Una strada groviera

Ringrazio l’emittente regionale LaC e il giornalista Agostino Pantano per il servizio giornalistico andato in onda nell’edizione del telegiornale delle ore 14.00. Naturalmente, i tempi televisivi non hanno consentito di mandare in onda l’intervista mia e di Pasquale Napoli nella loro integralità. In ogni caso, credo che la qualità del lavoro sia eccellente perché sintetizza alla perfezione il contenuto di quanto da noi dichiarato e i termini della questione: lo stato disastroso del tratto della Strada Provinciale 2 che collega Sant’Eufemia all’ex svincolo autostradale, pericoloso anche per l’incolumità fisica di chi la percorre; l’abbandono del nostro territorio da parte di Anas e della Città Metropolitana; la doppia beffa della popolazione di quest’area che si è vista sottrarre lo svincolo e attende invano i lavori di compensazione/risarcimento che erano stati promessi per mettere un po’ a tacere una protesta sacrosanta.
La realtà è sotto gli occhi di tutti ed ha le caratteristiche di un percorso molto accidentato per via delle innumerevoli buche presenti sul manto stradale. Buche che provocano danni ai veicoli in transito oltre a creare situazioni di pericolo per gli automobilisti che, cercando di scansarne qualcuna, rischiano di sbattere contro chi procede dal senso opposto di marcia. Tutta questa situazione si aggrava con la presenza di una fitta nebbia che spesso quasi azzera la visibilità di un percorso scarsamente illuminato (laddove ci sono lampioni, funzionano a giorni alterni nella migliore delle ipotesi) e dalle strisce stradali impercettibili, se non assenti.
Si tratta di una strada utilizzata quotidianamente da centinaia e centinaia di automobilisti per lavoro o per altre esigenze, che rendono necessario raggiungere l’autostrada alla popolazione dell’intero comprensorio. Va inoltre evidenziato che più volte nel corso di una giornata essa viene percorsa dall’autoambulanza del 118, che a Sant’Eufemia ha la sua postazione: per chi deve salvare una vita non è proprio il massimo lavorare in queste condizioni. Senza dimenticare, infine, i molti ciclisti amatoriali provenienti da tutta la provincia per i quali è impossibile pedalare a bordo strada e che sono costretti a pericolosissime gimkane tra le buche.
È necessario un intervento straordinario, che peraltro era stato promesso. E poi bisogna intervenire con regolarità per eseguire quei lavori di manutenzione ordinaria che impediscano il periodico riproporsi di tali situazioni di emergenza.

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Buono, non buono

Quando un anno sta per finire e un altro non è ancora cominciato, per dirla un po’ alla Marzullo, è tempo di bilanci e di nuovi propositi. Il 2017 che mi lascio alle spalle è stato un anno vissuto molto intensamente. Pertanto, molto positivo. Le emozioni sono una parte molto importante della vita: la rendono affascinante, degna di essere vissuta al di là delle delusioni e delle gioie che si provano. La reazione del momento è dettata dall’istinto, ma inevitabilmente tende a sfumare con il passare del tempo. Per questo occorre sempre cercare di guardare il bicchiere mezzo pieno, nutrirsi di positività. Tutto ciò che è accaduto fa di noi ciò che siamo ora e che non saremo domani, quando altra vita si aggiungerà a quella già vissuta. “Buono – Non buono” può essere un gioco, ma come tutti i giochi sa essere tremendamente serio.

LETTURE – «Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira» (J.D. Salinger, Il giovane Holden). Più o meno quello che avrei voluto fare con Stefano D’Arrigo, anche prima di finire la lettura di Horcynus Orca. L’avrei fatto ogni giorno, in questa estate 2017 che per me sarà sempre “l’estate in cui lessi Horcynus Orca”, opera sfibrante e sorprendente per la sperimentazione di un linguaggio nuovo ma arcaico allo stesso tempo, che lascia senza fiato dalla prima all’ultima pagina: un’odissea umana, ma anche “un’odissea della parola”. BUONO

ADDII – Ogni anno che passa è come fare l’appello a scuola, c’è sempre qualche nome in meno. Non vedremo più quel sorriso, non sentiremo più quella risata. Ma la vita va avanti e coltivare i ricordi e qualche insegnamento può aiutare a lenire il dolore di una perdita. NON BUONO

REGALO – Quello più bello, inaspettato: i libri del mio vecchio professore di storia e filosofia al liceo, Rosario Monterosso. Ed è emozionante pensare che, in qualche modo, i miei occhi si poseranno su quelle pagine che lui ha tanto amato. BUONO

DISAGIO – Viviamo in una realtà per certi versi insopportabile, regredita e degradata. Nella quale ogni giorno che passa è sempre più faticoso riuscire a riconoscersi. Si fa fatica e distinguere il reale dal virtuale ed è imbarazzante il livello di volgarità raggiunto nelle discussioni, se così può ancora definirsi l’aggressività del web. Ha ragione chi grida di più, chi la spara più grossa, chi copincolla fesserie prive di alcun fondamento. È la vittoria, amara, di Umberto Eco. NON BUONO

500 MESSAGGI NELLA BOTTIGLIA – Per diverse vicissitudini quest’anno ho scritto di meno, anche se nella seconda metà dell’anno ho cercato di recuperare e mi sono fermato a cinque post di distanza rispetto al 2016. Il 2017 è stato però l’anno del cinquecentesimo post, un traguardo che mi inorgoglisce. Da questo blog è passata tanta storia locale: gli avvenimenti più salienti, i suoi personaggi più importanti, ma anche il ricordo delle vite di donne e uomini comuni, spesso dimenticati. Per riconoscersi come comunità c’è bisogno di una memoria condivisa. BUONO

PAGINE DA DIMENTICARE – Da dimenticare, o forse da ricordare affinché se ne tragga il giusto insegnamento: gli incendi estivi che hanno distrutto i boschi attorno a Sant’Eufemia, l’inciviltà di chi continua a smaltire i rifiuti secondo il proprio personalissimo calendario, al netto dei disservizi che proprio in questo fine anno hanno accentuato la situazione di emergenza. Da dimenticare anche le polemiche imperversate per qualche giorno in occasione dei festeggiamenti della nostra Santa Patrona, nella nota vicenda dei fuochi d’artificio dell’Entrata. Alla fine tutto si è risolto per il meglio, ma un po’ di turbamento, onestamente, a me è rimasto. NON BUONO

ELEZIONI – In un piccolo paese come il nostro una campagna elettorale è una situazione “estrema”, quindi altamente formativa. L’ho affrontata con onestà intellettuale, ma soprattutto con serenità e lealtà. Le elezioni comunali costituiscono un’occasione unica di studio della natura umana, perché esaltano il meglio e il peggio delle persone. Da una parte sincerità, amicizia e rispetto, anche quando ci si trova su opposte barricate; dall’altra falsità, venalità e tornacontismo, ciò che alla fine realmente incide nelle scelte di alcuni, al di là della prosopopea dei tempi “calmi”. Ma tutto questo lo capisco, non mi sorprende. Non capirò mai, invece, l’atteggiamento di chi mischia politica e personale, di chi si volatilizza dopo anni di rapporti quotidiani, come se anche soltanto domandare “come stai?” possa essere compromettente. Eppure ho sentito tanto affetto in quei mesi, di certo superiore alla solitudine di qualche momento. BUONO

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’A pulicia rizza

Aveva il passo lento ma deciso di chi sapeva come affrontare le salite e le discese senza fare cadere il peso che portava sulla testa. Ma non era una bagnarota e dentro il cuverchiu che sistemava con cura sopra la corona di stracci, perché non pendesse a destra o a sinistra, in avanti o indietro, non c’erano alici né palamiti dello Stretto. Non si sentiva volare una mosca, tutto era silenzio e solitudine. Lei e quel corpicino sistemato alla meglio sotto qualche coperta caritatevole. Bambini appena nati e subito volati in cielo, morti pochi giorni dopo il parto o nello spazio di qualche mese, il tempo di una selezione naturale che era feroce ma accettata dalla società con rassegnato fatalismo.
Ogni famiglia aveva le sue piccole vittime, da ricordare – chi ne aveva la possibilità – tirando ogni tanto fuori dal cassetto la classica fotografia post-mortem: sembravano dormire con quegli occhi chiusi. Stroncati da infezioni aggravate dalla malnutrizione, dal morbillo o dalla pertosse, dalla bronchite o dalla polmonite, dalla difterite o da un imprecisato ’ngagghiu letale nei primi anni di vita. Neonati battezzati “in acqua” dall’ostetrica o dal medico, affidati poi alla pietà di questa pulce di donna dalla zazzera fitta e riccia per il tragitto di una dolente via crucis. Oppure piccoli che facevano in tempo ad arrivare davanti al sacerdote, ad avere padrini e madrine “scelti” tra chi era presente. Era questa la ragione del primato dei sangiovanni tra i frequentatori più assidui della chiesa, loro che consideravano la sagrestia una seconda casa.
Aveva il passo sicuro ’a pulicia rizza. Le campane che suonavano “a gloria”, non “a morto”, annunciavano l’arrivo in Paradiso di un angioletto, l’arrivo di un’anima soffiata via da un corpo che non aveva conosciuto il peccato.
Un’andatura costante che non aveva niente da invidiare alla cadenza regolare dei portantini dei funerali delle congregazioni, quattro spazzini con la tunica bianca addetti al trasporto della piccola bara sistemata sopra una lettiga. Più che il ritratto manzoniano dei monatti, la rievocazione delle varette della Processione dei Misteri. D’altronde, proprio gli spazzini del paese, nella rappresentazione sacra, portavano a spalla il corpo del Cristo morto: l’Innocente.
Innocente come i bambini spostati dalla bara messa a disposizione dalla congregazione per il funerale alla cassettina di tavole inchiodate dal falegname sul posto e calata in uno degli angoli dell’ampia area del cimitero a loro destinata.
Una stradina, “vico Innocenti”, con la strage dei bambini voluta da Erode ricordava anche questi piccoli fiori recisi. Ma oggi “vico Innocenti” non esiste più e la pulicia rizza, con la sua storia di pietà, è un ricordo lontanissimo e di pochi.

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Il cortile vuoto

Tempo fa mi ritrovai nel cortile della mia infanzia. Non c’era nessuno in quel momento. Con gli occhi chiusi cercai di andare indietro nel tempo, di ritornare a quegli anni, a quei volti, a quelle voci. La casa di mia nonna e tutto quel microcosmo a me così familiare. Di quel tempo non è rimasto quasi niente e nessuno.
Ora anche Micuzzu Papalia (“u grugnu”) è andato via, lui che sembrava eterno, lui che fino a qualche anno fa stava sempre per attraversare la Principe di Piemonte, con la sua giacca di pelle nera. Ma lui era abituato a camminare. Nella Seconda Guerra Mondiale dalla Libia era fortunosamente sbarcato a Bari e da lì era tornato a casa a piedi.
A piedi.
Che energia avevano quei giovani? Me lo sono sempre chiesto. Ho ascoltato i loro racconti incredibili e mi ripeto che là è la nostra storia, là dobbiamo trovare la forza per non rassegnarci mai. Ho ascoltato storie di gente che andava a lavorare in Aspromonte e lungo il viaggio leccava una sarda e mangiava pane: leccava e mangiava, perché la sarda se la doveva fare durare. Altri che sfregavano un pezzo di formaggio sul pane e mangiavano solo questo: il formaggio se lo dovevano fare durare. L’olio quando era possibile, nella bottiglia della gassosa: da fare durare anche quello, da utilizzare con il contagocce. E il sugo preparato con le lische del pesce stocco, perché solo quelle la povera gente poteva permettersi di acquistare.
Quando scrissi Il cavallo di Chiuminatto, a Sant’Eufemia una sola persona ancora vivente aveva visto Giacomo Chiuminatto. Quell’uomo era Micuzzu Papalia. Era un bambino nella metà degli anni Venti, ma ricordava perfettamente il periodo in cui fu completata la ferrovia con il ponte di ferro. Aveva una memoria talmente vivace da riuscire a mettere a fuoco un particolare curioso per chi ama la storia: ricordava la fascia rossa legata a una zampa dei cavalli da tiro impiegati per il trasporto dei carrelli carichi di sassi e di sabbia, in un mondo che oggi non esiste più.
Un mondo pieno di storie da ricordare. Storie minime. Storie di cantina e storie di putija negli anni delle “librette” fitte di nomi, pasta, pane e lire. Storie che Domenico e la moglie Concetta conoscevano bene, perché in quella rruga le avevano vissute in prima persona per lunghissimi anni. La rruga che è stata la mia prima casa, il mio mondo. Con i racconti di tutti quei giovani che ho conosciuto già anziani, ascoltati come lezioni da tenere bene a mente. Perché noi siamo anche quelle storie, non dobbiamo mai scordarlo.

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Sullo svincolo, lettera al presidente Mario Oliverio

Sulla Gazzetta del Sud di stamattina è uscito un articolo che sintetizza il contenuto della lettera inviata al presidente della Giunta regionale Mario Oliverio in merito all’annosa questione dello svincolo autostradale di Sant’Eufemia. A mio avviso, la sintesi giornalistica non rende pienamente giustizia al senso della lettera, che altro non vuole essere che un richiamo alla responsabilità per chi, qualche anno fa, aveva assunto un impegno preciso nei confronti della comunità eufemiese. Per evitare fraintendimenti, la pubblico integralmente. Un ringraziamento particolare a Giuseppe Pinto, che è da sempre molto attento e attivo nel segnalare le problematiche infrastrutturali del territorio della nostra provincia.

Onorevole Presidente, non si pensa, se non raramente nei modi dovuti, che i cittadini abbiano un volto e che sono persone dotate di sensazione, percezione, riflessione, sentimenti, capacità intuitive, quindi creative e critiche; capacità di dare soluzioni che non gli verranno mai chieste. La loro partecipazione viene chiesta esclusivamente nelle occasioni del voto amministrativo, politico o referendario, di fatto senza la possibilità di riscontro se non nel tempo del voto successivo.
I cittadini si pongono con diritto la domanda se le cause della soppressione dello svincolo di Bagnara Sant’Eufemia nella provincia di Reggio di Calabria siano da addebitare a questo o a quell’altro partito, o se vanno ricondotte al “sistema Italia”, che non riesce a dare risposte credibili, in un sistema dove i partiti si delegittimano in continuazione.
Vorrei parlare di questo territorio, uno dei tanti della provincia di Reggio di Calabria. Un territorio dimenticato da tutti, dove sono visibili le gravi responsabilità delle istituzioni e della politica che non sono riuscite ad imporre con autorevolezza la risoluzione dei problemi di una terra che è stata sempre trascurata.
Lo svincolo di Bagnara Sant’Eufemia d’Aspromonte, in provincia di Reggio di Calabria, è stato “cancellato” sul nuovo tracciato della A3 Salerno-Reggio Calabria. Era un arteria di collegamento di grande importanza per l’intero comprensorio territoriale, nel quale ricadono una serie di comuni (Bagnara Calabra e i paesi dell’entroterra aspromontano: Sant’Eufemia d’Aspromonte, Sinopoli, S. Procopio, Cosoleto, Delianuova). Comuni dell’entroterra aspromontano che sono già penalizzati poiché da sempre difficilmente raggiungibili, a causa delle precarie condizioni dell’unica via di collegamento (ex SS 112), in particolare nei mesi invernali.
La politica non è stata in grado di dare risposte alle comunità di un territorio che resta purtroppo trascurato e dimenticato da tutti. Le problematiche della sicurezza stradale devono essere al primo posto tra i compiti delle istituzioni, a vari livelli. Basti pensare che l’ANAS ripristinando il tracciato della vecchia autostrada A3 negli otto chilometri che si percorrono nei due sensi marcia dallo svincolo di Sant’Elia all’ex svincolo di Bagnara, nel periodo invernale è soggetto a neve e nebbia, e non è stato realizzato un impianto di illuminazione che consentirebbe di rendere più sicuro il transito su queste bretelle. Anche questo intervento avrebbe avuto un riscontro positivo nella popolazione perché avrebbe dimostrato che le istituzioni sono in qualche modo attente alle esigenze del territorio.
Onorevole Presidente, nel corso degli anni a dir il vero, hanno provato tutte le amministrazioni di quel comprensorio e quelle regionali, che l’hanno preceduta, a dare una risposta al territorio che rivendica questa importante opera. Negli anni si sono succeduti incontri nei vari assessorati regionali, presso i ministeri, la mediazione dei vari Prefetti dal dott. De Sena Prefetto al dott. Piscitelli, dal Sottosegretario Meduri, e sono state presentate varie interrogazioni parlamentari ma a nulla sono servite per dare seguito alla realizzazione dello svincolo da e per Reggio di Calabria.
L’allora Presidente dell’Anas, Pietro Ciucci, nel 2010, come riportavano gli organi d’informazione, dopo aver ascoltato le rimostranze dei territori e compreso il valore strategico dello svincolo di Sant’Eufemia, ha espresso la disponibilità dell’Azienda alla redazione di un progetto definitivo, che si sarebbe dovuto collegare al progetto preliminare già redatto dalla Provincia di Reggio Calabria, per la realizzazione onerosa di un’opera da sottoporre all’approvazione del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti.
Dalla soppressione dello svincolo, infatti, deriva la penalizzazione di un’area che ricopre un ruolo strategico per lo sviluppo socio economico della provincia di Reggio Calabria. Infatti, le attività commerciali della zona industriale di Bagnara – Sant’Eufemia d’Aspromonte e le attività agricole hanno già subito i riflessi negativi derivanti dalla difficoltà di raggiungere i territori interessati ma soprattutto sul piano dell’incolumità pubblica, che in caso d’intervento i mezzi di soccorsi devono allungare il percorso per raggiungere l’ospedale di Scilla o Reggio di Calabria perché manca in questi territori anche un punto strategico dove far atterrare l’elisoccorso.
Poi il nulla, dalle parole non sono arrivati i fatti. Un colpevole silenzio, quasi ad evitare di mettere in imbarazzo i livelli più alti della politica e delle istituzioni. L’indignazione nei confronti della politica oggi scorre sulla bocca dei cittadini e sarebbe doveroso che tutti recitassimo il mea culpa per non essere riusciti a concretizzare forti iniziative di protesta per dare un degno vivere civile alle nostre comunità.
Onorevole Presidente, non è lontano il mese di marzo 2015 quando ha assunto l’impegno in qualità di presidente della Regione Calabria e dalla sua giunta, come viene riportato dagli organi d’informazione locale. Lei Presidente, che viene dalla politica storica del fare, aveva incontrato i vari rappresentanti di quelle comunità in varie riunioni svoltasi presso gli uffici regionali preposti, al fine di valutare i progetti che Anas negli anni ha puntualmente accantonato.
Onorevole Presidente, la Sua giunta di allora aveva preso degli impegni precisi per il mantenimento dello svincolo, ovvero, si era impegnata a finanziare il progetto laddove Anas non avesse provveduto.
Sarebbe cosa gradita riprendere il percorso di questo progetto di sviluppo territoriale viario, verificando lo stato di una progettazione promessa e in realtà mai portata avanti, e per avere un confronto su alcune proposte alternative e fattibili: come ad esempio, la realizzazione di un accesso in direzione Reggio Calabria mediante l’utilizzo delle piste di cantiere preesistenti, dove oggi sono stati messi a dimora degli alberi.
Le popolazioni del comprensorio pre-aspromontano, che hanno subito l’ingiustizia della soppressione dello svincolo Bagnara Sant’Eufemia d’Aspromonte, non chiedono altro che venga ripristinata un’arteria di collegamento esistente sin dalla realizzazione della Salerno-Reggio Calabria.
Rimaniamo in attesa di un cortese cenno di riscontro e cogliamo l’occasione per porgerLe i nostri più cordiali saluti.
Giuseppe Pinto, responsabile provinciale del Partito Democratico per le Politiche del Territorio
Domenico Forgione, consigliere comunale Sant’Eufemia d’Aspromonte
Pasquale Napoli, consigliere comunale Sant’Eufemia d’Aspromonte

* La lettera è inoltre indirizzata a: Presidente del Consiglio Regionale, Nicola Irto; Prefetto di Reggio Calabria, Michele Di Bari; Assessore regionale Infrastrutture, Lavori Pubblici e Mobilità, Roberto Musmanno; Presidente e Amministratore delegato di ANAS, Giovanni Vittorio Armani; Capogruppo regionale Partito Democratico, Sebi Romeo; Sindaco della Città Metropolitana di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà.

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Che fine ha fatto la Consulta?

Sono tra coloro che credono nella necessità di ampliare quanto più possibile la base democratica della partecipazione popolare alla cura della cosa pubblica. Non è un mistero che nel programma elettorale della lista vittoriosa alle elezioni comunali del 2012, su mia sollecitazione, fu inserito un punto che prevedeva l’istituzione della Consulta comunale proprio per soddisfare il bisogno di un’interlocuzione nuova e più stretta tra politica e società.
La ratio di quella scelta va ricercata nella consapevolezza dell’utilità del confronto sinergico e propositivo degli amministratori con la collettività, da realizzare con lo strumento di un organismo permanente di partecipazione, consultazione e osservazione di quanto si muove nella comunità: in particolare nei settori della cultura, delle politiche giovanili e per gli anziani, dell’associazionismo, delle pari opportunità. La Consulta, quindi, come cinghia di trasmissione tra società civile e amministrazione comunale.
A mio avviso la Consulta istituita nella passata consiliatura ha operato bene, pur nei limiti imposti del suo carattere consultivo, non decisionale. Ha svolto positivamente la funzione di avvicinare all’istituzione comunale giovani e meno giovani disponibili ad offrire il proprio contributo di tempo, passione e competenze per la crescita della comunità, ma ha anche sviluppato un’efficace azione di coordinamento tra le varie associazioni presenti sul territorio e tra queste e l’amministrazione.
Per statuto la Consulta resta in carica fino allo scioglimento del Consiglio che l’ha costituita, per cui essa decade allo scadere del mandato consiliare, né è previsto che possa continuare ad operare in regime di prorogatio dopo l’insediamento del nuovo Consiglio comunale eletto.
Proprio per questo motivo ho presentato un’interpellanza al sindaco e all’assessore competente per chiedere perché, a sei mesi dalle elezioni, ancora non si è provveduto a fissare i termini dell’apertura delle iscrizioni: un passaggio fondamentale per potere poi procedere all’elezione delle cariche statutarie e per dare così sostanza e riconoscimento formale al valore della partecipazione.
Colgo l’occasione per esprimere pubblicamente il mio plauso al presidente, ai responsabili dei diversi settori ed a tutti gli iscritti della Consulta per il lavoro svolto e mi auguro che il loro impegno possa avere continuità anche nell’attuale mandato consiliare.

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I miei maestri

Mi è stato chiesto di presentare una serata molto particolare, organizzata dal gruppo di Sant’Eufemia “Insieme per crescere” e dedicata agli insegnanti del nostro paese. La manifestazione, che si svolgerà domenica 17 dicembre presso la sala ricevimenti “Cagnolino”, a partire dalle ore 18.00, vuole essere un riconoscimento all’importanza del lavoro svolto dal “maestro”, al suo valore umano e professionale.
Ho frequentato la scuola elementare, la media e il liceo nel mio paese, sono orgoglioso di essere cresciuto tra quei banchi. Ho ricevuto molto, lì ho appreso molte delle lezioni che fanno di me l’uomo che sono oggi. Ed è accaduto perché in queste scuole ho avuto la fortuna di trovare insegnanti che avevano molto da dire non solo come docenti ma anche come cittadini ed esempi da imitare.
La signora Rina De Leo mi ha insegnato a leggere speditamente, a non sbagliare le “e” con l’accento e le “a” con l’acca, ma soprattutto mi ha insegnato cosa vuol dire “rispetto dei ruoli”. È una lezione che da allora non ho dimenticato. Si dirà che i tempi sono cambiati: ora gli alunni si rivolgono ai propri insegnanti dandogli del “tu”, una cosa impensabile quando frequentavo io la scuola elementare. I tempi sono cambiati, d’accordo. Ma a me pare che il riconoscimento di quell’autorevolezza non esista più e non è un bene, né per le istituzioni scolastiche, né per gli adulti di domani.
Nei piccoli paesi esistevano autorità riconosciute, oltre a quelle istituzionali del sindaco, del parroco e del brigadiere: l’insegnante, il farmacista, il medico. Non è più così: oggi tutti sono insegnanti anche se non hanno mai letto un libro di pedagogia, sanno cosa un docente deve insegnare e come si deve comportare con i ragazzi. Tutti si collegano a Internet e sanno da quale malattia sono afflitti, di quale terapia hanno bisogno, addirittura se i vaccini vanno fatti o meno.
Me la ripeto spesso quella lezione sul rispetto dei ruoli e cerco di applicarla nella vita di tutti i giorni, perché senza questa consapevolezza la società perde punti di riferimento fondamentali, si perde essa stessa nella confusione tra diritti, doveri e responsabilità. Non ho mai preso uno schiaffo dai miei insegnanti, ma me la facevo addosso solo al pensiero di un rimprovero, terrorizzato dall’eventualità che i miei genitori potessero essere convocati a scuola perché sapevo che, in quel caso, avrei fatto fare alla mia famiglia una cattiva figura.
Il professore Aldo Coloprisco mi ha insegnato che non basta sapere le date storiche più importanti o la biografia personale e professionale degli autori più famosi. Con il suo teatro mi ha insegnato ad essere un cittadino della comunità in cui vivo, perché ognuno di noi, con i propri talenti, ha il dovere di impegnarsi per rendere più bello il posto in cui vive. Il teatro del professore Coloprisco serviva a responsabilizzare i ragazzi, che assumevano un impegno che poi doveva essere portato a compimento. Serviva a farci capire che questo posto è nostro e che buon cittadino è colui che si spende per dare un contributo alla sua crescita facendo aggregazione, coinvolgendo nei processi di integrazione soprattutto coloro che in genere ne vengono esclusi. Anche questa è una lezione che custodisco nel profondo e che cerco di applicare alle cose che faccio nel mio piccolo, nelle associazioni o soltanto scrivendo della storia del paese.
Il professore Rosario Monterosso mi ha insegnato ad amare la storia. Devo a lui i libri che ho scritto. Era un hombre vertical, un uomo tutto d’un pezzo, dalle convinzioni solide e non barattabili. Un uomo che mi ha insegnato a guardare la vita e le persone con occhio da indagatore, che non deve mai fermarsi alle apparenze, che – di fronte a una “verità” – deve cercare sempre di comprendere le ragioni di chi quella verità cerca di confutare. Magari mantenendo le proprie idee, ma sempre rispettando quelle degli altri. Se si hanno delle idee e dei valori ai quali non si è disposti a rinunciare, si sarà sempre se stessi. Non esiste cosa più degna del non dovere mai fingere di essere altro dalla propria natura e dai propri convincimenti. Stare a posto con la propria coscienza, essere coerenti con i propri ideali e leali con il prossimo. Dare l’esempio della possibilità di una strada diversa, perché la vera sconfitta nella vita è rassegnarsi e subire passivamente ciò che accade intorno a noi.
Questi sono stati i miei maestri, in ordine rigorosamente cronologico. Come loro, molti altri hanno allevato generazioni di eufemiesi e a tutti loro dobbiamo essere grati.

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La condanna di Mladic chiude un’epoca

Se gli accordi di Dayton del novembre 1995 chiusero sul piano formale le guerre jugoslave, la condanna all’ergastolo del “boia di Srebrenica” (oltre 8.000 civili massacrati) Ratzo Mladic da parte del Tribunale penale internazionale mette oggi la parola fine alla pagina buia della pulizia etnica e delle atrocità sui civili: colpevole di crimini di guerra e contro l’umanità, di persecuzioni e sterminio. Il suo degno compare Radovan Karadzic era già stato condannato l’anno scorso a 40 anni di carcere per genocidio, mentre Slobodan Milosevic è morto in prigione prima della pronuncia del Tribunale dell’Aia. Per certi versi si chiude il Novecento con le sue guerre sanguinose sul suolo europeo, che proprio nella polveriera balcanica hanno trovato fertile grazie al concime fornito dal mito della “Grande Serbia”.
I serbi sono forse gli unici al mondo a celebrare una sconfitta, quella subita il 28 giugno 1389 dai turchi nella Piana dei Merli (“Kosovo Polje”), come mito fondante della nazione. Una data, quella in cui si festeggia San Vito (28 giugno), che ricorre di continuo, tanto che lo storico Joze Pirievec ha intitolato Il giorno di San Vito il suo fondamentale studio sulla storia della ex Jugoslavia: l’assassinio a Sarajevo dell’erede al trono d’Austria Francesco Ferdinando e della moglie Sofia, per mano del nazionalista serbo Gavrilo Princip, che causò lo scoppio della prima guerra mondiale (1914); l’approvazione della Costituzione (detta, appunto, “di San Vito”) del regno SHS – “Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni” (dal 1931, “Jugoslavia”); l’espulsione della Jugoslavia comunista dal Cominform (1948); la manifestazione organizzata da Slobodan Milosevic per il seicentesimo anniversario della battaglia della Piana dei Merli (1989), che preannunciò l’imminente guerra civile.
La storia dell’ex Jugoslavia è una storia di popoli diversi per etnie, lingue, culture, religioni. Un vero e proprio ginepraio. Croati e sloveni più europei per via del retaggio austro-ungarico e cattolico; serbi e montenegrini storicamente legati alla Russia per il comune slavismo e la religione ortodossa; macedoni più “orientali” in virtù della storica sudditanza alla Sublime Porta. Ancora, serbo-bosniaci, croato-bosniaci, ungheresi della Vojvodina, albanesi del Kosovo, considerato sin dal 1389 culla della civiltà serba. E, nel cuore stesso dello stato ex Jugoslavo, la compresenza di tutti i fattori di diversità in un unico stato, la Bosnia-Erzegovina, dove l’elemento turco s’incontra (e si scontra) con quello serbo e croato. Il ponte sulla Drina, del premio Nobel per la letteratura Ivo Andric, è la metafora perfetta della Bosnia (e della stessa ex Jugoslavia): una terra in bilico tra occidente ed oriente, tra cristianesimo ed islam, come la cittadina bosniaca del romanzo, Visegrad, divisa in due dal fiume Drina e unita dal ponte che collega due sponde (e due mondi).
Come stato unitario la Jugoslavia (ancora regno SHS) comincia ad esistere con l’assetto europeo stabilito a Versailles dopo la prima guerra mondiale. Una creatura fortemente voluta da Francia e Inghilterra in funzione anti-imperi centrali inizialmente, quindi per contrastare le mire espansionistiche di Italia e Ungheria. Tra le due guerre mondiali vive di fatto “sotto tutela”, grazie agli aiuti finanziari anglo-francesi, che ne determinano tutte le decisioni politiche, compreso – nel 1929 – il colpo di stato di Alessandro I contro le opposizioni.
All’interno del Paese si afferma l’ideale grande-serbo: i serbi occupano i gangli dell’amministrazione burocratica e militare, mentre il sistema economico si fonda sul costante drenaggio delle risorse economiche dalle regioni ricche (Croazia e Slovenia) verso Belgrado. Questo modello viene poi adottato dal maresciallo Tito, che dopo la seconda guerra mondiale stabilisce la dittatura al termine di un periodo convulso che registra, accanto alla guerra contro l’invasore nazista, quella tra le truppe cetniche di Mihailovic e i partigiani comunisti.
Il regime titoista attraversa diverse fasi: dalla fedeltà al modello sovietico all’eresia sanzionata dalla scomunica stalinista nel 1948, fino all’elaborazione dottrinaria di Kardelj e Dijlas che costituisce la base teorica del socialismo jugoslavo. Pilastri del nuovo corso sono l’autogestione in politica interna, il non-allineamento e il terzomondismo nel campo estero (una sorta di “pendolo” tra i due blocchi creati a Yalta).
I conflitti interni diventano però sempre più aspri e, inevitabilmente, esplodono con la morte di Tito (1980), quando i vincoli federali si allentano e la disastrosa congiuntura economica esaspera quelle spinte secessionistiche che diventano incontrollabili dopo la caduta del muro di Berlino. Una deriva che viene mirabilmente evocata da Emir Kusturica nella sequenza finale di Underground, capolavoro cinematografico che ripercorre cinquant’anni di storia nazionale, dalla seconda guerra mondiale alla disgregazione dello stato unitario negli anni Novanta.

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Perché esco dal Partito Democratico

Non bisogna restare in un posto nel quale non si è più felici. Non bisogna restare in un posto nel quale, giorno dopo giorno, si è costretti a subire la mortificazione dei valori e degli ideali che hanno segnato la propria formazione civica e politica. Questo è diventato il Partito Democratico: un partito nato per fondere in un’unica formazione politica le tradizioni dei due più grandi partiti popolari della storia repubblicana si è trasformato in uno strumento di potere scollato dalla società reale, incapace di emozionare e di emozionarsi.
Esco pertanto dal Partito Democratico, a quattro anni dalla costituzione del circolo di Sant’Eufemia d’Aspromonte, che avevo promosso nel 2013 e del quale sono stato fino ad oggi segretario. Da troppo tempo i sentimenti prevalenti sono disagio e imbarazzo per ciò che il Partito Democratico è diventato a tutti i livelli, nel metodo e nel merito della sua azione. Una speranza tradita, un’occasione persa di promozione della partecipazione dei cittadini alla politica per la rappresentanza delle istanze più diffuse: «La politica – scriveva Guido Dorso – segue la logica delle occasioni sfruttate o perdute, e queste ultime costituiscono il passivo più terribile per i partiti ed i loro dirigenti».
L’esito di una gestione autoreferenziale ed autoritaria del partito ha la sua rappresentazione plastica nell’emorragia di iscritti fotografata dai più recenti tesseramenti. Invece di interrogarsi sul perché di questa fuga per tentare di porvi un argine, si è continuato a tenere la testa sotto la sabbia, a ballare tra gli specchi del salone mentre il Titanic affonda. E sì che di segnali inequivocabili, dal Referendum costituzionale alle varie tornate amministrative, gli elettori ne hanno mandati in quantità.
Arrivismo e trasformismo sono i mali storici della politica: il Partito Democratico ne rappresenta, oggi, la sintesi perfetta. Un partito che sacrifica sull’altare del potere le storie politiche dei propri militanti e che non si pone nemmeno il dubbio se sia controproducente lisciare il pelo ai tanti Verdini sparsi sul territorio. E che, defezione dopo defezione, è ormai diventato altro: un simulacro di partito, infeudato da ristretti comitati elettorali, che non discute al suo interno, né con l’esterno. Una scatola priva di identità che a livello nazionale mette la faccia su provvedimenti umilianti per i lavoratori e per le fasce più deboli; che a livello regionale rinuncia ad essere protagonista, delegando la proposta di governo ad una giunta tecnica; che a livello provinciale, nelle segrete stanze, decide sostanzialmente di fare saltare due tesseramenti (2015 e 2016: quest’ultimo raffazzonato in maniera molto discutibile e fuori tempo massimo, a pochi giorni dalle Primarie nazionali del 30 aprile 2017) e di non celebrare il Congresso di partito, perché la conta rischierebbe di fare crollare l’edificio messo in piedi nell’oramai lontanissimo 2014.
Non è questa la politica che mi ha fatto appassionare sin da ragazzo e che mi ha sempre spinto a trovare rappresentanza e collocazione in una sinistra attenta ai bisogni degli ultimi, capace di dare voce a chi voce non ha. Vado pertanto via da questo PD, senza rancore ma con tanta delusione. Rimetto il mio mandato di segretario di circolo, né intendo rinnovare la mia adesione al partito.
Riparto dalla forza identitaria di ideali che sento ancora vivi e attuali e dalla convinzione che dignità e coerenza debbano essere i valori irrinunciabili dell’agire politico.

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Viva il liceo “Enrico Fermi”

Non mi sento un diplomato di serie B, ora che la Fondazione Agnelli ha collocato il liceo “Enrico Fermi” di Bagnara-Sant’Eufemia all’ultimo posto tra i licei scientifici della provincia di Reggio Calabria, in una graduatoria stilata sulla base del rendimento universitario degli studenti provenienti dagli istituti superiori selezionati. Soprattutto, cosa ben più importante, non mi sento un cittadino di serie B.
Dal liceo, negli ultimi quattro decenni, hanno spiccato il volo avvocati, medici, ingegneri, architetti, biologi, docenti che hanno fatto e fanno la fortuna delle realtà in cui vivono e operano. Le sue aule sono state palestra di formazione per professionisti eccellenti; ma, in un campo più largo, hanno fornito a chi le ha frequentate gli strumenti indispensabili per decodificare e interagire con il mondo, insegnamenti che vanno al di là del contenuto dei libri di testo. Il liceo “Fermi”, per Sant’Eufemia, è stato ed è una benedizione di Dio: un presidio culturale dall’impatto decisivo nel contesto locale. Per questo motivo, le graduatorie e le statistiche vanno maneggiate con cura. Le fredde cifre non tengono conto dell’aspetto più nobile nell’operato di una scuola, vale a dire la sua incidenza nel tessuto sociale.
La scuola non può essere un ospedale che cura i sani e respinge i malati: don Milani aveva pienamente ragione. Quindi, i dati vanno analizzati con il sentimento della visione, con la serietà della critica che non nasconde i problemi ma ci si scontra quotidianamente per tentare di risolverli. Il liceo “Fermi” ha allevato professionisti, donne e uomini impegnati nelle associazioni e nella politica, gente che si sporca le mani nella trincea quotidiana della lotta per fare della nostra realtà un mondo migliore, sulla scorta di lezioni di vita che una classe docente sempre all’altezza cerca di trasmettere ai propri studenti. Perché, se la scuola si riduce a deposito di nozioni che passano dai contenitori più grandi a quelli più piccoli, ha fallito la propria missione.
La domanda alla quale statistiche del genere non forniscono risposta è quanto la formazione degli studenti nelle scuole e nelle università del Mezzogiorno contribuisca, paradossalmente, a scavare un solco sempre più profondo tra Nord e Sud. Il problema principale rimane sempre quello dell’irrisolta questione meridionale, che nel passato provocava dal Sud un’emorragia di braccia da lavoro e che oggi assume anche i caratteri dell’emigrazione intellettuale. Il problema è quanto si arricchiscano le regioni settentrionali grazie alla professionalità di giovani meridionali e quanto, di contro, si impoverisca il Sud per l’esodo del proprio straordinario patrimonio di intelligenze ed energie. Ma prima che lavoratori, numeri da incasellare sotto le colonne dei dati sull’occupazione dopo la conclusione del percorso di studi e l’ingresso nel mondo del lavoro, siamo cittadini che vivono di sentimenti e di valori.
No: non mi sento né diplomato, né cittadino di serie B.
Il professore Francesco Idotta, docente di storia e filosofia nella sezione eufemiese del “Fermi”, ha commentato con sintesi efficace: «Le classifiche hanno un senso per chi aspira ad essere il migliore, ma noi aspiriamo ad essere migliori». Parole essenziali per dire tutto quello che c’è da dire.

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