati gli studi, apre nel paese natio un proprio studio di pittura e scultura. Purtroppo il terremoto del 1908 distrugge gran parte delle opere fino ad allora realizzate, tra queste il monumentale altare per la chiesa di S. Maria delle Grazie, con il bassorilievo rettangolare sopra la nicchia della Madonna e le statue di San Pietro e di San Paolo poste ai due lati, ma il suo lascito rimane comunque di valore assoluto.
Tra le opere giunte ai giorni nostri, oltre ai due lavori già menzionati, hanno riscosso l’apprezzamento dei critici l’olio giovanile “San Rocco e gli appestati” e i dipinti della maturità: “Marie al sepolcro”, “Deposizione”, “Gesù che cammina sulle acque”, “Monaco in meditazione”, “Testa di Gesù”, “Mosè e il roveto ardente”, “Padre dell’artista”, “Suonatore sulla neve”, “Testa di frate”, “Testa di vecchia”.
Carmelo Tripodi sviluppa anche una sua personalissima arte nella lavorazione di stucchi, creta e soprattutto cartapesta: il “Sacro Cuore di Gesù”, che è possibile ammirare all’interno della chiesa di Sant’Eufemia, o il “Cristo alla Colonna” e il “Cristo morto” della Processione dei Misteri ne confermano la grandezza. Altre sue opere sono conservate ad Acquaro di Cosoleto (chiesa di San Rocco), Gioiosa Ionica (chiesa della Pietà), San Procopio (chiesa dell’Addolorata), Palmi (chiesa del Soccorso), in diverse altre chiese e palazzi nobili della Calabria e della Sicilia.
L’eclettismo di Tripodi abbraccia anche il campo della fotografia, che ai primi del Novecento comincia a diffondersi anche nei comuni più periferici. Il figlio Domenico Antonio Tripodi, artista di fama mondiale che, con i fratelli Agostino e Graziadei (“il restauratore al servizio di Dio”), ha ereditato il genio creativo del padre, ricorda l’emozione e lo stupore per quell’esperienza così “nuova” agli occhi di un bambino: «Tante volte, da piccolo, mi sono infilato nella “camera oscura” e sono stato testimone del suo paziente operare; timoroso, mi bastava toccare il suo pantalone per sentirmi rassicurato in quell’oscurità, che sapeva di mistero e di tempo infinito».
Carmelo Tripodi, che ha “prevalentemente immortalato il mondo eufemiese”, ci fa vedere com’era Sant’Eufemia in quegli anni, conoscere i volti degli anziani scavati dalle rughe o la “figura di cacciatore”, infine comprendere nella sua drammatica realtà l’immane tragedia del terremoto del 1908, grazie a scatti che consegnano all’eternità la sofferenza del popolo eufemiese.

*Per ulteriori approfondimenti si veda la pubblicazione “Carmelo Tripodi a cinquant’anni dalla morte”, a cura dei figli e dei nipoti, con il patrocinio del Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Tipografia ABILGRAPH, Roma, ottobre 2000.

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Siate maledetti

Come troppe volte nel corso di quest’estate d’inferno, anche oggi bruciano i boschi attorno a Sant’Eufemia. Incoscienti e criminali, a voi giunga tutto il nostro disprezzo. E siate maledetti.

Siate maledetti per le colonne grigie che imbrattano l’azzurro del cielo.
Siate maledetti per le notti macchiate d’arancio.
Siate maledetti per il bruciore dei nostri occhi.
Siate maledetti per il raschio alle nostre gole.
Siate maledetti per le nostre narici ferite.
Siate maledetti per l’odore di morte appiccicata alla nostra pelle.
Siate maledetti per quest’aria di gesso.
Siate maledetti per ogni albero, per ogni fiore, per ogni ciuffo d’erba incenerito dalla vostra follia.
Siate maledetti perché il vostro fuoco non purifica, non riscalda, non è vita.
Siate maledetti per i funghi che non raccoglieremo.
Siate maledetti per le viole che non fioriranno.
Siate maledetti per i bambini preoccupati: «Dove dormiranno ora gli animaletti del bosco?».
Siate maledetti per il rumore delle pale dell’elicottero.
Siate maledetti per questa caligine di apocalisse.
Siate maledetti per le facce sudate e annerite dei volontari.
Siate maledetti per le frane che arriveranno con le prime piogge.
Siate maledetti perché ogni rogo è una coltellata al cuore.
Siate maledetti per le vostre coscienze ridotte a cenere.
Siate maledetti perché non siete capaci di amare neanche voi stessi.

*Foto tratta dal profilo Facebook di Enzo Comi

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Giovanni Lupini

La ricerca storica può a volte trasformarsi in una sorta di caccia al tesoro. Non tutte le fonti locali sono ordinate, per cui bisogna procedere a tentativi e affidarsi al proprio fiuto. Un’intuizione diventa una traccia da seguire, l’eccitazione della ricerca, il livello di autostima alle stelle quando ci si accorge di averci visto giusto, di avere fatto centro: eureka!
È andata proprio così per capire dove e quando morì Giovanni Lupini, concittadino al quale gli eufemiesi hanno dedicato una delle vie centrali del paese nell’area edificata dopo il terremoto del 1908, conosciuta durante il Ventennio con la denominazione “via XXIII Marzo”, la data di nascita del fascismo che emetteva i primi vagiti nell’adunata di piazza San Sepolcro a Milano (1919).
Ma chi era Giovanni Lupini? Luigi Visalli, fratello del più celebre Vittorio, in un volumetto del 1935 (Vitaliano Visalli e i suoi figli: 1790-1860) racconta le vicende della propria famiglia, che si intrecciano con la storia di Sant’Eufemia nel periodo pre-unitario. Una di queste, dieci anni dopo narrata anche da Vincenzo Tripodi (Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte), vide suo malgrado coinvolto Antonino Lupini, padre di Giovanni, che all’epoca era sindaco di Sant’Eufemia.
Il 13 maggio 1848 il paese fu infatti teatro di una rivolta contro le istituzioni municipali e gli gnuri del luogo, che portò all’occupazione del municipio e al saccheggio delle abitazioni dei notabili: finalità del tumulto erano la distruzione dei registri della fondiaria, la cancellazione delle “prove” delle ricchezze immobili dei proprietari terrieri e la spartizione delle terre comunali tra gli insorti. La sommossa fu sedata in soli due giorni, grazie all’intervento della guardia nazionale comandata da Ferdinando De Angelis Grimaldi.
Il mio primo “incontro” con Giovanni Lupini fu effetto della ricerca sulla storia politica ed amministrativa di Sant’Eufemia nel sessantennio post-unitario, in virtù del reperimento dei documenti relativi alle elezioni amministrative e dei verbali dei consigli comunali, i quali contengono anche alcuni dati personali degli eletti (età, professione), mentre altre notizie fu possibile estrapolarle dai rapporti della prefettura sull’ordine pubblico della provincia.
Avvocato penalista come il padre, ne seguì le orme anche in politica, risultando eletto consigliere comunale già nel 1866, a ventisei anni. Le carte registrano poi un vuoto di quindici anni, ma nel 1881 Lupini riappare sulla scena come presidente della società operaia di mutuo soccorso da lui costituita e tra i promotori delle manifestazioni popolari contro l’applicazione della tassa sul focatico, culminate il 21 novembre con un doppio corteo di protesta. Il primo, composto da circa 500 dimostranti e capeggiato dal calzolaio Antonino Tripodi, fu infatti sciolto dalle forze dell’ordine. Ma la repressione non fece altro che peggiorare la situazione, visto che qualche ora più tardi circa 2.000 persone si riunirono nuovamente e andarono a gridare ancora più forte sotto la casa del sindaco Michele Fimmanò, costretto a cedere ad alcune richieste e a dimettersi insieme alla giunta municipale.
La contrapposizione tra Lupini e Fimmanò aveva avuto in realtà un precedente nelle elezioni politiche del 1880, con il primo schierato al fianco del ricco possidente di Bagnara Carmelo Patamia, mentre il secondo aveva sostenuto il reggino Saverio Vollaro, poi eletto.
Della biografia di Giovanni Lupini, che in seguito (1882 e 1889) fu nuovamente eletto consigliere comunale, non si conosce molto altro. Anzi, fino a pochi anni fa non erano noti neanche la data e il luogo del suo decesso, indispensabili per la stesura del suo medaglione biografico. Fu proprio in tale circostanza, per riallacciarmi alle prime righe di questo articolo, che la ricerca mi portò… nel cimitero di Palmi!
L’età riportata sui verbali delle elezioni comunali consentiva di risalire all’anno di nascita e dava quindi la possibilità di consultare il relativo registro, dal quale si evinceva che Giovanni Lupini (figlio di Antonino e di Domenica Varda) era nato a Sant’Eufemia l’11 aprile 1840. Unica ulteriore annotazione presente era la data del matrimonio con Teresa Passino, celebrato a Palmi il 3 giugno 1878. Niente da fare, invece, per la data della morte che, non risultando nei registri del comune di Sant’Eufemia, “poteva” – forse: chissà! – essere recuperata a Palmi. Valeva la pena fare un tentativo, presto mortificato dalla laconica risposta dell’impiegato comunale: «Negli anni Venti un incendio ha distrutto molti registri dello Stato civile, mi dispiace non potere esserle di aiuto».
Non rimaneva altro da fare che incrociare le dita e fare un giretto all’interno del cimitero di Palmi. Se Giovanni Lupini, come sospettavo, era deceduto a Palmi, potevo ancora sperare di trovare la sua tomba e, con essa, la data del suo decesso. E così fu: la sua morte avvenne il 17 luglio 1891 e il suo corpo riposa oggi nel cimitero di Palmi, all’interno della cappella di famiglia che, per la verità, versa in condizioni di completo abbandono.
Al di là di questo ricordo personale, ritengo che la biografia di Giovanni Lupini meriterebbe di essere approfondita. Magari cercando di recuperare i documenti della società di mutuo soccorso, per verificare quanto egli sia stato influenzato in quell’attività dalla frequentazione di Palmi, città che già nel 1876 contava una S.O.M.S. con la quale, molto probabilmente, egli era entrato in contatto e coltivava rapporti.

*Fonti:
– Luigi Visalli: Vitaliano Visalli e i suoi figli: 1790-1860, Tipografia Genovesi, Palmi 1935.
– Vincenzo Tripodi: Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte, 1945 (seconda edizione con presentazione e note a cura di Antonino Fedele), Vannini editrice, Brescia 1999.
– Domenico Forgione: Sant’Eufemia d’Aspromonte. Politica e amministrazione nei documenti dell’Archivio di Stato di Reggio Calabria. 1861-1922, La città del sole, Reggio Calabria 2008 [in particolare, per la ricostruzione della manifestazione di protesta del 1881, si vedano le pp. 129-151].
– Domenico Forgione: Il cavallo di Chiuminatto. Strade e storie di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Nuove edizioni Barbaro, Delianuova 2013 [Via Lupini, pp. 93-96].

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La colonia dell’Agape 2017

L’immagine della colonia dell’Agape 2017 è del primo giorno di mare. Facciamo il consueto giro per riempire il pulmino e arrivati a casa di M. la troviamo già in strada: appena ci vede arrivare comincia a venirci incontro correndo ebbra di gioia, con il suo sorriso sdentato e bellissimo. In quel sorriso c’è l’attesa di un anno. La sua felicità si scioglie nell’abbraccio alla nostra presidente, che viene quasi stritolata e sollevata letteralmente da terra.
La colonia dell’Agape è un concentrato di immagini, di parole, di emozioni. Le canzoni urlate nella mezzoretta che ci separa dalla spiaggia, quando anche il pulmino sembra fare la hola al ritmo dei tormentoni dell’estate. I balli improvvisati sotto la capanna dell’Agess di Bagnara, che con molta generosità e spirito di collaborazione ci consente di utilizzare le attrezzature del proprio campo estivo. I giochi inventati sul momento e suggeriti proprio dai nostri ragazzi, con un “regolamento” che può subire variazioni in corso d’opera! La “lettera” d’amore per un volontario scritta con caratteri che solo l’amore riesce a decifrare.
E se un giorno piove, pazienza. Si trova sempre il modo per stare insieme, che è – ce l’hanno insegnato proprio loro – la cosa più importante. Anche al chiuso di una casa si può cantare “siamo i patuffi”, mentre G. con la playstation corre e segna come tutti gli altri bambini, si lancia in tackle oppure si tuffa per parare il rigore di un incredulo Higuain, che si mette le mani tra i capelli.
La colonia è la ragazza che ogni estate torna in paese e parte delle sue vacanze le vive da volontaria, proprio come faceva quand’era una studentessa liceale. Un modo per continuare a sentirsi parte di una comunità, certo, che però non si può spiegare senza considerare quanto ha dovuto incidere l’esperienza vissuta in quegli anni. Ma è anche il volontario che mette sempre a disposizione la sua macchina per fronteggiare eventuali imprevisti e al quale, ogni tanto, capita di dover fare più volte avanti e indietro dal paese.
Qual è il senso di queste righe, di questa sorta di resoconto annuale? Il volontariato vive spesso nell’anonimato, lontano dai riflettori. Fare molto e parlare poco è un principio valido, che conferisce maggiore dignità all’operato di chi si impegna in favore degli altri senza aspettarsi niente in cambio.
Oltretutto si sa che su questi temi è facile trovare applausi, likes e ogni altro tipo di complimenti: quindi non è questo il punto, non è questa la ragione della “pubblicità” per la colonia. Il motivo è ben più profondo e nasce dalla considerazione che non bisogna mai dare niente per scontato. Le cose non durano per sempre, se purtroppo – per motivi ahinoi plausibili – sono sempre di meno coloro che si impegnano per farle durare. Questo per dire – banalmente – che le associazioni di volontariato, per svolgere le proprie attività, hanno bisogno di volontari, di gente disposta a rinunciare a qualcosa di sé per dedicare agli altri un’ora, un giorno o una settimana del proprio tempo.
Il tempo dedicato al prossimo non è mai tempo sprecato.

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La chioccia dell’abate Conia

Chi non ha mai utilizzato, né ha sentito pronunciare l’espressione “n’atru ndaviva u stessu, e u mpittau a hhiocca”? Un modo di dire canzonatorio utilizzato per farsi beffe di colui che, fino al singolare incidente procurato da una gallina, condivideva soltanto con un altro esemplare del genere umano il possesso di virtù evidentemente eccelse.
È molto complicato riuscire ad attribuire una paternità certa a motti scherzosi che hanno origine nella tradizione orale e popolare. Questa locuzione molto diffusa nel reggino non sfugge alla regola.
Di recente mi sono imbattuto nella lettura della raccolta delle poesie dell’abate Giovanni Conia (Galatro, 1752 – Oppido Mamertina, 1839), stampata nel 1834 a Napoli “presso Faustino e fratelli De Bonis Tipografi Arcivescovili” e dedicata “a sua Eccellenza il Signor D. Nicola Santangelo, Segretario di Stato e Ministro degli Affari Interni nel Regno delle Due Sicilie”: Saggio dell’energia, semplicità ed espressione della lingua calabra nelle poesie di Giovanni Conia, canonico protonotario della Cattedrale di Oppido, con l’aggiunta di alcune poesie italiane dello stesso.
Non ho le competenze necessarie per esprimere un giudizio critico su un’opera che nel tempo ha ricevuto pareri autorevoli ma a volte discordanti, per i quali rimando al documentato volume di Raffaele Sergio, autore anche del busto in bronzo dedicato all’illustre concittadino dall’amministrazione comunale di Galatro nel 1974: L’Abate Giovanni Conia. Poeta dialettale calabrese. Testimonianze e poesie (Edizioni Parallelo 38, Reggio Calabria 1980).
Tuttavia, è certo che l’abate Conia fu personalità eminente e poliedrica. Rettore e professore di teologia dommatica del Seminario vescovile di Oppido Mamertina, godeva di fama di grande teologo, oratore e umanista (fece anche parte dell’Accademia Florimontana di Monteleone, ramo calabrese dell’Arcadia Romana): ascoltare un suo panegirico o una sua predica diventava un’esperienza indimenticabile per le emozioni che la sua parola riusciva a suscitare tra il pubblico.
La maggior parte delle sue poesie è di carattere religioso o encomiastico, ma a queste vanno aggiunti i componimenti di argomento più leggero, nei quali la vena satirica dell’autore trova piena esaltazione. Ad ogni modo, l’intera raccolta marca un punto importante nella storia della letteratura calabrese, perché il dialetto – più naturale, più semplice e più espressivo – assurge finalmente al rango di lingua letteraria e come tale viene infatti difesa dall’autore in una celebre “tenzone” con l’idioma italiano.
Il sonetto che contiene la nota locuzione dialettale è “Facezia ad un amico alquanto mordace nelle burle, di bassa statura”:

Fora chiacchieri mo: tardu mparai 
D. Ciccantoni cu è: vogghiu laudari 
li schiribizzi soi: quantu lu mari 
su li soi laudi: no li arrivi mai. 
Picciulu vasu, ma nc’è pipi assai. 
È curciu, ma lu diantani passari 
pe malizia lu poti: pe sprovari 
cu avi pacenzia Ddeu mandau ssu guai, 
D. Ciccantoni sì la cruci mia; 
non muti mai; sì duru comu rocca: 
bonu ca non si tratt’a guapparia. 
L’autri vertù li teni a grappu, e schiocca. 
Ti vasta ca omu grandi comu tia 
n’autru nci nd’era, e lu mpittau na hhiocca. 

Non è possibile stabilire se il verso conclusivo fosse già diffuso nella tradizione orale e sia stato quindi sostanzialmente ripreso, non concepito, dal religioso di Galatro. Si può però affermare con certezza che all’abate Conia va riconosciuto il merito di avere dato dignità letteraria ad una locuzione dialettale che tutt’oggi vive nella cultura e nel costume popolare. Anche per questo la bilancia sembra pendere più dal lato dei difensori della grandezza di Conia, la cui autorevolezza ha altri significativi riflessi nella società. Tra i giocatori di “scopa”, ad esempio, è molto diffusa l’espressione “u dissi puru l’abati Conia/ ca cu sett’oru non si cugghiunija”, che sottolinea certo l’importanza del settebello nel gioco delle carte ma, più in generale, consiglia a tutti noi di non scherzare con le cose serie della vita.

*GLOSSARIO ESSENZIALE
Curcio: nano, di piccola statura
Diantani: diavolo
Schiocca: ciocca
Vasta: basta
Mpittau: schiacciò
Hhiocca: chioccia

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Stelle

Il cielo nero era un incanto. Non il nero sbiadito dal bagliore freddo della luce dei lampioni. No. Il buio era buio vero. Come la notte, appunto. Davanti a uno spettacolo del genere ci sentivamo tutti poeti, anche se leggere era un faticoso incespicare sulle sillabe e non sapevamo ancora che siamo tutti nel fango/ ma alcuni di noi guardano alle stelle.
Pazienza, poi, se la poesia andava a farsi benedire, con quel gioco infantile di contare le stelle per farsi venire i porri. Una sfida che non vincemmo mai. Troppi puntini da inseguire con lo sguardo: si finiva sempre per fare confusione, contare più volte o nessuna. L’antica profezia non aveva speranza di realizzarsi, né pertanto potemmo verificare le virtù taumaturgiche del filo di giunco: sarebbe bastato fare tanti nodi quanti erano i porri e, dopo averlo annodato, farlo lasciare in un posto dal quale non saremmo mai passati. Oppure legare il filo alla base del porro, che con un po’ di pazienza sarebbe prima o poi caduto. Un rimedio considerato dai nostri nonni infallibile, potenza del giunco!
Fu in una di quelle notti silenziose e scure che pensai: «da grande farò l’astronomo». Sarei riuscito a rispondere alle domande complicate che il mistero della scenografia notturna suggeriva. Ma poi le cose andarono diversamente e le risposte non sarebbero mai arrivate.
Anche per questo non conosco il mio destino. Mi faccio delle domande, come chiunque. Anzi, è quel chiarore sterminato a farle le domande, a chiedermi che farò della mia vita. Quale sarà il punto d’arrivo di questa corsa affannata, che scioglie la paura della morte nella visione di una meta?
Quando mi sento particolarmente ispirato invento con i puntini i disegni che voglio, unendoli con l’indice sopra la mia testa. Puoi disegnarci quello che vuoi con quei chicchi luccicanti, anche un destino a portata d’umore. Oppure traiettorie indecifrabili. Come tutti noi, del resto: un giorno santi, il giorno dopo assassini.
Sulla lavagna nera scorrono i volti perduti nel tempo. Se si tende l’orecchio, si percepisce persino il brusio di voci lontane. La notte è di chi non c’è e anche noi che la contempliamo sdraiati sul prato – le carezze dell’erba sulla schiena – viaggiamo altrove, in groppa ai traccianti di fuoco che la feriscono e trovano infine la pace nella tasca dell’orizzonte: siamo e non siamo.

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L’eccidio di Fantina

Un episodio poco noto del Risorgimento italiano riguarda la tragica sorte toccata ai sette garibaldini giustiziati dall’esercito italiano il 4 settembre 1862 a Fantina, piccolo centro del messinese all’epoca frazione del comune di Novara di Sicilia e oggi comune autonomo di Fondachelli Fantina.
Una pagina dolorosa, a lungo tenuta nascosta perché imbarazzante per i cantori della vulgata edulcorata e romantica delle vicende che portarono all’unificazione. D’altronde, l’inchiesta avviata dal governo sotto la spinta delle proteste dei giornali repubblicani e garibaldini si era presto conclusa con un nulla di fatto: era stato sufficiente mettere il bavaglio alla stampa e sostituire il magistrato di Messina, deciso a vederci chiaro, con un collega più sensibile alla logica della ragion di stato. Agli inizi del Novecento il sempre combattivo Napoleone Colajanni aveva nuovamente sollevato la questione del crimine commesso da militari “regolari” nei confronti di propri connazionali. Ma Colajanni era una voce nel deserto: i fatti di Fantina andavano cancellati dalla memoria storica nazionale.
A squarciare il velo dell’oblio, centoventi anni dopo, ha provveduto Antonio Ghirelli con L’eccidio di Fantina (Sellerio, 1986), un prezioso volumetto che ha ristabilito la verità storica e restituito la dignità alle vittime in camicia rossa.
Il contesto in cui matura il misfatto è quello della seconda sfortunata spedizione garibaldina, che al grido di «O Roma, o morte!» si prefiggeva di consegnare all’Italia la sua capitale naturale, liberandola dal giogo papale. Non tutti i volontari erano riusciti a raggiungere la Calabria: tra questi vi erano i volontari della “colonna Trasselli”, circa 800-900 uomini che, dopo il ferimento di Garibaldi in Aspromonte (29 agosto 1862), cominciarono a vagare nelle campagne tra Catania e Messina, quindi cercarono di raggiungere Novara di Sicilia per consegnare le armi al sindaco ed evitare così l’umiliazione di una resa alle truppe sabaude. Circa cinquantina volontari persero contatto dal resto del gruppo e, distrutti dalla fatica, cercarono un posto dove trascorrere la notte. Alcuni si addormentarono sui letti asciugati dei torrenti, altri furono ospitati in qualche casa di contadini, altri ancora si rifugiarono nella chiesetta di Fantina. Qui furono sorpresi nel sonno dai soldati del 47° battaglione di fanteria dell’esercito, guidato dal maggiore De Villata e composto in prevalenza da soldati che erano già stati in forza nell’esercito borbonico, prima di venire inquadrati in quello sabaudo. Una sorta di rivincita, quindi, compendiata dalla frase rivolta ai volontari: «Al Sessanta tu ed al Sessantadue noi!».
Subito dopo, un ufficiale comunicò l’ordine giunto dal comando: «Se in mezzo a voi si celano dei disertori, si facciano innanzi. Il Re li perdona e li lascerà immediatamente raggiungere i loro corpi». Ma si trattava di un inganno. I sette che si dichiararono disertori furono portati nel quartier generale al cospetto del maggiore De Villata, il quale li gelò: «Voi siete spergiuri verso la patria ed il Re. In nome della legge militare vigente, voi siete condannati alla pena di morte da eseguirsi all’istante». Per arrestare l’avanzata di Garibaldi, in Sicilia era stato infatti proclamato lo stato d’assedio e, agli occhi del governo, tra briganti e disertori non c’era alcuna differenza.
La pietà dei contadini di Fantina permise di dare degna sepoltura ai fucilati, i cui corpi erano stati abbandonati sulla fiumara. All’alba del 5 settembre furono infatti trasportati in una vicina chiesetta e inumati sotto il pavimento.
Di “martiri dimenticati” parlò l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi nel discorso tenuto il 24 novembre 1984 proprio sotto la lapide murata all’esterno della chiesa, che riporta le parole dettate nel 1890 dal patriota Raffaele Villari: «In quest’albo di marmo/ stanno incisi i nomi/ di eroi trucidati/ sulla contesa marcia di Roma/nel settembre 1862/ ma dalla istoriata pietra/ un torrente di luce si sprigiona/ che ricorda i morti/ che mantengono viva/ e sempiterna l’Italia».
Un’iscrizione in realtà ben diversa dalla formulazione iniziale: «Su quest’albo di marmo/ stanno incisi i nomi/ dei sette eroi assassinati vilmente/ sulla contesa marcia su Roma/ ma dalla istoriata pietra/ si sprigiona/ un grido di vendetta/ all’Italia e a Dio/ contro il carnefice impunito».
Il vile assassinio e il grido di vendetta contro il carnefice impunito non potevano mai essere accettati da un establishment impegnato a cancellare le pagine più buie e controverse della storia nazionale.

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Giugno

Giugno è la metafora della gioventù, con tutta quell’estate in arrivo e l’inverno una preoccupazione lontana. Che un giorno arriverà, ma è ancora troppo presto per pensarci. Giugno invita alla speranza, come il polline che plana nell’aria, come il giallo e il rosso dei suoi lunghi tramonti.
Era giugno quando diventammo una repubblica, quando la democrazia delle elezioni (e il primo voto delle donne) spazzò via un incubo durato vent’anni. Quasi una nemesi di quel giugno che invece ci aveva trascinato in una folle guerra, adoranti sotto il balcone di Palazzo Venezia. Stregati dalla mascella volitiva dell’uomo della provvidenza, sul cui cadavere pochi anni dopo avremmo pisciato e sputato, dopo averlo preso a calci. Scene da “macelleria messicana”, si disse.
Giugno è mio padre incollato alla radiolina in Australia nel 1970, ubriaco di felicità per il gol di Gianni Rivera nella “partita del secolo”. Sono i suoi rulli e la pittura e i ponteggi, il suo andare per poi tornare e poi riandare. E infine noi.
A giugno niente è definitivo, tutto può accadere. Tutto è vita. D’altronde, nella malinconica Giugno ’73, che racconta la fine di una storia d’amore vittima dei pregiudizi borghesi della famiglia di lei, Fabrizio De Andrè chiude con due versi indimenticabili: «Io mi dico è stato meglio lasciarci/ che non esserci mai incontrati». Come se anche nella tristezza vi sia qualcosa di positivo, che in qualche modo spinge a ricercare ovunque la gioia di vivere, a guardare sempre il bicchiere mezzo pieno. Giugno è sempre un bicchiere mezzo pieno.
Giugno è l’Ulisse di Joyce, ogni anno commemorato nel Bloomsday del 16, giorno in cui si svolgono tutte le vicende dei protagonisti di uno dei romanzi più influenti nella storia della letteratura mondiale. Una lettura difficile, una sfida tra ragazzi pensosi che ascoltano e riascoltano Notte prima degli esami, il dito pronto sul tasto rewind per riavvolgere la musicassetta e gli occhi fissi verso il cielo, ad ammirare la notte trapuntata di stelle, a seguire il disegno di un tempo misterioso.
Infine due corpi sudati che scoprono l’amore, avvinghiati sul sedile di un’auto bollente sotto il sole.
Non dovrebbe finire mai giugno. Le sue giornate luminose colorano di speranza anche le sconfitte, sono gravide di un nuovo inizio.

*Foto @azzurraridolfo

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