Le buone notizie del Corriere: Vanni Oddera e la mototerapia

Confesso la mia ignoranza: non sapevo chi fosse Vanni Oddera. L’ho scoperto stamattina leggendo «Buone Notizie. L’impresa del bene», l’inserto settimanale del Corriere della Sera che ogni martedì “dà voce alle buone notizie” proponendo le esperienze positive del Terzo settore, del volontariato, dell’impresa sociale.
Ho letto tre volte l’articolo di Fausta Chiesa (La sfida del centauro: «Vi porto tutti in moto»), poi sono andato a cercare altre informazioni su questa storia bellissima, commovente, entusiasmante, che un mese fa il suo protagonista ha anche raccontato in un libro: Il grande salto. Ovvero come ho capito che l’amore per gli altri rende felici (Ponte alle Grazie, 2017).
Di grandi salti Vanni Oddera è un grande specialista, essendo campione di motocross e freestyler di fama mondiale. Il “grande salto” del libro non è però una delle sue consuete e spericolate evoluzioni. Il centauro di Pontinvrea (piccolissimo paese dell’entroterra savonese) lo realizza nel 2009, dopo un incontro casuale con un “mezzo uomo” a Mosca, dove si trova per un’esibizione: «Mi preparo e mi metto in tasca un po’ di banconote, pronto a godermi una mega festa. Prendo un taxi e appena salgo sento una puzza orrenda. Infastidito, mi sporgo in avanti e vedo che il taxista non ha le gambe. Guida con l’aiuto di aggeggi sul volante ed è difficile per lui scendere per fare la pipì, ma anziché fare l’elemosina lavora. In quell’attimo capisco che io ho tutto, altri nulla».
Tornato in Liguria, racconta Oddera, “sentivo nello stomaco il verme che mi attraversava e non sapevo cosa fare”. Fino a quando non si ricorda di un amico (Chicco) che lavora in una casa per disabili ad Acqui Terme e decide di chiamarlo per proporgli di portare i ragazzi da lui: «Ricordo benissimo quella giornata. Prima mi sono messo a fare il buffone per rompere il ghiaccio, poi ho cominciato con la mia esibizione: salti, accelerazioni. Finito lo show, un ragazzo viene da me e mi dice: “mi fai provare?”. Per qualche secondo la frase mi martella, poi lo prendo in braccio, lo carico fra me e il manubrio e lo porto in giro per i campi. Lui urla, ride, piange. Quando ci fermiamo ha il volto trasfigurato: mi dice che era stata la cosa più bella che avesse mai fatto».
Vanni Oddera inventa così la “mototerapia”. A ogni esibizione si ferma sempre un po’ di più, piano piano altri amici si uniscono poi a lui e insieme costituiscono i “DaBoot”, circa venti motociclisti che gratuitamente fanno circa 50 date all’anno di show, in giro per il mondo: «Già quando accendo la moto e li faccio mettere vicino alle rampe sentono la botta dentro. Il rumore è mostruoso, l’aria si sposta. Quando finisco, li invito a salire con me. Così possono provare anche loro l’ebbrezza della velocità, la sensazione di libertà. Per ragazzi che passano la vita in sedia a rotelle salire in moto è una bomba».
La mototerapia ha effetti positivi: c’è il ragazzo bielorusso malato di tumore che riprende a comunicare con gli altri, dopo essersi chiuso in se stesso; ci sono i bambini dei reparti di ematologia e oncologia di alcuni ospedali italiani che letteralmente si esaltano; c’è la forza della “catena umana” che fa sì che un hotel metta a disposizione la propria struttura per le famiglie dei bambini ricoverati al Gaslini di Genova, gratuitamente.
«Che bello sentire il vento sulla faccia»: la frase che Vanni si sente ripetere più spesso. Il vento sulla faccia. Come le onde del mare o la neve per chi non le ha mai viste.
La felicità spesso è nelle piccole cose, nella routine distratta delle nostre vite: situazioni alle quali non diamo importanza perché sono a portata di mano, perché ci sono sempre state come l’aria che respiriamo.
La lezione di Vanni Oddera è che per fare del bene “basta che ognuno usi la sua passione come chiave per interagire”: «Non serve fare salti mortali». E se lo dice lui, ci crediamo.

*Le frasi riportate tra virgolette sono estratte dall’articolo di Fausta Chiesa: La sfida del centauro: «Vi porto tutti in moto», contenuto in “Buone Notizie”, inserto del Corriere della Sera, 7 novembre 2017)

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M’i dati i morti?

«M’i dati i morti?». Sono sempre di meno i bambini che vanno in giro, casa per casa, a chiedere offerte per i defunti. Ciò avviene sostanzialmente per due motivi. Il primo: perché sono pochi, in generale, i bambini che crescono nelle strade. Sono luoghi che non frequentano e che pertanto non gli appartengono, sballottati come sono tra danza, musica, calcio rigorosamente praticati in spazi chiusi, che non devono conquistare perché ci arrivano accompagnati dai genitori. La stessa cosa accade con le biciclette: al massimo vengono portati in pineta o in piazza e là pedalano, sotto l’occhio vigile della mamma o del papà. Il secondo: perché la globalizzazione sta cancellando consuetudini secolari e ha trasformato la ricorrenza dei defunti in un carnevale americano, con tanto di streghe e maschere di mostri che nulla hanno a che fare con il significato intimo della nostra tradizione. Che invece affonda le radici nell’incontro simbolico tra vivi e defunti, nel bisogno di mantenere un legame tra i due mondi.
La richiesta di cibo rappresentava proprio lo strumento di questo incontro simbolico, perché “i questuanti non sono altro che vicari dei defunti e il cibo loro offerto viene considerato un’offerta fatta ai defunti”. Il virgolettato è preso in prestito da Vito Teti, che fa riferimento alla tradizione degli “strinari” (da “strina”: dono, strenna), ma vale per tutti quelli che egli definisce “viaggi rituali e vicari dei morti”: ad esempio, i “mascherati” che uscivano dopo il tramonto durante il periodo di Carnevale o, appunto, i questuanti “per i morti”.
Le offerte consistevano per lo più in castagne, noci, uva, cachi, fichi secchi, mele, pere, cioccolatini e caramelle. Ma c’era anche chi offriva monete di piccolo taglio, che venivano poi investite per l’acquisto di leccornie da dividere tra i componenti della piccola comitiva. Chi apriva la porta dava “da mangiare” ai bambini perché essi rappresentavano le anime dei propri defunti, i quali avrebbero sofferto molto nel caso (molto improbabile) di un rifiuto.
In Sicilia, ricorda Andrea Camilleri, nella notte tra l’1 e il 2 novembre i bambini collocavano invece sotto il letto un cesto di vimini che la mattina avrebbero trovato riempito di dolci (i “morticini”), di giocattoli, di pupazzi di pezza. Erano regali lasciati dai defunti e i bambini avrebbero ricambiato quella visita notturna recandosi al cimitero, la mattina della “festa dei morti”.
La simbologia (e anche l’emozione) dell’incontro con i defunti è del tutto assente nella tendenza importata d’Oltreoceano. Commemorare i defunti significava annodare presente e passato e indicava ai bambini l’importanza di onorare le proprie radici. La festa di Halloween mi pare che non insegni niente di tutto questo: non la demonizzo, ma è un’altra cosa.

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Le nozze di platino di Ninuzzo e Micuzza

Prima dell’espansione urbana degli anni Ottanta nelle contrade Giovancortese, Castellano e Arena esistevano pochi nuclei abitativi, dal carattere per lo più familiare. Un’espressione che ancora sopravvive nel linguaggio popolare rendeva l’idea della perifericità di quest’area: “calu ’o paisi” dicevano infatti i suoi abitanti quando intendevano recarsi nel centro del paese. La presenza di un albero di noce in seguito abbattuto accomunava inoltre Giovancortese e Castellano con il toponimo ’a nucara. Per “scendere” al Petto si percorreva la via Arena ancora sterrata, che a un certo punto si restringeva in un viottolo stretto e scosceso. In quegli anni era così.
Ma erano anche tempi in cui i rapporti di vicinato avevano il carattere familiare tipico delle rrughe di un tempo. Anche chi arrivava “da fuori” finiva per sentirsi parte di una famiglia più allargata. Così è stato per la mia famiglia: i nostri vicini Micuzza e Ninuzzo Condina sono stati per noi qualcosa di più che semplici vicini di casa. La stessa cosa vale per la figlia Nina che abitava proprio nel piano sopra di noi e per gli altri figli, le cui voci si rincorrevano di balcone in balcone tutto intorno. Ma al centro c’erano loro due: Ninuzzo con quel suo fisico da omone burbero che incuteva timore e Micuzza con la sua dolcezza naturale, con quel sorriso che oggi più che mai fa emozionare.
Era una società fatta di semplicità e di affetto genuino. Mia mamma, per loro, è stata davvero un’altra figlia: non è retorica, è la realtà. Quando Micuzza arrivava dalla scala esterna che univa la loro casa al pianerottolo della nostra, aveva sempre qualcosa in mano: “cimedde” e amaretti preparati nel forno a legna, conserve sott’olio, olive “scaddate” o sotto sale, frutti del suo giardino.
Ninuzzo e Micuzza sono al centro di Giovancortese anche oggi che hanno 97 e 95 anni; ora che – sabato 28 ottobre – festeggeranno 75 anni di matrimonio. C’era la guerra nel ’42 e soltanto la sua buona stella consentì al marinaio Antonino Condina di uscire indenne da quella tragedia, anche se vide i corpi carbonizzati dei morti e udì le urla strazianti degli ustionati nel bombardamento alleato della base navale di La Maddalena, il 10 aprile 1943, quando furono attaccati gli incrociatori “Trieste” (che fu affondato) e “Gorizia” (che nonostante i gravi danni riuscì a riparare a La Spezia): 140 vittime e circa 200 feriti gravi.
Da allora il mondo è cambiato, ma questa coppia dalla straordinaria longevità continua ad essere il centro di Giovancortese, perché quest’area si identifica con la loro storia: la storia di una civiltà contadina che ha ancora tanto da insegnare: sacrificio, lavoro, generosità. Gente semplice che ha speso la propria vita per offrire ai figli una possibilità di crescita.


Ninuzzo e Micuzza sono il cardine di una famiglia che nel tempo si è sparpagliata in Italia, negli Stati Uniti e in Australia: sette figli, diciassette nipoti e trentadue pronipoti che in paese però tornano di continuo, a turno, perché qua trovano ristoro: nel sorriso di Micuzza che sconfigge la malattia e nell’energia di Ninuzzo che tutti i giorni si siede a bordo della sua mitica Golf amaranto per andare in farmacia o all’orto, da dove torna con mazzetti di fiori di zucca e buste di cetrioli, zucchine e pomodori da regalare a parenti e amici.
Il richiamo della terra è elisir di lunga vita, quella terra lavorata con la zappa da ragazzo e che ha sempre continuato a lavorare: anche quando ha cominciato a fare altro, quando dall’asino è passato al camion e agli altri mezzi di cantiere necessari per dare l’avvio all’urbanizzazione di Giovancortese.
Ninuzzo, l’ultimo cestaio del paese, che intreccia sapientemente i “panari” tra un gioco enigmistico e l’altro. E che ancora pianta alberi, perché “tra qualche anno faranno i frutti”. C’è della magia in questa concezione del tempo che si fa beffe dell’età.


E c’è della magia nel sorriso di Micuzza, anche quando sembra giungere da un mondo altrove: un mondo fatto di ricordi confusi e faticosi, che solo l’amore di figli e nipoti può in qualche modo mettere insieme per tentare di ricavarne un senso.
Quella stessa magia che si respirava quando, da bambini, assistevamo al rito dell’apertura delle valigie di qualche loro figlio di ritorno dall’estero per dividerci gli Hershey’s Kisses, i cioccolatini americani a goccia con la caratteristica “miccia” che spuntava dall’incarto argentato. La stessa magia che si spande nell’aria quando Ninuzzo abbraccia Micuzza e dice: «’A me’ figghiola».

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Horcynus Orca: un’arcalamecca di parole

Horcynus Orca è un romanzo sulla morte. Reale o metaforica, la sua presenza aleggia dalla prima all’ultima delle pagine che raccontano il ritorno a casa, sponda messinese dello “scill’e cariddi”, del “marinaio della fu Regia Marina” Ndrja Cambrìa dopo l’8 settembre 1943 e la sua successiva partenza per andare incontro alla morte. Nella narrazione di Stefano D’Arrigo riecheggiano Omero e Joyce, ma le chiavi di lettura sono tante e stratificate su più livelli. C’è il mito del ritorno dell’eroe dalla guerra, ci sono i personaggi omerici e c’è ovviamente Ulisse, che però non si salva perché in D’Arrigo – osserva Walter Pedullà – egli non è un bugiardo.
E poi c’è l’Orca, l’immortale Orca che muore, subito dopo seguita da Ndrja e dalla fine del romanzo, “evento che l’autore ha rimandato oltre ogni limite”. Perché Horcynus Orca è soprattutto “un’odissea della parola” e uno sforzo fisico immane, sfibrante come la seconda parte, nella quale l’autore gira attorno alle parole in maniera ossessiva, circolare. Il racconto è composto da “quadri”, ferite che ricordano la piaga dell’Orca: è proprio lì che prendono forma i 56 episodi “collaterali e confluenti” conteggiati da Pedullà. Un’impresa titanica che impegnò D’Arrigo per circa vent’anni: La testa del delfino (che contiene già la trama di Horcynus Orca) fu infatti scritto tra il 1956 e il 1957, mentre gli anni dal 1958 al 1961 furono assorbiti dalla sua revisione (I giorni della fera; I fatti della fera); infine, quindici anni di riscrittura, innesti, varianti, aggiunte e digressioni che porteranno al romanzo del 1975, che assume il titolo definitivo e raddoppia il numero delle pagine.
La lentezza e la lunghezza di alcuni passaggi a volte possono scoraggiare il lettore, ma sono funzionali al rinvio dell’appuntamento di Ndrja con la morte, che arriva improvvisa come lo squarcio di un fulmine nel cielo. Prima però le digressioni si moltiplicano: i giochi di parole trascinati all’infinito, come l’indimenticabile calembour sulla parola “barca”, che può diventare salvezza (“arca”) o fine di tutto (“bara”); i brani dedicati a quel personaggio mitologico che è Ferdinando Currò; il dialogo tra Ndrja e don Luigi Orioles; il monologo interiore di Ndrja sullo sperone, da dove osserva l’agonia dell’Orca.
Se l’ossessione di Ndrja è la morte, che sembra inseguire con una foga suicida, quella di D’Arrigo è la parola, che mette “sotto torchio” mediante la sperimentazione di un linguaggio arcaico e nuovo nello stesso tempo. La lingua è infatti il vero protagonista del romanzo: i termini inventati e la scrittura “parlata”, che recupera frasi e modi di dire del dialetto siculo-calabro, quel “parlato popolare [che] dice una cosa semplice e ne suggerisce cento complesse”.
Quando, dopo avere sottoposto il figlio a innumerevoli prove, Caitanello Cambrìa finalmente si convince che quello che ha di fronte è proprio Ndrja tornato dalla guerra, lo mette a sedere per dirgli “due parolette, su una faccenda personale”, ma si fa alba: «Era incinto, implenato di parole, con le voglie e le doglie di parlare che gli scappavano da tutte le parti: doveva sgravarsele all’istante, tutte quelle parole bell’e fatte, che lo spingevano di dentro, sennò gli morivano e gli facevano setticemia».
Un passaggio autobiografico che rivela l’implenamento dell’autore stesso e che spiega la lunghissima gestazione del romanzo, “arcalamecca” e “mille e una notte” di parole.

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Per l’istituzione della commissione toponomastica

Stamattina ho presentato la richiesta di inserire all’ordine del giorno
del prossimo consiglio comunale un punto con oggetto l’istituzione della
commissione toponomastica. 
La memoria storica è il collante di una comunità, la ragione dello stare insieme e del sentirsi protagonisti di un destino comune. Per questo motivo auspico che il consiglio comunale riesca a lavorare sulla mia proposta con spirito unitario e che vi sia il massimo coinvolgimento possibile della cittadinanza.

*La proposta di istituire la commissione consiliare “toponomastica” risponde a due ordini di motivi. Il primo, di carattere pratico, attiene all’esigenza amministrativa di governo del territorio mediante la predisposizione di un’adeguata toponomastica laddove esistono strade, vicoli e spazi pubblici privi di alcuna denominazione.
La seconda esprime invece un alto contenuto ideale di tutela della memoria collettiva, considerato che il lavoro della commissione dovrebbe essere finalizzato alla valorizzazione del patrimonio storico e culturale di Sant’Eufemia, alla riscoperta del senso di comunità, all’orgoglio di sentirsi eufemiesi.
La toponomastica, quindi, come strumento di gestione del territorio che consente di tramandare la storia locale coltivando il ricordo delle personalità che hanno dato lustro alla comunità nel campo dell’arte, della scienza, della cultura, del sociale, della politica.
La toponomastica attuale è molto datata: salvo qualche sporadica eccezione (Largo Giovanni Paolo II e Piazza Giorgio La Pira), è infatti rimasta ferma al secondo dopoguerra. Ed è altresì inconcepibile che a Sant’Eufemia vi sia una sola strada dedicata a una donna (via regina Margherita): compito della commissione dovrebbe essere anche quello di sanare tale ingiustizia; ancora, essa potrebbe finalmente porre rimedio alla presenza di veri e propri errori storici (esempio: sostituire “Via Ruggero VII”, inesistente personaggio storico, con “Via Ruggiero Settimo”, che fu protagonista del Risorgimento italiano e primo presidente del Senato del Regno dopo l’unificazione nazionale).
La commissione, da istituire nel rispetto del criterio di rappresentanza proporzionale tra maggioranza e minoranza consiliare, svolgerà l’incarico a titolo gratuito, per cui il suo lavoro non comporterà alcun onere per l’Amministrazione. Inoltre, nell’ottica di promozione del ruolo responsabile e propositivo della cittadinanza attiva, essa sarà aperta al contributo dei singoli cittadini e delle associazioni secondo modalità che saranno definite con un apposito regolamento.

*Relazione illustrativa allegata alla richiesta di inserimento, nell’ordine del giorno del prossimo consiglio comunale, della proposta di istituzione della commissione toponomastica.

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Tipi da Facebook

Si legge poco e si naviga molto, è un dato incontestabile. Il rapporto Censis del 2016 è per certi versi impietoso: a dispetto dell’alta percentuale di laureati, i “lettori forti” (più di 12 libri in un anno) sono solo il 13,7%. Sono cambiati i canali di informazione, come conferma il crollo dei lettori di quotidiani tra 2007 e 2016 (-26,5%). Dopo il telegiornale (63%), è Facebook la principale fonte d’informazione per gli italiani (35,5%): più indietro i giornali radio (24,7%) e, appunto, i quotidiani (18,8%), superati anche dai motori di ricerca (19,4%), poi a seguire troviamo YouTube (10,8%) e Twitter (2,9%). Facebook è uno strumento pratico per la rapidità della ricerca degli articoli che siti o contatti personali condividono: notizie di cronaca, post di approfondimento, comunicati stampa, eventi. Nonostante il conflitto non ancora risolto tra news e fake news, tra informazione e disinformazione, il social di Zuckerberg da questo punto di vista è utile. Ciò ha però prodotto anche una sorta di mutazione “antropologica”: senza scomodare Umberto Eco, è innegabile che l’utilizzo dei social da parte di molti utenti non sempre risponde allo scopo di informarsi, mantenere/riallacciare rapporti con amici e parenti lontani (una benedizione), condividere con gli altri momenti importanti della propria vita: avvenimenti, “successi” (una pompatina al proprio ego fa sempre bene, inutile negarlo), dolore e dispiaceri (ma qua si potrebbe aprire una parentesi infinita su tempi e modalità, riservatezza e pubblicità di sentimenti intimi e personali). Eh, no: “oltre”, c’è tutto un mondo da studiare. Un compito che esula dalle mie capacità, per cui mi limiterò soltanto a tracciare un breve profilo dei “tipi” che più mi fanno divertire, ma anche riflettere: mi incuriosisce cercare di comprendere certi meccanismi mentali, anche se spesso non resta altro da fare che alzare le braccia e sorridere. Ma procediamo con ordine.

L’ALLUSIVO – Non è mai diretto, ma è come se lo fosse. In una comunità virtuale nella quale tutti conoscono tutti, non è complicato intuire il destinatario di una frecciatina. Però l’allusione aggiunge un tocco di sottigliezza alla volgarità dell’attacco frontale e in più, particolare da non sottovalutare, consente di raccogliere qualche consenso in più perché offre al potenziale sostenitore la possibilità di salvarsi in calcio d’angolo: «Sì, ho messo mi piace e ho commentato quello stato, ma non credevo fosse riferito a te».
IL CATASTROFISTA – Svolge una funzione sociale. Terremoti, alluvioni, frane, cicloni, cadute di asteroidi sulla Terra ed estinzione dei ghiacciai sono il suo pane quotidiano. Se c’è una sola nuvola nel cielo, state tranquilli. Siete in una botte di ferro. Lui ne seguirà l’evoluzione fino a quando potrà finalmente mettervi in guardia: «Restate tappati in casa!».
L’EPURATORE – Ha un’attività ciclica, che si manifesta puntuale come il disco di Mina a Natale. I suoi ultimatum nascondono una propensione palingenetica volta alla realizzazione della “soluzione finale” contro vagabondi e parassiti del web. Che sarebbero tutti quelli che non interagiscono con lui commentando o “mipiaciando”. Inaccettabile, per cui: «Raus! Presto farò un po’ di pulizia tra i miei contatti!».
IL MALATO – Di lui sappiamo se ha il termometro a mercurio o quello elettronico, le medicine che prende, i dolori di testa insopportabili, eventuali cadute o indigestioni. Più che un profilo Facebook quello che abbiamo davanti è un foglio di anamnesi. D’altronde, il filosofo contemporaneo Peppe Voltarelli ha ragione quando sostiene che il lamento è una forma di godimento. Il top però viene raggiunto con la “registrazione” presso un ospedale, senza ulteriori informazioni. La solidarietà così obliquamente cercata in quel caso “deve” scattare immediata: «Che ti è successo?».
IL QUESTUANTE – Si muove nella penombra della messaggistica privata, dove solo tu puoi vederlo. Arriva con passo felpato quando meno te l’aspetti, anche se in genere preferisce essere il tuo buongiorno con una richiesta che – santiddio – non dovrebbe costarti niente esaudire: «Lo metteresti un “mi piace” allo stato che ho appena pubblicato?».
LO SGAMATORE – Aggiorna raramente il suo stato e ancor meno interagisce con i suoi contatti, dei quali però conosce vita, morte e miracoli “virtuali”. In pratica utilizza Facebook esclusivamente per tenere sotto controllo gli amici, ai quali ogni tanto rivela le sue sensazionali doti da Sherlock Holmes facendo l’occhiolino e sussurrando all’orecchio: «Sei andato al mare a Scilla, eh?».
IL SORVEGLIATO – È un perseguitato. Spiato in tutto quello che fa: pubblica uno stato e i suoi contatti, pensate un po’, lo leggono. Kgb, Cia, Mossad e Stasi gli stanno sempre col fiato sul collo per carpire informazioni che verranno poi decodificate da un cervellone centrale. Nel frattempo, i suoi stati sono passati al setaccio dai suoi contatti, che – sicuro – li commentano privatamente, nei bar, dal fruttivendolo o dal parrucchiere. Ma lui non teme nessuno: quello che deve dire, lo dirà.
IL TAGGATORE – Pubblica qualcosa e ti “tagga”, magari insieme ad altre venti persone ignare come te. Perché in quel momento tu non sei con lui! Passi per un articolo o un evento che può interessarti, per la condivisione di uno stato d’animo comune, ma il tag in una foto mentre sorseggia l’aperitivo è decisamente troppo: non te lo metto il “mi piace”, tirchio.
IL TATTICO – Il suo “mi piace” è sempre calcolato, mai messo a caso. Una forma di captatio benevolentiae per dimostrare interesse/simpatia e, nello stesso tempo, sperare di suscitarne in virtù della legge non scritta sul contraccambio della cortesia. Vive costantemente in bilico tra l’ansia di farsi vedere e la paura di esporsi troppo. In fondo, lui è un trapezista dei sentimenti.

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La tua vita, il mio dono

«Questo libro è il mio inno all’amore». Una lezione sul trionfo della vita: passato, presente e futuro sublimati nel sorriso di una mamma che non avrebbe potuto amare di più quel bambino “con un cromosoma pazzo e un sorriso che scioglieva il cuore”, se avesse “corso, saltato, cantato” come qualsiasi altro suo coetaneo. Una mamma alla quale non è mai pesato non ascoltare la parola “mamma” pronunciata dal figlio: «i tuoi occhi ed il tuo costante sorriso mi riempivano il cuore come nessuna parola al mondo avrebbe potuto fare. Sono fiera e orgogliosa, non finirò mai di ripeterlo, sono fiera e orgogliosa di essere stata la tua mamma; la tua vita, il dono della tua vita, il regalo più grande che Dio, Gesù e la Madonna abbiano potuto fare al tuo papà e a me».
Un inno all’amore che sconfigge anche la morte, che spinge un paese intero ad assistere alla prima uscita ufficiale del libro nella sala conferenze dell’Hotel “Il Gattopardo” di Brolo, diventata troppo piccola per contenere la gente che tracima nel corridoio e poi ancora giù nelle scale. Commozione e gioia sui volti degli amici di Ignazio Raffaele e Mimma Giuliano, su quelli dei compagni di scuola di Ninuccio. Una comunità che “festeggia la vita”, per parafrasare il titolo di un capitolo del libro scritto a quattro mani da Mimma Giuliano e Azzurra Ridolfo (“l’amica che abbiamo avuto sempre accanto”): La tua vita, il mio dono. Mimma racconta Nino (Armenio Editore, 2017).
Sì, per festeggiare la vita. Questo mistero insondabile che ci sforziamo di comprendere, di etichettare con categorie inadeguate. Quando invece occorrerebbe lasciarsi inebriare dai suoi infiniti odori, spalancare gli occhi e farsi accecare dai suoi colori più forti, gustarla in tutta la sua pienezza. Sempre. Vita e morte, morte e vita: Yin e Yang che si tengono insieme facendosi beffe delle difficoltà dell’uomo incredulo di fronte all’arcano.
Il libro ripercorre, anche per immagini, la breve ma intensa parabola terrena di Ninuccio, sedici anni di presenza centrale nella vita della sua comunità. La grandezza di questa storia sta nel suo essere esperienza condivisa; sta in una quotidianità che non è soltanto quella intima del rapporto tra genitori e figlio disabile, ma si snoda su più livelli. La famiglia, certo. Non tutti i bambini disabili hanno la fortuna di possedere due genitori come Mimma e Ignazio: «Avevamo capito quanto rara fosse la tua malattia e, di conseguenza, quanto speciale fossi tu. Eravamo stati scelti per crescerti, era la nostra missione, dovevamo esserne fieri. E lo siamo stati». Parole che rafforzano il monito di Giuseppe Pontiggia nel suo Nati due volte, al quale si ispirò Gianni Amelio per girare Le chiavi di casa: «Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso difficile. La seconda dipende da voi, da quello che saprete dare. Sono nati due volte e il percorso sarà più tormentato. Ma alla fine anche per voi sarà una rinascita».
Il livello chiassoso e colorato della scuola, “anni “stupendi” che fanno sentire Ninuccio parte integrante di una comunità che cresce insieme a lui, perché la sua vita – e questo è il terzo livello – diventa romanzo di formazione per tutti, gioco di squadra che abbatte steccati mentali e barriere architettoniche e che trova nell’associazione di volontariato La Rosa Blu uno strumento di lotta efficace: «La solidarietà vera non è fatta di sterili parole, sguardi compassionevoli e pacche sulla spalla per dar forza e coraggio. La solidarietà vera consiste nell’aiutare e nell’interagire con la disabilità, nel nostro caso con bambini speciali che gioivano della compagnia, dell’aiuto, della presenza, del sorriso dei loro coetanei più fortunati».
L’immagine di Mimma che spinge la carrozzina di Ninuccio ed è sempre accompagnata da ragazzi, amici o parenti spiega con forza la dimensione empatica di una storia dal carattere universale. Una lezione di umanità e di dignità che invita a guardare il mondo con fiducia e con speranza anche quando il dolore prevale, anche quando la morte chiama a sé una persona amata: e che indica nell’amore per gli altri e per la vita il senso della propria stessa esistenza.

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Un po’ d’acqua sui fuochi

Invitato da più parti ad esprimere la mia opinione sui “fatti” dell’Entrata di Sant’Eufemia, proverò a (non) farlo. La vicenda è nota a tutti: ieri la tradizionale “Entrata” della statua di Sant’Eufemia sotto i fuochi d’artificio ha seriamente rischiato di saltare. Un colpo al cuore per chi è legato a una tradizione che fa parte del patrimonio storico e religioso della nostra comunità: credenti e non credenti, praticanti e non praticanti. Qualcuno ha pianto di fronte a una prospettiva che non riusciva ad accettare, altri hanno dato sfogo al proprio disappunto sui tanti strumenti di comunicazione che la moderna tecnologia mette a disposizione. Ho seguito anch’io il “dibattito” che ne è venuto fuori, su facebook e su qualche chat di whatsapp. Infine, quasi inaspettata, la notizia che tutti attendevano è giunta: «L’Entrata si farà».
Questi i fatti, nudi e crudi. Attorno ad essi – durante, ma soprattutto dopo – si è scatenata la ridda delle ipotesi e delle accuse, sui quali non intendo tornare per un semplice motivo: io, come la gran parte delle persone a vario titolo coinvolte, non ho elementi di valutazione concreti.
Penso però due cose. La prima: non sempre è necessario, né utile, dire la propria, a maggior ragione quando non si ha il quadro completo di quello che è accaduto. La seconda: l’importante, per tutti, è che alla fine l’Entrata c’è stata.
Quest’ultimo aspetto non va affatto sottovalutato, anzi a mio modo di vedere è l’unico che conta. Ieri sera al termine della processione e oggi in diverse chiacchierate, ho potuto apprezzare come in tanti non hanno tirato in ballo nessun “retroscena” della vicenda. Si sono invece quasi tutti soffermati sull’aspetto emotivo del quasi annullamento dell’Entrata, sull’altalena di sentimenti vissuti in una giornata incredibile: l’amarezza avvertita prima e l’esplosione di gioia finale. Anch’io, guardandomi intorno dietro la transennatura che perimetrava la piazza antistante la chiesa, ho percepito questa sensazione. Mano a mano che passavano i minuti e l’Entrata sembrava nuovamente a rischio, sulla faccia dello spettatore “comune” – disinteressato, oserei dire – leggevo tristezza e delusione, nient’altro.
Non amo le tifoserie e mi tengo sempre lontano dalla caccia alle streghe, dai “dagli all’untore”. Non mi piace dividere il mondo in buoni e cattivi, le cose in bianche e nere, i comportamenti in giusti e sbagliati. Preferisco lasciare agli altri le verità assolute e coltivare, invece, il seme del dubbio; né mi fido delle deduzioni troppo semplici, quasi scontate. Penso anche che le parole possono davvero diventare pietre, per cui andrebbero usate con molta cautela e parsimonia. A maggior ragione quando non si ha piena contezza dell’accaduto.
Io non ce l’ho, nonostante il tanto parlare di queste ore. Preferisco quindi sottolineare l’aspetto positivo di un’Entrata bella, fortemente sentita proprio a causa di tutte le difficoltà emerse e superate. Vivremmo in un mondo migliore se riuscissimo a godere di quello che abbiamo, se riuscissimo a gustare il presente esprimendo gratitudine a tutti coloro i quali hanno consentito la realizzazione di uno spettacolo che fa parte della nostra identità eufemiese, ognuno nel proprio ruolo e con differenti responsabilità: dal comitato feste alla ditta dei fuochi d’artificio, dai portatori della statua all’amministrazione comunale, dal pubblico tutto sommato composto (nonostante la tensione) alle forze dell’ordine e ai volontari della protezione civile. Senza perderci in una conflittualità estenuante e incomprensibile.
La festa patronale deve unire, non dividere: altrimenti avremo fallito tutti.

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Elogio della tartaruga

In una celebre favola di Esopo, la tartaruga si aggiudica la sfida contro la lepre che, pensando di avere già vinto, si ferma a metà gara e, tra altre perdite di tempo, addirittura si addormenta. La tartaruga, invece, nonostante il passo lento riesce a tagliare per prima il traguardo, vanificando il tardivo tentativo di rimonta della lepre. «Non serve correre, bisogna partire in tempo», questo l’ammonimento: per raggiungere qualsiasi risultato, occorre impegno e costanza.
Nel mondo di oggi c’è sempre meno spazio per le tartarughe. Chi si ferma viene anzi calpestato da chi arriva da dietro a tutta velocità. Non abbiamo il tempo di riflettere su cosa realmente vogliamo, dove stiamo andando, perché ci stiamo andando. La vita sembra essere diventata una corsa affannata fine a sé stessa.
Invece andrebbe riscoperto il valore della lentezza. Qualcuno lo fa, ad esempio gli organizzatori della Giornata mondiale della lentezza, quest’anno giunta all’undicesima edizione, i quali invitano a “vivere con lentezza, vivere al ritmo del tempo”. Un modo per ritrovare l’armonia perduta con la natura, un proprio equilibrio personale, dedicarsi alla riflessione, godere del piacere della riflessione. Oggi si riflette poco, forse perché per riflettere c’è bisogno di silenzio, e invece siamo bombardati dal rumore, che non è soltanto il chiasso delle nostre metropoli, ma l’ossessione di dire la qualunque su qualsiasi argomento, con una verbosità compulsiva.
Bisognerebbe studiare da tartaruga. Che tra l’altro è una bestiolina simpatica. D’altronde, chi non ha fatto il tifo per lei nel paradosso di Zenone, anche se il ragionamento del filosofo greco non ci convinceva affatto ed eravamo sicuri che Achille, alla fine, l’avrebbe raggiunta e superata?
Con i suoi spostamenti al rallentatore la tartaruga sembra invitare a vivere il presente in maniera più piena, a mettere da parte la frenesia per ciò che ci riserverà il futuro. Tanto il futuro arriverà lo stesso. La corazza serve a proteggerla dai pericoli: la propria salvezza, questo il messaggio, la tartaruga la trova dentro se stessa. Anche l’uomo ha necessità di costruirsi una corazza, con valori e ideali: quelli saranno il nostro rifugio, la nostra àncora di salvezza quando attorno tutto sembrerà franare.
La proverbiale longevità della tartaruga non sarebbe possibile senza un elevato spirito di adattamento. Non a caso viene associata al concetto di resilienza, la capacità di resistere agli urti della vita e riprendere il cammino, rimbalzando. La tartaruga sa fare tesoro dei propri errori, sa regolarsi di conseguenza. Come “la bella tartaruga” di Bruno Lauzi, che un tempo fu “un animale che correva a testa in giù/ come un siluro filava via/che mi sembrava un treno sulla ferrovia/ ma avvenne un incidente/ un muro la fermò/ si ruppe qualche dente/ e allora rallentò/ […] andando piano lei trovò/ la felicità/ un bosco di carote/ un mare di gelato/ che lei correndo troppo/non aveva mai notato/ e un biondo tartarugo corazzato/ che ha sposato un mese fa”.
La tartaruga è un animale saggio e la saggezza non va mai d’accordo con la fretta: richiede calma e un avanzare per gradi, con passo da montanaro. Chi va di fretta, oltretutto, si perde il paesaggio. Chi invece cammina lentamente ha tempo per osservare attorno a sé ed è padrone del tempo e dello spazio: decide quale direzione prendere, quando e dove sostare. La lentezza è il ritmo delle trasformazioni, ma anche l’antidoto più efficace contro l’oblio.
Lo sottolinea Milan Kundera (La lentezza, Adelphi 1995): «Nella matematica esistenziale il grado di lentezza è direttamente proporzionale all’intensità della memoria; il grado di velocità è direttamente proporzionale all’intensità dell’oblio. Da tale equazione si possono dedurre diversi corollari, per esempio il seguente: la nostra epoca si abbandona al demone della velocità ed è per questo motivo che dimentica tanto facilmente se stessa. Ma io preferisco rovesciare questa affermazione: la nostra epoca è ossessionata dal desiderio di dimenticare, ed è per realizzare tale desiderio che si abbandona al demone della velocità; se accelera il passo è perché vuole farci capire che oramai non aspira più ad essere ricordata; che è stanca di se stessa, disgustata da se stessa; che vuole spegnere la tremula fiammella della memoria».
Per sconfiggere la malattia dell’oblio e coltivare una speranza di felicità, è necessario dunque rallentare, fermarsi. Riuscire a godere del presente. La vita è come un buon vino: va gustata lentamente, con perizia da sommelier.

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Il passaggio dell’uragano Irma da Miami, in presa diretta nel racconto di Juan



Una testimonianza del passaggio di Irma da Miami poche ore fa, raccolta da mio fratello Mario

«Credo stia piovendo però non posso guardare fuori perché è tutto ricoperto. Abbiamo inchiodato delle lamiere su porte e finestre. In pratica siamo barricati dentro. Topi in gabbia. Non resta che aspettare».
Il mio amico Juan vive a South Beach, dove in queste ore sta passando Irma. È però ospite di una sua amica, in un quartiere più a nord. Al momento è al buio, perché non c’è più elettricità e le batterie è meglio conservarle per quando se ne avrà realmente bisogno.
Lui ha dovuto evacuare perché la sua casa è a rischio inondazione. Ha preso con se ciò che poteva, serrato la porta di casa, ed è andato. Essendo uno che per alcuni anni a Londra si è mosso di quartiere in quartiere con il proprio mondo rinchiuso in una valigia senza ruote, so come il mio amico si senta. Abbandonare, lasciarsi dietro il non indispensabile; è la praticità della vita che ti colpisce in pieno viso quando ti rendi conto che non trovi più cose che avresti voluto conservare per sempre. Il timore di Juan è che domani potrebbe ritrovarsi senza casa. Ha lasciato il Venezuela un mese fa, dopo aver conseguito una qualifica di ingegnere civile ad Havana, che non potrà usare in America perché non conosce l’inglese come vorrebbe. “Il sogno americano”, almeno per ora, lo ha portato in un negozio di elettrodomestici.
«Il rumore del vento è incredibile, sembra un ruggito infinito», continua Juan: «Le finestre continuano a scuotere. È come se qualcosa di sovrumano stia cercando di strapparle via, assieme alla casa». Poi cade la linea. Lo richiamo ma il cellulare è muto. Penso lo risentirò tra qualche giorno, passata l’emergenza. In queste situazioni preferisco sempre sperare in meglio. A che serve crearsi ipotetici drammi? È con questo spirito che domani andrò a Cuba, dove il Malecon e alcuni quartieri di Havana sono ancora inondati e dove, probabilmente, nei prossimi giorni non ci sarà elettricità. Ci vado con serenità, perché ho imparato sulla mia pelle che morire non è facile e che la vita continua anche se tutte le tragedie del mondo sono sempre dietro l’angolo.
Ripenso alla nostra conversazione e mi colpisce la calma di Juan. In un mondo dove ormai si va avanti a forza di superlativi, dove un mal di testa è un incubo, dove gli sconti sono un evento e dove tutto è una emergenza a oltranza, Juan di fronte ad un evento catastrofico sceglie il tono pacato di chi è semplicemente contento di essere vivo.

Mario Forgione

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