Credo nelle idee e credo negli uomini e nelle donne che quelle idee fanno camminare sulle proprie gambe. Che per quelle idee sono disposti a lottare, ad abbandonare il porto sicuro per affrontare il mare aperto con tutte le insidie che tale rischio comporta. Per questo sono convinto che esista un solo “voto utile”: quello che la nostra coscienza riconosce come rappresentativo del proprio bagaglio di valori e della propria storia personale.
Domenica voterò LIBERI E UGUALI per votare “a favore di qualcosa” e non “contro qualcuno”. Il voto è talmente sacro che in ogni caso va rispettato, anche quando dista mille miglia dalle proprie convinzioni. Non penso che siano stupidi o delinquenti gli elettori che sceglieranno altre formazioni politiche. Ma questa campagna elettorale non mi è piaciuta, a tratti è stata insopportabilmente volgare, indirizzata contro avversari demonizzati o ridicolizzati. Rivolta alla pancia degli elettori.
Credo nella politica sobria e seria, mi indispongono le urla e le offese. E credo in un progetto, quello di LIBERI E UGUALI, che va oltre l’appuntamento elettorale e ha l’ambizione di ridare dignità e riconoscibilità a una sinistra attenta ai bisogni degli ultimi. Una sinistra che abbia ancora la forza di indignarsi di fronte a politiche del lavoro umilianti, che vorrebbero fare passare come una conquista la precarizzazione selvaggia di milioni di giovani. Una sinistra che difenda con forza il carattere pubblico della sanità e della scuola. Una sinistra capace di rispondere alla sfida degli esodi biblici contemporanei con umanità.
LIBERI E UGUALI non è un punto d’arrivo: rappresenta l’inizio di un percorso difficile e affascinante, che proprio per questo condivido. Sarà importante avere una rappresentanza parlamentare, la più ampia possibile, per portare avanti tematiche sociali che altrimenti rischiano di scomparire dall’agenda politica per i prossimi cinque anni.
Non è il momento delle polemiche, anche se in questi giorni se ne stanno facendo tante. Ma non mi appassionano. Mi appassiona invece l’idea di un “nuovo inizio”, che vedo possibile e necessario.
Il lassativo di Sgarbi
Nel mentre ci godiamo il finale di una campagna elettorale surreale, ricordiamo i punti più bassi raggiunti da questo circo Barnum, anche se ancora manca qualche giorno e potrebbero essere necessari ulteriori aggiornamenti.
1. FAKE NEWS. Ormai per “fare politica” non serve avere una preparazione specifica. Basta avere l’abilità di fare diventare virale il falso e, al contempo, di parlare alla pancia dell’elettore. Conoscere le sue paure (immigrati, sicurezza), le sue idiosincrasie (privilegi, sprechi) ed esacerbarle mettendo in giro notizie artatamente contraffatte.
2. VOLGARITÀ. Cito soltanto Emma Bonino e Laura Boldrini perché contro le donne c’è sempre uno sgradevole (e non casuale) surplus di accanimento. La prima denigrata per il suo aspetto fisico, senza alcun rispetto per la battaglia contro il cancro che da anni sta conducendo. La seconda bersaglio dei razzisti di ogni risma che, tra l’altro, le attribuiscono una famiglia talmente numerosa che, ci fosse stato ancora “Lui”, certamente avrebbe conquistato il premio natalità.
3. BASTA GOVERNI NON ELETTI DAL POPOLO. Ancora siamo qua a spiegare che nella storia della repubblica italiana non è mai esistito un presidente del consiglio eletto dal popolo. La nostra è una repubblica parlamentare: comunque vadano le elezioni, in Parlamento si dovrà formare una maggioranza che sostenga il governo. Il presidente della Repubblica affiderà l’incarico a chi gli assicurerà questa maggioranza. Oh, ma siete duri di testa!
4. RESPONSABILI PREVENTIVI. La strepitosa definizione è del giornalista Pierluigi Battista. I “responsabili” nelle passate legislature sono stati quei parlamentari che “per senso di responsabilità” (mica per interesse personale) hanno sostenuto qualsiasi governo. Nello scenario di una probabile situazione di stallo, si profila all’orizzonte l’evoluzione di quel prototipo: il responsabile “preventivo”, che già prima del risultato del voto sa che darà la fiducia a qualsiasi governo, per salvare se stesso. Occhi puntati sui grillini espulsi dal movimento.
5. IL COMPAGNO CASINI. Ho a lungo pensato che la fotografia che ritrae Pierferdinando Casini in una sede del Partito Democratico con alle spalle il pantheon della sinistra (Togliatti, Gramsci, Di Vittorio e Matteotti) fosse un fotomontaggio. Invece no, è vera. Un premio speciale andrebbe assegnato senza ombra di dubbio al fotografo malizioso.
6. DI MAIO AL QUIRINALE. In genere, appreso l’esito delle elezioni, il presidente della repubblica convoca al Quirinale i leader dei partiti e dei gruppi parlamentari per avviare le consultazioni in vista della formazione del governo. Di Maio invece ha giocato d’anticipo e, irritualmente, si è presentato al Colle. Ovviamente non è stato ricevuto da Mattarella, che non può prestarsi a simili giochini, bensì dal segretario generale. Non contento, ieri ha replicato inviando una email contenente la lista dei ministri di un ipotetico governo Di Maio che nessuno ha aperto. La costituzione non è un optional, vaglielo a spiegare.
7. IL PHOTOSHOP DELLA MELONI. Vabbè che viviamo in una società succube dell’immagine. Vabbè che apri Facebook e vedi persone che poi fatichi a riconoscere per strada, “depurate” degli 80.000 filtri che applicano alle proprie fotografie. Ma alzi la mano chi, vedendo il volto stampato sui manifesti, vi riconosca la donna che ogni giorno si fa provocatoriamente un selfie con sullo sfondo i suoi contestatori, nella vana speranza che qualcuno perda la testa. Che è quello che vorrebbe lei.
8. BERLUSCONI PRESIDENTE. Unico caso al mondo di un “candidato non candidabile” che infatti, proprio in quanto non candidabile, non lo è. Però firma da Bruno Vespa un altro “contratto con gli italiani”, come se il futuro presidente del consiglio dovesse essere lui. Dimenticando, tra l’altro, che “la prima volta è tragedia, la seconda farsa”. E magari ci chiediamo perché il video con il monologo del comico John Oliver sia diventato virale, facendo ridere di noi mezzo mondo.
9. IL VANGELO SECONDO SALVINI. Anche Salvini si vede già presidente del consiglio. I primi a non volerlo sono i suoi alleati di coalizione, ma si tratta di un dettaglio sul quale il “capitano” può tranquillamente sorvolare. È impegnatissimo a giurare su un vangelo che probabilmente non ha nemmeno letto (altrimenti non si spiegherebbe) o a mettersi in posa come premio del concorso “vinci Salvini” (giuro che esiste). Cosa volete gli freghi degli alleati. Parafrasando l’odiato Umberto: «Foera di ball!».
10. IL LASSATIVO DI SGARBI. Provate a immaginare De Gasperi seduto sul water, con i pantaloni abbassati, che urla: «Togliatti fa cagare!». O Andreotti, ingobbito sulla tazza, che chiama a sé con il dito il cameraman: «Berlinguer, il lassativo che non vi abbandona, il lassativo che vi aiuta!». Lo so, non riuscite a immaginarlo. Neanche io. Nella galleria degli orrori di questa campagna elettorale, Sgarbi merita la palma d’oro.
Restiamo comunque fiduciosi. Toccato il fondo, non abbiamo alternative: possiamo soltanto risalire.
Il custode di vite
Tutto quello che avevo da dire è sulle mie tele senza cornice. Mi siedo e le guardo, senza capirci più di tanto ad essere sincero. Ma quello era il mondo che mi portavo dentro, i fantasmi che in qualche modo mi circondavano e che mi facevano compagnia. Ora sono svaniti, andati via. Con i miei anni oziosi e con le mie ciocche bianche, stanche anche loro, impregnate della polvere e della muffa dei pochi metri quadrati di tre stanze su due piani.
Eppure ho anche avuto paesaggi luminosi e colorati nella testa, alberi e fiumi e cieli azzurri e tramonti rosso arancio che avevano bisogno di prendere aria. Per questo dipingevo. Per questo ero circondato da ragazzi stupiti che mi chiedevano come si fa, con quali pennelli, se olio o tempera.
Osservo tra le pieghe dei miei ricordi per ritrovare brandelli di vita: una nebbia metà sogno e metà racconto di favole antiche, attorno al braciere fumante bucce di mandarini.
Nella città grande c’ero stato, ma quanta fatica per lo spirito quando devi pensare solo alla pancia. Lavorare, mangiare, dormire. Tutti i santi giorni. E mai potersi riconoscere, con la spada del bisogno ondeggiante sopra la testa, minacciosa e opprimente. Non mi andava più di vendere cianfrusaglie nei mercati, non poteva essere vita quella. Non poteva essere la mia.
Non poteva essere la nostra, amore. Anche se non eri d’accordo. Ci salutammo come davanti alla bara: gelidi, già morti. Chissà cosa fai ora, se ci pensi ancora a quest’uomo strano, perso tra le nuvole e i colori di un mare che un tempo fu calmo.
Ti attendevo ad ogni estate, ricordi? Il compromesso durò poco, ma io ti aspetto ancora. Sì. Ti aspetto per una passeggiata in montagna o per il gusto di dividere quel piatto che ti faceva chiudere gli occhi. Tu felice come una bimba che assapora sui rami le ciliegie più grosse, quelle più rosse. Io a compiacermi dei quadri sparpagliati in pineta, il teatro afoso della caccia al tesoro con premio finale le mie visioni.
Sono sopravvissuto ai miei anni e ora voi vorreste seppellirmi. Davvero non capisco. Non capisco questo vostro cercarmi, le vostre preoccupazioni per un vecchio scorbutico ma desideroso di silenzio. Questo chiedere informazioni a vicini che odio. Che mi spiano dalle finestre per vedere cosa porto dentro le mie grandi buste.
Vorrei essere lasciato in pace, non sentirmi più addosso occhi inorriditi per i topi che sbucano rumorosi tra lattine, bidoni e sacchi gonfi, non appena entrate con il fazzoletto premuto contro il naso.
La mia missione è offrire un riparo alla solitudine del mondo. Raccolgo per strada cose che voi avete abbandonato e le conservo perché un giorno, forse, serviranno ad altri.
Bottiglie che hanno dissetato, cibo che ha sfamato, scarpe che hanno camminato.
Custodisco la vita che scivola via da mani distratte, per quando sarà ancora vita.
Il primo consiglio comunale di Sant’Eufemia dopo l’Unità d’Italia
Gli storici hanno definito “Italia dei notabili” o “Stato monoclasse” il Regno d’Italia proclamato il 17 marzo 1861. Nello stato unitario il voto è appannaggio esclusivo di coloro che sono considerati i “migliori” per capacità professionale e patrimonio personale: in linea di massima, l’aristocrazia e la borghesia terriera. Tale diritto appartiene all’1,9% della popolazione e si fonda sui criteri del sesso, del censo e della capacità: possono votare i maschi venticinquenni (per essere eletti ne occorrono invece trenta) che pagano 40 lire di imposte dirette e che sono in grado di leggere e scrivere. In assenza del requisito del censo, il voto viene tuttavia concesso a diverse categorie professionali: laureati, professori, funzionari, magistrati, farmacisti, notai, ragionieri, geometri, veterinari, ecc.
Su 5852 abitanti (censimento del 1861), nel 1863 a Sant’Eufemia d’Aspromonte gli aventi diritto al voto politico sono 69. Leggermente meglio vanno le cose per il diritto di voto amministrativo. In questo caso il corpo elettorale è composto dai cittadini che, al compimento del ventunesimo anno di età, godono dei diritti civili e sono contribuenti comunali per una cifra che varia in base alla dimensione del comune: 10 lire a Sant’Eufemia, comune compreso tra 3.000 e 10.000 abitanti. Nel 1868, primo anno del quale sono disponibili i dati, gli aventi diritto sono 187 (115 i votanti).
Il consiglio comunale, composto da venti membri, dura in carica cinque anni e viene annualmente rinnovato per un quinto. Si procede alla sua elezione con “lista maggioritaria”: in pratica non vi sono liste contrapposte, ma è l’elettore a comporre una lista di nomi pari al numero di consiglieri da eleggere. La giunta municipale (quattro componenti titolari e due supplenti) viene invece rinnovata ogni anno al 50%. Il sindaco, nominato dal re su proposta del ministro dell’Interno, dura in carica tre anni ed è rieleggibile al termine del mandato: di fatto, viene scelto dal prefetto fra i consiglieri comunali eletti.
Con regio decreto del 30 luglio 1861, il proprietario Antonino Occhiuto (fu Nicola) diventa il primo sindaco di Sant’Eufemia dopo l’Unità, entrando così di diritto nella storia amministrativa del comune insieme ai consiglieri comunali eletti: Agostino Chirico, Antonino Condina (proprietario), Luigi Condina (proprietario), Giovanni Cutrì (farmacista), Michele Fimmanò (avvocato), Gaetano Gioffré (farmacista), Giuseppe Gioffré (proprietario), Domenicantonio Ietto (avvocato), Raffaele Monterosso (macellaio), Antonino Occhiuto di Luigi (proprietario), Luigi Oliverio (geometra), Giuseppe Papalia, Vincenzo Papalia (ramaio), Francesco Pentimalli (avvocato), Antonio Pietropaolo (negoziante), Annibale Rechichi (sacerdote), Giuseppe Versace (farmacista), Vincenzo Visalli (proprietario), Giacinto Zangari (proprietario).
*FONTI:
ASRC, Gabinetto di Prefettura, inventario 34, busta 136 (“Sindaci, amministrazione comunale, elezioni amministrative. 1861-1875”), f. 6381
ASRC, Fondo Prefettura, inventario 17, busta 247 (“Sant’Eufemia d’Aspromonte”), f. 6
Patente a punti e daspo per combattere chi incita alla violenza sul web
Complice una campagna elettorale dai toni altissimi, il web è diventato il moltiplicatore della violenza che quotidianamente vi circola da anni. Gli istinti primitivi trovano terreno fertile, innestandosi sui temi caldi della propaganda. E quale tema più caldo di quello dell’immigrazione? Quale bersaglio più facile di Laura Boldrini, al centro di un attacco mediatico violento e vergognoso sin dalla sua elezione alla terza carica dello Stato? Notizie incredibili, indecentemente false, che pure diventano virali quanto le centinaia e centinaia di bufale messe in circolazione da siti specializzati in fake news: spazzatura utile per soddisfare l’ego degli haters e il business dei clic.
Nel novembre scorso l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ha istituito il “Tavolo tecnico per la garanzia del pluralismo e della correttezza dell’informazione sulle piattaforme digitali”, con l’obiettivo di “promuovere l’autoregolamentazione delle piattaforme e lo scambio di buone prassi per l’individuazione ed il contrasto dei fenomeni di disinformazione online frutto di strategie mirate”. All’iniziativa ha aderito Facebook con i suoi “suggerimenti per individuare le notizie false”: un vero e proprio decalogo che aiuta gli utenti più sprovveduti a districarsi nella giungla dell’informazione taroccata (clicca qui per leggerne il contenuto).
Bene, pugno duro contro gli spacciatori di falsità. Ma una severità ancora maggiore va applicata agli istigatori seriali di violenza. La rete non può essere una terra di nessuno, dove chiunque può impunemente incitare a sgozzare, stuprare, commettere ogni sorta di violenza. I fatti di Macerata insegnano che il passaggio dalle parole ai fatti non è complicato in questa realtà così caratterizzata dal disagio economico e sociale, dall’odio politico che ci riporta alle pagine più buie della nostra storia. Pagine di intolleranza e di caccia alle streghe, fatte di parole d’ordine semplici e immediate, che parlano alla pancia di una società sempre più incattivita e per questo pronta a scatenare la guerra dei poveri, lo scontro penoso dei penultimi contro gli ultimi.
Esistono le leggi, certo. Le indagini sul barbiere calabrese che ha condiviso l’ultimo raccapricciante fotomontaggio di Laura Boldrini sgozzata vanno nella direzione di applicare sul caso la normativa vigente in materia (art. 338 del codice penale). Ma a mio avviso non bastano leggi e sanzioni. Occorre regolamentare l’accesso e l’utilizzo dei social con l’istituzione di una sorta di “patente a punti”, associando a ogni profilo un solo documento d’identità: basta profili falsi, tanto per incominciare.
Come nella vita reale, anche nel mondo mica-tanto-virtuale della rete bisogna mettere la propria faccia sui contenuti che si pubblicano. Sarebbe una misura eccessiva? Non direi. Chi è abituato a vivere nella limpidità non avrebbe nessun problema ad accettare un “controllo” del genere.
Ad ogni violazione andrebbe quindi applicata la sottrazione di un punteggio, variabile a seconda della gravità dell’infrazione, fino all’azzeramento del bonus iniziale: eventualità che farebbe scattare la “squalifica” dai social per un tempo più o meno lungo, maggiorato nei casi di recidiva.
Tolleranza zero contro i violenti: è ragionamento superficiale ridurre la questione a semplice strumentalizzazione tipica delle campagne elettorali. Non è così. Il tema è molto più serio e generale, investe le regole stesse della civile convivenza.
L’allenatore delle notti magiche
C’è stato un tempo in cui il mio personale calendario procedeva a intervalli regolari di quattro anni, un tempo scandito dall’appuntamento con i mondiali di calcio. Quello del 1990 è stato il mio ultimo mondiale da minorenne. Andavo per i diciassette ed ero un ragazzo tutto casa, scuola e calcio. Finivamo di allenarci e scendevamo in piazza per giocare ancora a pallone (che a volte era una pallina o una lattina schiacciata), o in pineta, per le strade, ovunque. Qualche anno prima, categoria esordienti, pur di disputare la partita il giorno dopo un’abbondante nevicata, tra ragazzini facemmo una colletta per comprare sale grosso da spargere sul campo di prima mattina. Ne uscì fuori un incontro epico in un pantano che quello famigerato di Perugia in confronto è una barzelletta. Ricordo con tenerezza quella passione smisurata, ora che qualche capello bianco e un calcio completamente cambiato da quello ancora romantico della mia giovinezza mi fanno seguire questo sport con minore passione. Ma il calcio per me sarà sempre una vecchia fidanzata che mi ha fatto sognare e che mi ha trasmesso emozioni fortissime, sia sul rettangolo di gioco che con l’orecchio attaccato alla radiolina o seduto davanti allo schermo della televisione.
Il 1990 è stato l’anno della mia prima, fortissima, delusione calcistica. Sì, c’erano già state le due eliminazioni dell’Inter in Coppa Uefa contro il Real Madrid (quella della biglia lanciata dagli spalti che colpì Bergomi e l’altra ai supplementari), ma un mondiale è un mondiale: qualcosa di indescrivibile per tutto ciò che può provare un tifoso in novanta minuti di pura trance agonistica. Nel 1982 avevo già vinto un mondiale, insomma a nove anni vantavo già un palmares di tutto rispetto. Quello del 1986 aveva un destino segnato, lo capimmo da subito. Era una squadra di reduci che si erano coperti abbondantemente di gloria, una sorta di ringraziamento finale che Bearzot aveva voluto tributare agli eroi del Bernabeu: ma il destino di quella squadra era segnato, per cui la delusione non fu cocente.
Nel 1990 fu diverso. Mondiali giocati in casa e una nazione intera che sembrava di vivere dentro una favola, quella delle “notti magiche” cantate da Edoardo Bennato e Gianna Nannini, degli ormoni giovanili impazziti per le gambe di Alba Parietti, arrampicata con le sue provocanti minigonne sullo sgabello dal quale conduceva una trasmissione sportiva.
Una nazionale figlia di Azeglio Vicini, tecnico federale a lungo selezionatore dell’Under 21, che l’aveva plasmata a sua immagine e somiglianza. Un esercito di fedelissimi che macinava gioco e risultati con la sicurezza di chi è consapevole di essere il più forte. Difesa granitica con Bergomi, Ferri, Baresi e il giovane Maldini, l’astro nascente Baggio, la fantasia di Donadoni e la forza fisica di Berti e Vialli. E poi lui: Totò Schillaci. I suoi occhi spiritati sembravano usciti da una favola bella, fatta di sacrifici, fame e tanta gavetta. In quell’estate del 1990 tutti gli dei del mondo si erano messi d’accordo, ogni volta che Totò toccava palla faceva gol. A ogni triplice fischio, tutti nelle strade per sfilare, protagonisti anche noi di un sogno dal quale non avremmo mai voluto svegliarci.
E invece. L’uscita sciagurata di Zenga, allora il più forte portiere del mondo, fu una secchiata d’acqua gelida. Uscimmo dal mondiale in semifinale, senza perdere una partita. La mia fu un’amarezza doppia, perché Zenga era l’idolo dell’Inter dei record. Un doppio tradimento.
Salì sul tetto del Bar Mario, allora nei locali dell’ex cinema di via Carusa. Il ferro al quale era attaccata la bandiera della nazionale è ancora piegato: e furono lacrime amare, lacrime di rabbia, lacrime che solo per amore si possono versare.
Per non dimenticare
La forma più nobile di omaggio alle vittime di ieri è il ricordo di oggi: è questo il senso del “Giorno della memoria”, riconosciuto dalle Nazioni Unite e celebrato in Italia a partire dal 2001.
La data (27 gennaio) ricorda l’arrivo, nel 1945, delle truppe sovietiche nel campo di Auschwitz e la fine di un incubo. La commemorazione delle vittime del nazismo non deve però essere una mera ritualità: il rischio, altrimenti, è quello di provocare addirittura una sorta di assuefazione nei confronti della Shoah.
L’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia si chiede: «Quando resteremo soli, quando anche l’ultimo testimone della Shoah non sarà in vita, saremo capaci di continuare a trasmettere la memoria della Shoah alle nuove generazioni?». Con il trascorrere degli anni inevitabilmente scompaiono, uno ad uno, i testimoni diretti di quella tragedia immane. Da qui il dovere di continuare a fare memoria, ripetendo con forza le parole di Primo Levi: «Siamo figli di quell’Europa dove è Auschwitz: siamo vissuti in quel secolo in cui la scienza è stata curvata, ed ha partorito il codice razziale e le camere a gas. Chi può dirsi sicuro di essere immune dall’infezione?».
Cos’è un lager? Se lo chiede Francesco Guccini in una canzone (“Lager”) meno famosa della citatissima “Auschwitz”, che ricorda l’orrore delle vittime gassate con il famigerato Zyklon B e “passate” per il camino dei forni crematori («Son morto con altri cento/ son morto ch’ero bambino/ passato per il camino/ e adesso sono nel vento»). La risposta del cantautore modenese interroga le nostre coscienze su quanto possa essere pericoloso pensare al lager come a un qualcosa confinato nel passato, accaduto per colpa di altri, non più riproponibile: «È una cosa come un monumento/ e il ricordo assieme agli anni è spento/ non ce n’è mai stati/ solo in quel momento:/ l’uomo in fondo è buono/ meno il nazi infame». Che un po’ richiama Hannah Arendt e la “banalità del male”: «Il male non è fuori, ma dentro ognuno di noi».
Eccolo, il rischio concreto: convincersi che quel periodo storico è ormai morto e sepolto, che tragedie simili non possano più accadere. Purtroppo non è così: nel mondo di oggi sono milioni gli uomini e le donne che subiscono soprusi e vessazioni, che pagano con la morte l’appartenenza a una razza o a una confessione religiosa.
Le politiche di sterminio nel Novecento non sono un’esclusiva nazista, anche se la pianificazione di quell’orrore è inarrivabile: il genocidio degli armeni, le vittime dei gulag sovietici e quelle di Pol Pot e dei Khmer rossi in Cambogia, la pulizia etnica nella ex-Jugoslavia e in Ruanda, i gas di Saddam Hussein contro il popolo curdo. E ancora, ai nostri giorni, la persecuzione dei Rohingya in Myanmar, degli Uiguri nella Cina comunista, dei popoli del Centroafrica in fuga da guerre e carestie. Popoli ai quali vengono sistematicamente negati i più elementari diritti umani.
Il ricordo della Shoah come antidoto contro ogni fanatismo. Studiare il passato per evitare di commettere gli stessi errori, in una fase storica caratterizzata da un drammatico disagio sociale ed economico che genera odio e intolleranza, mentre il vento del razzismo soffia forte e minaccia le ragioni stesse della civile convivenza.
La memoria come dovere morale, quel dovere morale che spinse Shlomo Venezia ad andare su e giù per le scuole di tutta Italia a raccontare l’Olocausto, l’orrore dal quale si era salvato, anche se – ripeteva – “qualunque cosa faccia, qualunque cosa veda, il mio spirito torna sempre nello stesso posto… Non si esce mai, per davvero, dal crematorio”. Shlomo Venezia, scomparso qualche anno fa, ebreo di Salonicco ma di nazionalità italiana: uno dei pochi sopravvissuti del Sonderkommando di Auschwitz-Birkenau, la squadra speciale selezionata tra i deportati che faceva “funzionare” alla perfezione la macchina di sterminio nazista: erano loro ad accompagnare i prigionieri alle camere a gas, li aiutavano a svestirsi, tagliavano i capelli ai cadaveri ed estraevano dalle loro bocche i denti d’oro, infine li trasportavano nei forni. Un’organizzazione del lavoro geometrica nell’inferno che trasformò in non-uomini gli uomini.
Ricordare è necessario per smontare le fandonie scellerate dei negazionisti, ma anche per controbattere alla cinica considerazione che “una morte è una tragedia, milioni di morti sono una statistica”. Dietro a ogni numero ci sono un volto, una storia, una vita spezzata. Bambini che non hanno avuto la fortuna di giocare, di diventare adulti, di avere dei figli. Anziani ai quali non è stato concesso di morire in maniera dignitosa. Adulti che ebbero la “colpa” di credere nel Dio della Torah o di essere omosessuali, prigionieri di guerra, oppositori politici, zingari, disabili.
Se ancora c’è gente che pensa che le camere a gas siano un’invenzione, che non vi sia stata la volontà criminale e preordinata di cancellare dalla faccia della terra gli ebrei e tutte le categorie considerate inferiori vuol dire che il “Giorno della Memoria” è più che mai indispensabile per mantenere vivo il ricordo di ciò che è accaduto e per esorcizzare il male di cui l’uomo è capace.
Una strada groviera / 2
Le condizioni della strada che porta all’ex svincolo autostradale sono ulteriormente peggiorate. Nell’attesa dei lavori annunciati di prossima realizzazione e dell’intervento strutturale di 7,1 milioni di euro del quale ancora si attende la progettazione, come gruppo consiliare “Per il Bene Comune” continueremo a segnalare il disagio sofferto quotidianamente dalla popolazione del nostro territorio. Di seguito la nota per la stampa.
Purtroppo siamo stati facili profeti nel prevedere, due settimane orsono, che alla nostra denuncia sullo stato disastroso della Strada Provinciale 2 che collega Sant’Eufemia all’ex svincolo autostradale sarebbe seguito un intervento di riparazione alla meno peggio delle buche più pericolose, ma assolutamente insufficiente. E così è stato. Morale della favola: siamo di nuovo al punto di partenza, se non in una situazione addirittura più grave. La pioggia insistente di questo periodo ha provveduto ad aprire altri crateri, il resto lo sta facendo la nebbia persistente degli ultimi giorni che, aiutata dall’impercettibilità delle strisce stradali (laddove ci sono), sta creando disagi inaccettabili alle centinaia di automobilisti che quotidianamente hanno necessità di uscire da Sant’Eufemia, Sinopoli e dall’intero comprensorio per lavoro o per qualsiasi altra incombenza e che si ritrovano con qualche ruota scoppiata.
Ci appelliamo ad Anas e alla Città Metropolitana affinché battano un colpo e diano a queste popolazioni dimenticate da Dio e dagli uomini un segnale di vita. Chiediamo al Sindaco metropolitano Giuseppe Falcomatà e al consigliere delegato alla viabilità Demetrio Marino di fare una passeggiata da queste parti per verificare personalmente lo stato pietoso di un’arteria stradale così importante e per valutare essi stessi se è dignitoso, per la stessa Città Metropolitana, che una vasta e importante porzione del suo territorio subisca uno stato di abbandono così mortificante.
*I consiglieri comunali “Per il Bene Comune”
Domenico Forgione
Pasquale Napoli
L’Asp non riesce a garantire la normale manutenzione dei mezzi del 118
La mia nota sulla situazione incresciosa della manutenzione delle ambulanze del 118, che crea disagi anche alla nostra popolazione perché l’ambulanza della postazione di Sant’Eufemia spesso viene chiamata per intervenire in comuni generalmente serviti da altre postazioni, lasciando così scoperto il nostro territorio.
Non è la prima volta che organizzazioni sindacali denunciano le carenze strutturali e strumentali del SUEM 118 nella provincia di Reggio Calabria. Una situazione drammatica ribadita, da ultimo, dalla Cisl – Funzione Pubblica il 2 gennaio scorso, in seguito al contemporaneo guasto delle ambulanze di Reggio Calabria, Scilla, Locri e Taurianova. In mancanza di un contratto con un’officina di riferimento (perché nessuno vuole convenzionarsi con l’Asp? Forse perché non si ha certezza sui tempi di pagamento?) diventa un’odissea realizzare anche soltanto interventi di routine quali il cambio delle pasticche dei freni o della batteria, per cui si rende necessario l’aiuto di privati che supportano il servizio pubblico sostituendosi di fatto ad esso.
Ad essere penalizzati dall’inefficienza dell’Asp di Reggio non sono soltanto i cittadini dei comuni che dovrebbero essere serviti dalle ambulanze pubbliche. Ne sanno qualcosa i cittadini di diversi comuni dell’entroterra aspromontano, ogni volta che la postazione del 118 di Sant’Eufemia d’Aspromonte viene utilizzata per trasferimenti fuori provincia o per effettuare interventi di sostituzione a Scilla, Bagnara o Villa San Giovanni, finendo così per lasciare inevitabilmente scoperto il territorio nel quale operano abitualmente. Una situazione che diventa più grave nella stagione invernale, considerato che l’ambulanza in questione è a trazione integrale, indispensabile per prestare soccorso nelle zone innevate dell’Aspromonte o presso la stazione sciistica di Gambarie.
La tempestività del 118 è chiaramente un’arma vincente quando si ha a che fare con arresti cardiaci, ischemie, incidenti stradali. Che questa tempestività possa mancare perché l’Asp non riesce a garantire ai propri mezzi la normale manutenzione indigna profondamente, al di là di ogni incontestabile vincolo di solidarietà e del dovere di intervenire in caso di emergenza: è già capitato che un ragazzo con una frattura esposta del femore e con una grave emorragia sia stato soccorso con notevole ritardo perché l’ambulanza del 118 di Sant’Eufemia era fuori provincia, per cui si è dovuto attendere un mezzo di soccorso proveniente da Gioia Tauro. In quella circostanza la tragedia non si compì, ma soltanto grazie alla benevolenza del fato.
Una sorta di guerra tra poveri per queste popolazioni che quotidianamente si scontrano con una sanità vergognosamente inefficiente. Figli di un dio minore che vivono in una realtà nella quale un diritto costituzionalmente garantito viene mortificato, nella quale problemi risolvibili con un normale intervento del 118 possono risultare fatali perché l’Asp impiega quindici giorni, un mese, o anche oltre, per fare riparare guasti ordinari alle proprie ambulanze.
Che disastro avete combinato?
Da diversi giorni assistiamo allo spettacolo sgradevole allestito da questa Amministrazione Comunale per salutare il 2017 e dare il benvenuto al 2018. Un inizio peggiore non era immaginabile nemmeno dalla più sfrenata fantasia!
Siamo indignati come tutti i cittadini che si sono visti recapitare a casa le intimazioni per il pagamento di tasse comunali non dovute perché già corrisposte o dall’importo elevatissimo. L’Amministrazione ha cercato di metterci una pezza scaricando ogni responsabilità sulla società che gestisce il servizio di riscossione, dalla quale – è stato dichiarato – si pretenderanno le scuse e il pagamento dei danni al comune. Benissimo: chi ha sbagliato deve pagare. Proprio per questo sarebbe cosa giusta che l’Amministrazione Comunale desse il buon esempio e cominciasse, essa per prima, a chiedere scusa ai cittadini! Sarebbe un bel gesto di umiltà, che non guasta mai.
Esistono RESPONSABILITÀ POLITICHE che non si possono nascondere sotto il tappeto e che ricadono, inevitabilmente, su coloro che amministrano. La responsabilità politica è negli atti mandati nelle case dei contribuenti, intestati “Comune di Sant’Eufemia d’Aspromonte” e sottoscritti da un funzionario responsabile. Non sono stati risparmiati neppure i defunti, anche a cittadini morti da vent’anni sono arrivate bollette da pagare!
Chi sono quindi i responsabili di questo scempio? Davvero credete che i cittadini non sappiano valutare cos’è accaduto con il “pasticciaccio brutto” delle vostre bollette? Nelle notifiche relative al pagamento dell’IMU si legge che l’avviso “è stato redatto in base alle informazioni in possesso di questa Amministrazione” (in particolare, grazie alla documentazione disponibile presso l’Ufficio Tributi, ai versamenti ordinari e ai ravvedimenti operosi): di chi è quindi la responsabilità?
Un amministratore responsabile ha il dovere di gestire la cosa pubblica con la diligenza del “buon padre di famiglia”. SIETE STATI NEGLIGENTI e la vostra inadeguatezza grava purtroppo sulle casse comunali: avete speso migliaia e migliaia di euro che potevano essere utilizzate per fare qualcosa di utile per la collettività, invece di inviare ai cittadini bollette che sono carta straccia, da strappare e cestinare una volta che verranno eseguiti i necessari accertamenti.
Se proprio non ce la fate a dimettervi, abbiate almeno il pudore di chiedere scusa ai cittadini per la vostra manifesta incapacità di amministrare la cosa pubblica.
I Consiglieri Comunali “Per il Bene Comune”
DOMENICO FORGIONE
PASQUALE NAPOLI
Sant’Eufemia d’Aspromonte, 12 gennaio 2018