Nell’estate del 1969 c’era stato il festival di Woodstock, la tre giorni di musica più celebrata della storia, mentre negli anni Settanta la band inglese “The Who” passava da un successo all’altro. Influenze che arrivano in provincia con qualche anno di ritardo, ma con un’immutata carica di rivoluzionare costumi e tendenze di una società che il ’68 aveva stravolto. Riguardando a quegli anni balza evidente che il desiderio di cambiare il mondo era uguale per i giovani di Milano, Berkeley o Sant’Eufemia d’Aspromonte. I più impegnati erano attivi nelle scuole, nelle università e sui luoghi di lavoro. Poi c’era chi “faceva politica” con comportamenti individuali trasgressivi, spesso non compresi da una comunità che restava fondamentalmente arretrata, incapace di avvertire il vento di un cambiamento epocale. Minigonne e capelli lunghi non passavano inosservati in un paesino dell’Aspromonte: eppure ci furono ragazzi e ragazze che “sfidarono” genitori e benpensanti in nome di una libertà che era anche quella di vestirsi a proprio piacimento.
La musica diventa il grimaldello per scardinare vecchie convenzioni; le note, ali sulle quali fare volare il sogno di un mondo governato dalla fantasia, dalla bellezza, dall’amore. È il periodo d’oro per i complessi musicali, che si costituiscono un po’ ovunque e consentono inedite opportunità di incontro e relazione tra i due sessi.
Nascono così a Sant’Eufemia nel 1973 i “Wood”, il cui nome è un omaggio al paesaggio locale e, per assonanza, un richiamo esplicito al gruppo di Pete Townshend. La formazione iniziale è composta da Cosimo Luppino (chitarra elettrica e voce), Totò Orlando (tastiere), Natale Condello (batteria), Armando Calabrò (basso), ai quali in un secondo momento si unisce Mimmo Lupoi (chitarra acustica e voce). Qualche anno prima avevano in realtà segnato il cammino i “Pupi 32”, fondati dai cugini Pupo (entrambi sedicenni, da cui il nome): Vincenzo alla chitarra, Mimmo alla tastiera e voce, Cecè Tripodi al basso, Cesare Bille alla batteria. I Wood raccolgono però l’eredità di un altro gruppo, i Sud Boys (o Ragazzi del Sud): Luigi Nolgo (voce), Saverio Infantino (chitarra), Pino Fiorentino (chitarra da accompagnamento), Gaetano Chirico (batteria), Totò Orlando (tastiere) e, nella fase finale, Cosimo Luppino. Saranno proprio questi ultimi due a fare da trait d’union tra Sud Boys e The Wood, dopo le defezioni di coloro che per motivi di studio o di lavoro sono costretti ad andare via dal paese.
Totò Orlando è il componente che ha più familiarità con note e spartiti per via del genitore, il Maestro Vincenzo Orlando, clarinettista uscito dal conservatorio di San Pietro a Majella, anche se il colpo di fulmine, in lui, scocca ascoltando il suono della tastiera dei Pupi 32. Cosimo Luppino è un eclettico chitarrista infatuato di Carlos Santana, le corde della sua Gibson SG Custom “diavoletto” sprigionano sonorità che toccano l’anima. Natale Condello, che si innamora della batteria assistendo alle prove dei Sud Boys nel “basso” di don Pepè Chirico (medico condotto, papà di Gaetano), racimola fortunosamente una Hollywood Meazzi d’ennesima mano a Messina. Armando Calabrò, che come Mimmo Lupoi è di Sinopoli, porta in dote il basso dal disciolto gruppo musicale “Angeli azzurri”.
La band è composta da “bufali” e “locomotive”. I primi (Luppino, Condello) suonano ad orecchio, si lasciano trascinare dall’istinto, azzardano soluzioni creative: come il bufalo di De Gregori scartano di lato e per questo, ogni tanto, cadono. I secondi (Orlando, Calabrò) sono fedeli esecutori dello spartito, locomotive dalla strada segnata. La forza del gruppo è nell’equilibrio tra queste due spinte, l’estro di Luppino ricondotto da Orlando a struttura musicale ordinata.
Il repertorio dei ragazzi, nazionale e internazionale, viene costantemente arricchito dalle musicassette pirata acquistate nel mercato domenicale e dall’ascolto religioso di programmi radiofonici che divulgano le novità musicali del momento: “Per voi giovani”, condotto tra gli altri da Carlo Massarini e Raffaele Cascone; “Supersonic” (Tullio Grazzini), “Pop-Off” (Maria Laura Giulietti, Massarini, Cascone e altri).
Mimmo Lupoi incrementa le soluzioni artistiche e la scaletta del gruppo, ma soprattutto consente un salto di qualità significativo con l’acquisto di un impianto voce Montarbo da 700 watt, per quei tempi e in quel contesto un vero e proprio lusso. Come i loro predecessori i Wood suonano in paese e nel circondario, in occasione di serate danzanti, veglioni di capodanno, matrimoni e feste. Le trasferte sono avventurose: su un pulmino Volkwagen noleggiato oppure stipati dentro un’unica vettura, propria o di fortuna quando riescono a strappare un passaggio.
Sono ragazzi pieni di vita che al di là delle esibizioni sul palco fanno musica estemporanea, correndo a sperimentare per ore ed ore nuove soluzioni, quando non tirano tardi in piazza con chitarre e bongo, aggiungendo un pizzico di magia al cielo stellato dell’estate eufemiese. Qualcuno storce il naso («Che fanno questi?»), altri approvano quella sana goliardia che li spinge a parlare con un’inflessione nordica in un concerto tenuto a Gallico, pubblicizzato con una locandina geniale: “per la prima volta in Calabria”. Per una settimana, a Delianuova curano l’accompagnamento dei concorrenti dello “Zecchino Deliese”, ma eseguono anche brani propri, rifacendosi all’esperienza dei Sud Boys che qualche anno prima avevano organizzato nei locali del cinema di Sant’Eufemia un partecipatissimo festival per ragazzi.
Ogni tanto qualcuno passa a trovarli mentre provano nel primo piano che si affaccia sulla centralissima via Maggiore Cutrì. Dall’altro lato della strada c’è la sede della camera del lavoro e da lì accorre ebbro di gioia il segretario Vincenzo Gentiluomo (“u brigghiu”), per la storica vittoria del partito comunista e l’elezione a sindaco del professore Peppino Pentimalli: «Abbiamo vinto! Abbiamo un sindaco comunista! Suonate bandiera rossa!» – la richiesta, esaudita, mentre sotto una folla festante canta l’inno dei lavoratori.
La storia dei Wood è un’esperienza che si esaurisce quando prendono il sopravvento le necessità materiali dei suoi componenti, alcuni dei quali sono costretti all’emigrazione. Una parentesi esistenziale che tuttavia chiarisce la visione di una generazione, affascinata dallo spazio sconfinato della prateria e dal sogno inteso – alla Ivano Fossati – come elemento fondamentale della vita di ogni giovane: “un tempo bellissimo, tutto sudato, una stagione ribelle […]; un tempo sognato, che bisognava sognare”.
Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra – La recensione di StrettoWeb
SANT’EUFEMIA D’ASPROMONTE E LA GRANDE GUERRA: LA COLOSSALE RICERCA CHE RESTITUISCE UNA STORIA E UN’IDENTITÀ AI CADUTI.
In Calabria i giovani chiamati alle armi furono migliaia e Sant’Eufemia d’Aspromonte offrì alla causa nazionale centinaia di propri figli – Articolo di Monia Sangermano per StrettoWeb
Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra, un tema ostico e complesso, ma sempre attuale quello trattato da Domenico Forgione nel suo ultimo lavoro di ricerca, tramutato in un libro che a breve sarà dato alle stampe. Ciò che è accaduto in un periodo storico tra i più caldi che la storia italiana ricordi ha cambiato la conformazione umana e sociale di quasi i tutti i comuni della nostra penisola, andando a rivoluzionare soprattutto le regioni del sud. In Calabria i giovani chiamati alle armi furono migliaia e Sant’Eufemia offrì alla causa nazionale centinaia di propri figli. Forgione, esperto e appassionato di storia, ha voluto raccogliere in un volume tutte le vite di questi eufemiesi, “accompagnandoli” nel loro percorso di guerra e di vita, che li ha portati in alcuni casi a tornare dalle loro famiglie e in molti altri a trovare la morte in terra straniera. Una morte che ha dunque privato la comunità di un consistente patrimonio umano e che oggi, dopo un secolo, può essere ricostruito e fatto conoscere a tutti grazie a questa approfondita ricerca.
“Le fonti che ho utilizzato – spiega Forgione che ha portato a termine una minuziosa e certosina ricerca durata oltre 4 anni – sono diverse: i ruoli matricolari, ovvero 256 volumi con tutte le classi dal 1875 fino al 1900; l’Ufficio notizie, creato nel 1915 con sede centrale a Bologna (per i militari di terra e di mare); l’ufficio anagrafe del Comune. Alcuni dei documenti che ho avuto modo di analizzare, in particolare quelli dell’Ufficio notizie, erano lacunosi, mancavano dei dati, ma incrociandoli sono riuscito a venire a capo di tante storie, tante vite che da Sant’Eufemia sono partite e in alcuni casi purtroppo non sono più tornate. Complessivamente le schede dell’Ufficio notizie sono sessantamila e io ne ho utilizzate circa 1.500. L’Ufficio anagrafe del comune mi è stato molto utile per lo stato civile e in particolare per il nome delle mamme di questi ragazzi: ci tenevo molto, per un senso di giustizia anche nei confronti di queste madri che hanno sofferto in silenzio e con grande dignità subendo il dolore più devastante che un essere umano possa subire”. In totale i soldati censiti dal ricercatore eufemiese sono 580, ma probabilmente i suoi compaesani che hanno combattuto la prima guerra mondiale sono di più, di molti però si è purtroppo persa traccia.
“Il libro – racconta ancora Domenico Forgione – è costituito da una prima parte di introduzione generale, dove spiego che cos’è l’ufficio notizie, quali campi di prigionia hanno “ospitato” i nostri militari, quali sono state le principali malattie veicolate da e per la guerra, racconto la vita della trincea e descrivo i soldati, uno per uno, indicando nome, altezza e altri dati che potranno sicuramente interessare. Inoltre ho inserito un’appendice che contiene qualche cartolina dal fronte, qualche foto e soprattutto i grafici con le statistiche.”. Un tuffo nel passato, dunque, quello di Forgione che aiuterà molti suoi concittadini a comprendere il loro stesso presente, anche solo ricercando, tra quei 580 nomi, un cognome familiare, un “marchio” di famiglia, una storia già sentita dai racconti dei nonni.
Per aspera ad astra
“Per aspera ad astra”: forse è nella citazione latina utilizzata come immagine di copertina della sua pagina facebook la chiave per capire il senso della maturità conseguita da Jessica Tripodi, 28 anni compiuti da poco. Mi ha molto incuriosito la storia di questa ragazza caparbia che un giorno decide di “riprendere in mano” la propria vita, ricominciando da dove dodici anni fa era rimasta interrotta. Il diploma di maturità per molti è qualcosa di scontato; per altri può invece rappresentare “un appuntamento dove non incontrerò nessuno, ma incontrerò me stessa”.
D. Quando e perché avevi interrotto gli studi?
R. Mi fermai nel 2006, all’inizio del terzo anno al liceo scientifico “Enrico Fermi” di Sant’Eufemia. Probabilmente non era l’istituto superiore che desideravo, ma la ragione vera è che non riuscivo più ad avere un mio equilibrio a causa dei problemi interiori maturati nel corso dell’infanzia, tra i quali il trauma della morte di mio fratello Damiano, che hanno segnato la mia psiche e il mio modo di rapportarmi con il mondo. Mi ritrovai a combattere contro un mostro che a quell’età non si dovrebbe conoscere affatto: la depressione. Arrivai al punto di non avere più alcuna energia fisica né mentale, nemmeno per le attività quotidiane. Tutto era diventato troppo pesante, opprimente, disperato. I professori si precipitarono a casa mia implorandomi di non mollare: ero una brava studentessa, in seconda e in terza media avevo pure vinto due borse di studio intitolate al preside Lorenzo Battaglia. Ma ero troppo stanca, psicologicamente e fisicamente.
D. Come hai fatto a capire che si trattava del “male oscuro” e come ne sei uscita?
R. Un giorno decisi di chiedere aiuto. Mi recai a Scilla e incontrai il dottore Plutino, il quale dopo avere chiacchierato un po’ con me mi affidò alle cure di una dottoressa dell’ospedale, la psichiatra e psicoterapeuta Rosa Milasi. Era il 2014 e la decisione del dottore Plutino mi ha salvato la vita. Iniziai un percorso lento, graduale, non facile, con una dottoressa eccellente che è riuscita a farmi superare piano piano il mio blocco di vita. Oggi sono riuscita a riprendere in mano molte cose e, nonostante ancora rimangano alcune cose da risolvere con me stessa, sto bene.
D. Era quindi giunto il momento di “riprendere in mano” la tua vita.
R. Qualche anno dopo l’abbandono della scuola avevo tentato di fare domanda al liceo linguistico per recuperare e diplomarmi, ma non stavo ancora bene e le domande si perdevano nel vuoto. A novembre 2017 ci riprovai. Presentai la domanda come candidata esterna agli esami di stato. Alcuni mi sconsigliarono di fare tutto in una volta: dovevo recuperare terzo, quarto e quinto anno e poi sostenere l’esame di maturità. Ma io non volevo perdere altro tempo. Presentai la domanda al liceo statale “Tommaso Gullì” di Reggio, indirizzo linguistico. Il 21 maggio 2018 cominciarono gli esami preliminari.
D. Come li hai affrontati?
R. Ebbi un momento di sconforto perché, lavorando, avevo avuto poco tempo per studiare. Telefonai alla mia migliore amica e piangendo le dissi che non intendevo presentarmi perché ritenevo di non avere una preparazione adeguata. Lei si arrabbiò, sapeva bene quanto ci tenessi ed io non volevo deluderla: insomma, mi presentai. Il primo giorno ci fu la prova di italiano. Tema sul progresso. Amo scrivere, quindi andò bene. Il secondo giorno c’erano le prove di matematica e di inglese. La matematica è sempre stato per me un discorso troppo complesso. Quel giorno davvero avevo deciso di non andare e di mollare tutto. Ebbi una lite furibonda con mio padre, ma ero inamovibile. Scrissi alla dottoressa Milasi per comunicarle che non sarei andata. Mi telefonò subito e mi disse: «Jessica, io non le permetto di non permettermi di aiutarla. Lei DEVE andare. Non importa se consegnerà la prova di matematica in bianco, ma deve andare!». Arrivare in tempo fu un’odissea, perché ero in netto ritardo. Cercai di fare quello che potevo, usando anche la logica: ho imparato che non bisogna mai lasciare in bianco nulla, sul foglio come nella vita. La prova di inglese andò bene, così come – il giorno dopo – quelle con le mie materie del cuore, il francese che avevo studiato a scuola e lo spagnolo imparato da autodidatta. Presi due “otto” e la soddisfazione dei complimenti della professoressa di spagnolo, madrelingua, che mi chiese se avessi un secondo diploma: «Magari», pensai io. Il 26 maggio affrontai l’orale sul programma di tre anni: non mi comunicarono esplicitamente il risultato, ma mi lasciarono intendere di cominciare a studiare per gli esami di stato. La sera me ne andai ad Acireale, al concerto di Emma, felice e leggera. Ero stata ammessa.
D. Veniamo al grande “appuntamento”. Com’è stato?
R. Nella prima prova ho scelto il saggio breve sulla solitudine nell’arte e nella letteratura. Adoro Alda Merini, nei suoi versi rivedo le profonde sofferenze che ho patito: solo chi ha a che fare con i problemi dell’anima può comprendere il dramma del dolore interiore. Per la seconda prova, lingua inglese, ho puntato sull’analisi di un brano di letteratura, mentre nella terza ho fatto il massimo pur nella consapevolezza di non potere avere una preparazione ottimale in tutte le materie. Gli orali me li ero immaginati diversamente. Sognavo di andare là e di fare un’interrogazione perfetta, esponendo in maniera impeccabile la mia tesina sulla passione. Ma non è stato così. Ero nervosa, tesa ed emozionata. Mentre parlavo piangevo: mi sono passati davanti agli occhi tutti questi anni, le difficoltà, i miei problemi. Il professore di spagnolo si è alzato per prendermi dell’acqua, gli altri commissari e la presidente sono stati dolcissimi e comprensivi. Ho cercato di dire quello che potevo e che ricordavo, e di arrivare per logica dove non ricordavo. Ho concluso con una poesia di Francisco Luis Bernardez, poeta argentino amico di Jorge Luis Borges: “Se per recuperare quello che ho recuperato/ è stato necessario che perdessi prima quello che ho perduto,/ se per ottenere quello che ho ottenuto/ ho dovuto sopportare ciò che ho sopportato,/ se per essere adesso innamorato/ è stato necessario essere ferito,/ tengo per ben sofferto quello che ho sofferto,/ tengo per pianto bene ciò che ho pianto./ Perché dopotutto ho constatato/ che non si gode bene quel che si è ottenuto/ se non dopo che questo si è patito./ Perché dopotutto ho ben capito/ che quanto l’albero possiede di fiorito/ vive di quel che tiene seppellito”.
D. Una volta promossa, hai pensato a qualcuno in particolare?
R. Sì. Voglio dedicare questo mio traguardo alla signora Maria Rosa Carbone Falvetti, una donna meravigliosa che mi voleva tanto bene, colta nel profondo e dall’animo gentile, provata duramente dalla vita ma sempre abituata a combattere.
D. Progetti per il futuro?
R. Ora mi aspetta la facoltà di Lingue e letterature straniere!
Francesco Antonio Colella
Il 9 luglio l’associazione culturale “Geppo Tedeschi” di Oppido Mamertina ha onorato il ricordo di Francescantonio Colella, meglio noto come Mastr’Antoni ’u poeta, singolare esponente della poesia vernacolare la cui opera merita di essere riscoperta e divulgata. La manifestazione, che si è svolta nel cimitero di Oppido, ha avuto vissuto il primo emozionante momento con la collocazione di una croce commemorativa benedetta da don Letterio Festa, subito dopo la celebrazione della Santa Messa officiata nella cappella centrale del camposanto. A seguire lo studioso Antonio Roselli ha ripercorso la parabola umana e artistica del mastro d’ascia e poeta Francescantonio Colella, nato a Sant’Eufemia d’Aspromonte nel 1871 e trasferitosi per motivi di lavoro ad Oppido dopo il terremoto del 1908, tragico evento nel quale perì l’adorata moglie Serafina. Qui si risposò e continuò a coltivare la passione per la poesia, componendo poemetti di carattere politico, sociale e religioso ed intraprendendo una fitta collaborazione con la rivista cittanovese “Albori”, fino alla morte sopraggiunta nel 1942.
Le sue poesie sono quasi tutte inedite, per cui è auspicabile che l’iniziativa di sensibilizzazione ai temi della cultura e della memoria locale portata avanti da Roselli e dall’associazione “Geppo Tedeschi” abbia come seguito proprio una pubblicazione che consenta la loro fruizione ad un pubblico più vasto.
La chiusura della manifestazione è stata affidata all’arte declamatoria di Ciccio Epifanio, che ha proposto una propria composizione vernacolare dedicata al poeta Colella, del quale ha successivamente recitato il poemetto inedito “O vivi, vivi, chi a lu Campusantu”.
Condivisibili le parole di Roselli sulla necessità di riscoprire “la produzione letteraria di un uomo che pur lavorando con la sua mannaia e con la sua scure nei boschi e nei campi, dal sorgere del sole al tramonto, ha amato religiosamente il suo lavoro e la poesia; una poesia edificante e in alcuni casi preveniente il futuro in modo mirabile”.
Tra i componimenti editi, di grande impatto emotivo e rilevanza per il carattere di testimonianza è “Storia del terremoto del 28 dicembre 1908 a Sant’Eufemia”, ricostruzione in versi della tragedia che distrusse anche il paese d’origine di Colella. Di seguito uno stralcio, tratto dal libro di Caterina Iero, Sancta Euphemia. Cenni storici, vita civile e costume di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Laruffa Editore, Reggio Calabria 1997 (pp. 95-106; ivi, p. 96):
Lu affrittu patri levau lu figghiu,
lu figghiu affrittu li so genituri,
li frati a li so frati ed eu a ddhu gigghiu
luci dill’occhi mei, sinceru amuri.
O jornu di terribili scumpigghiu,
d’affannu, di spaventu e di duluri!
O fracellu terribuli! O scuncassu
chi vitti cu chist’occhi ad ogni passu!
Li genti mi affruntavanu portandu
li morti nta li casci o ncoddhucavaleri
cu anchi, testa e vrazza, mpendulijandu.
Poi guardu a ttia, pajisi, e di com’eri
nvanu ti jiva cchiù raffigurandu!
Li casi eranu tutti cimiteri
e a ttia nfurma di grandi macellu
nta n’attimu cangiau lu gran fracellu.
*La foto è tratta dal profilo facebook di Maria Frisina
Magliette rosse e caciare indegne
“E allora i terremotati? E allora i disabili? Perché per loro non avete indossato nessuna maglietta? Siete degli ipocriti”.
Io ci ho provato a mettere in relazione tutte queste cose, ma francamente non sono riuscito a vederla questa ipocrisia che è stata rinfacciata a chi, come me, ieri ha voluto indossare una maglietta rossa per ricordare Aylan (magari non tutti lo sanno, ma indossava proprio una maglietta rossa riverso sulla battigia) e tutti gli altri migranti annegati nel mare. Vittime uguale migliaia di uomini, donne, bambini in carne ed ossa inghiottiti dalle onde del mare. Io, tu che leggi, i nostri cari, se il caso non ci avesse fatto nascere nella parte fortunata del mondo.
Non mi offende la definizione di buonista e non mi sento radical chic. Non possiedo orologi costosi, tantomeno ho il rolex; ho una Citroen Saxo dal 2002 con quasi 400.000 chilometri; non ho mai fatto una vacanza in nessun posto per vip. La stessa cosa credo di non poterla dire per i molti che hanno puntato il loro ditino. Buon per loro che possono permettersi questo e altro, ci mancherebbe: ma il ditino e la morale, quelli no.
Non penso neanche che la mia maglietta rossa possa risolvere il drammatico dramma delle migrazioni bibliche che caratterizzano la nostra epoca; né penso che possa riuscirci l’Italia da sola. Però trovo volgari, molto volgari uomini e donne delle istituzioni che ridicolizzano o incitano al disprezzo nei confronti di chi in fondo chiede un approccio umano per una questione complessa, che nessun ministro dell’interno può risolvere a colpi di tweet.
La scelta di indossare una maglietta rossa è stata una scelta libera. In altri tempi è stato obbligatorio indossare un altro colore, ma quei tempi (si spera) sono finiti e tutti abbiamo il dovere di non farli ritornare più.
Perché quindi mettere in correlazione tragedie diverse? Non ci sono drammi di serie A e drammi di serie B. Nel proprio piccolo, chi ha potuto ha contribuito a dare un sollievo ai terremotati del centro-italia, così come fa con chiunque si trovi in difficoltà. Quindi, dove sta il problema? Perché questo disprezzo gratuito?
A proposito di disabili, perdonatemi se ne approfitto per parlare di qualcosa che riguarda (anche) me. Tra qualche mese inizia la colonia estiva dell’Agape, che ha quasi raggiunto le venti edizioni. Ecco, ragazzi e ragazze di Sant’Eufemia: invece di dire e scrivere “e allora i disabili”, venite pure a dare una mano. Sarete accolti con gioia: l’associazione ogni anno ha un bisogno disperato di volontari e i nostri amici speciali non potranno che essere felici nel vedere gente nuova.
All’Agape il premio “Don Mottola” 2018
È stato un pomeriggio emozionante, quello che con l’Agape abbiamo trascorso a Tropea. Si vive anche di soddisfazioni e il premio che la Fondazione “Don Mottola” ha voluto assegnare alla nostra associazione è per noi un grande riconoscimento e motivo di gioia. L’incontro, moderato da Vittoria Saccà, ha registrato gli interventi di Paolo Martino, presidente della Fondazione; di don Ignazio Toraldo, “fratello maggiore della famiglia oblata”; di don Sergio Meligrana, parroco di Brattirò, che ha sostituito don Enzo Gabrieli, postulatore della causa di beatificazione di don Mottola; di Sua Eccellenza monsignore Luigi Renzo, vescovo di Mileto, Nicotera e Tropea.
Questo premio per la nostra associazione vale tantissimo. Il Venerabile don Francesco Mottola è stato giustamente definito “una perla del clero calabrese”, per la sua attività finalizzate all’accoglienza e all’assistenza dei disabili: “Io sono una povera lampada che arde in cerca dei cieli”, diceva di se stesso. Ma quanta luce ha emanato questa povera lampada? Quanto amore ha dispensato? Don Mottola è stato un apostolo dell’impegno in favore degli ultimi e ha lasciato una traccia profonda, insegnamenti che oggi camminano sulle gambe di chi ne ha raccolto l’eredità. Vedere il nome della nostra associazione accostata ad una figura così luminosa della Chiesa, è stata un’emozione forte.
Ha ritirato il premio la nostra presidente, Iole Luppino, che per una curiosa coincidenza ha la mia stessa età dell’Agape, fondata nell’ormai lontano 1991. E se guardiamo dentro questo lungo periodo, non possiamo non vedere che questa “lunga storia d’amore” si è nutrita dell’impegno di tanti volontari, di tanti ragazzi e ragazzi, giovani e meno giovani che hanno portato avanti un messaggio di solidarietà e di amore per i più deboli nella comunità eufemiese.
Proprio per questa ragione il premio “Don Mottola” va diviso con tutti i soci che nei suoi 27 anni di vita hanno fatto parte dell’associazione; con i due precedenti presidenti (Luigi Surace e Pasquale Condello); con don Benito Rugolino, alla cui azione religiosa e spirituale si deve la costituzione dell’associazione; con i volontari che purtroppo non sono più tra di noi fisicamente, ma che di certo lo sono nello spirito per l’esempio di vita e di amore per il prossimo che ci hanno regalato.
L’Agape ha dato a molti di noi l’opportunità di impegnarsi nel sociale, coltivare rapporti di amicizia e condividere percorsi di vita, ma soprattutto ci ha regalato e continua a regalarci tante piccole gioie che riempiono la nostra vita di valori autentici. Siamo nati come “costola” del Centro comunitario Agape di Reggio Calabria, fondato nel 1968 da don Italo Calabrò, un’altra figura luminosa della chiesa calabrese, portatore di un messaggio di fratellanza universale: «Amatevi tra di voi di un amore forte, di autentica condivisione di vita; amate tutti coloro che incontrate sulla vostra strada. Nessuno escluso, mai!». È quello che cerchiamo di fare nel nostro piccolo e con le nostre piccole forze. Il riconoscimento di oggi ci conforta sulla bontà di quanto è stato finora realizzato e rappresenta uno stimolo a fare ancora meglio.
Il trionfo della post-verità
Tempi duri per chi non ha in tasca una verità assoluta, che non ha bisogno di essere argomentata per imporsi su un pubblico sempre più refrattario al metodo del confronto tra idee contrapposte, in una cornice di rispetto delle regole basilari per ogni civile discussione. I ragionamenti sono orpelli del passato, tempo perso in un mondo che va di fretta e che richiede presenza scenica, anche a costo di smentire domani ciò che si è sostenuto oggi: è molto più semplice cavarsela con gli striminziti caratteri di un tweet all’ora, restando comunque sul pezzo dell’eterna competizione per la visibilità.
La mancanza di contraddittorio consente ad ogni utente di essere custode di una verità (la propria) che non ha bisogno di essere supportata da riscontri fattuali, perché suo habitat naturale sono le emozioni. Ma la verità è fatta di sfumature che non tutti sono in grado di cogliere, può essere addirittura ingannevole come quella di Sciascia: «La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità». Richiederebbe, in ogni caso, uno sforzo dialettico dal quale oggi la comunicazione sui social sfugge con calcolo premeditato. Il confronto può avere come conseguenza la revisione del pensiero, la sconfessione di una verità strumentale ma utile alla propria affermazione. In una realtà di compartimenti stagni, incomunicabili tra di loro, non conviene: per il politico-comunicatore le priorità sono marcare il territorio e tenere unito l’esercito dei difensori della propria verità.
L’epoca della post-verità concede inoltre ad una schiera sterminata di utenti la possibilità di trovare nei social uno strumento di riscatto personale; l’occasione di uscire dal grigiore del proprio anonimato sentendosi protagonista di un’opera nientemeno purificatrice, tanto necessaria quanto osteggiata dagli impalpabili poteri forti, dalla casta, da tutta una serie di personaggi inclusi apoditticamente nella categoria del “nemico”. Chiunque può veicolare notizie, la deontologia professionale è un ricordo del passato che nulla può di fronte a ragioni superiori: aiutare l’umanità a diventare soggetto consapevole, scoperchiare le falsità messe in circolazione dalla solita stampa prezzolata.
L’irresponsabilità e la sostanziale impunità offrono un vantaggio non irrilevante agli avvelenatori di pozzi e ai divulgatori di fake news che sguazzano nello stagno fetido dei sentimenti primordiali. Uno studio su Twitter pubblicato dalla rivista scientifica “Science” avverte che «le notizie false hanno sempre la meglio sulla verità, raggiungono più persone, penetrano più in profondità nei social network e si diffondono molto più rapidamente delle notizie vere». Sette volte su dieci una bugia ha più possibilità di essere ritwittata rispetto a una notizia vera, fondamentalmente perché essa provoca nell’utente un’emozione maggiore (indignazione, sorpresa) rispetto alla reazione che si ha di fronte a notizie non “forti”, in qualche modo ordinarie. In definitiva, i social amplificano la falsità a discapito della verità ed il guaio – questa la conclusione ripresa dal settimanale “Internazionale” – è che «nessuno (esperti, politici, aziende tecnologiche) sa come cambiare questa tendenza».
Non siamo messi affatto bene.
Topolino, solo un fumetto?
Un mio vecchio professore raccontava spesso che a suoi figli faceva leggere Topolino, perché era un fumetto utilissimo come una lezione di grammatica e di sintassi, scritto in italiano perfetto e ricorrendo ad un lessico sempre appropriato. Una regola generale afferma che, per imparare a scrivere, è necessario leggere tantissimo. Per cominciare, Topolino è il meglio che si possa trovare in circolazione. So anche di adulti che continuano ad appassionarsi alle avventure di Topolino, Paperino, Zio Paperone e di tutta l’allegra brigata ideata da Walt Disney: autore che, tra l’altro, sui social contende ad Alda Merini la palma di aforista più citato. Questo per dire dell’attualità del personaggio.
A un certo punto della mia vita ho abbandonato il fantastico mondo di Topolino e dei molti altri fumetti divorati nel corso dell’adolescenza. Questa occasione però era ghiottissima: il numero speciale per i 110 anni dell’Inter… cercato disperatamente in edicola e, dopo tre mesi, ricevuto grazie al miracolo di un’anima pia. – Eureka! – esclamerebbe per la gioia Archimede Pitagorica!
Ed eccomi qua, in questa piovosa mattina di un giugno novembrino, alle prese con le glorie nerazzurre del passato e del presente in versione Disney: il portierone Poldo, capitan Zampetti, bomber Icarduck e l’allenatore Spallucci. Finire “paperizzati” non è cosa da poco, non per tutti, come è stato ammesso da chi ha avuto questo privilegio: Vasco, Mina, Pippo Baudo, Mike Bongiorno, Jovanotti, Fiorello e altri.
Leggere Topolino riporta all’autenticità dei giusti. Come nella storia della cittadina Magnacopia Prosperosa, che l’alchimista Ilarione della Cupiditate trasforma in Frignonia Gemebonda per il mancato rispetto della parola data. O in quella ambientata ad Orobomis, dove Barny stringe con Gaglioff un patto che lo rende ricco ma lo costringe a vivere nascosto. «Oh, una bella vita davvero, Barny! Sempre a nasconderti! Ne è valsa la pena?» – le parole del fratello “buono”, che non ha alcun dubbio su cosa conti davvero nella vita: «Non è il denaro che cerchiamo, fratello, ma la conoscenza».
Proviamo a trasferire dalle vignette alla realtà il senso di questi messaggi: sicuro che si tratti di un “semplice” fumetto?
Un giochino per conoscere meglio il mondo
L’inserto del “Corriere della Sera” #buonenotizie di questa settimana presenta un quiz interessante per verificare cosa sappiamo a proposito di temi importanti quali la sostenibilità, l’ambiente e i diritti. Ne ripropongo i risultati, con la speranza di fare cose utile a coloro che hanno voglia di approfondire questioni anche spinose sulla base di dati ufficiali e il più possibile “asettici”, scevri cioè della vis polemica che spesso caratterizza il dibattito politico nostrano.
VITA SULLA TERRA. Ogni minuto nel mondo vengono distrutti 18,7 milioni di ettari di foreste, l’equivalente di 27 campi da calcio.
POVERTÀ. Nel 2016 l’82% della ricchezza prodotta è andata all’1% della popolazione mondiale. Più nello specifico, 8 miliardari possiedono la stessa ricchezza di metà della popolazione mondiale, mentre 3,7 miliardi di persone (la parte più povera della popolazione) non hanno aumentato la propria ricchezza.
SALUTE E BENESSERE. Dal 1990 ad oggi si è registrata la diminuzione di oltre il 50% delle morti infantili “prevenibili” (meno 45% la mortalità materna). Tuttavia, ancora 6 milioni di bambini muoiono di prima di avere compiuto cinque anni.
ENERGIA. Paraguay, Uruguay, Islanda, Costa Rica e Norvegia producono quasi il 100% della loro elettricità facendo ricorso a fonti energetiche rinnovabili. Circa il 60% delle emissioni di gas serra è dovuto alla produzione di energia “non verde”.
UGUAGLIANZA DI GENERE. Nonostante la politica delle quote “rosa”, le donne occupano soltanto il 23,7% dei seggi parlamentari. Nel settore privato, occupano meno di un terzo delle posizioni dirigenziali e dei quadri intermedi.
ACQUA. Circa il 40% della popolazione mondiale vive in una condizione di carenza di acqua, una percentuale destinata ad aumentare con il rialzo delle temperature dovuto ai cambiamenti climatici.
STRANIERI. Nel 2105 i migranti hanno prodotto 6.700 miliardi del Pil mondiale (più di 3.000 rispetto a quello che avrebbero prodotto nel proprio paese di origine).
CITTÀ SOSTENIBILI. Sono 330 milioni le famiglie nel mondo (1,2 miliardi di persone) che non hanno la possibilità di avere un’abitazione sicura e ad un prezzo accessibile. La carenza abitativa è destinata a crescere del 30% entro il 2025.
AGRICOLTURA. Foreste e biodiversità sono minacciate, il cambiamento climatico aumenta i rischi di siccità e inondazioni. Globalmente l’11% (una persona su nove) della popolazione è denutrita: l’altra faccia della medaglia è la condizione di sovrappeso che caratterizza il 40% degli abitanti nel mondo: uno su dieci è addirittura obeso.
LONGEVITÀ. Nel 2105 sono stati registrati quasi 500.000 centenari nel mondo, più di quattro volte rispetto al 1990. Dai dati disponibili i paesi con un maggior numero di centenari sono, nell’ordine: Stati Uniti, Giappone, Cina, India e Italia.
Queste le “fredde” cifre di una situazione caratterizzata da fenomeni economici e sociali complessi, che vanno governati con lungimiranza. Le risorse naturali non sono infinite e siamo in miliardi a dovere convivere e vivere dignitosamente su questo mondo che l’uomo sta cercando in ogni modo di distruggere.
La pacchia
Gli immigrati sono i nuovi ebrei, la feccia del mondo sulla quale scaricare l’istinto animale di una società in sofferenza. Nei momenti più bui della storia dell’umanità, per giustificare odio e violenza si è sempre cercato un capro espiatorio. Oggi il capro espiatorio è il colore della pelle di chi non ha niente, se non la forza delle proprie braccia pagata a 2-3 euro l’ora. Quelli che “rubano il lavoro agli italiani”.
Della vicenda di Sacko Soumalia so quello che ho letto sui giornali o facendo un giro nella rete. Forse stava rubando vecchie lamiere da una fabbrica in disuso per potere sistemare alla meglio il suo fatiscente alloggio del ghetto di San Ferdinando, una struttura che grida vendetta al cospetto di Dio. O forse era un sindacalista che lottava per migliorare le condizioni lavorative e di vita dei propri compagni sfruttati nella piana di Gioia Tauro.
Dal mio punto di vista è irrilevante. Quel che conta è che è stato ucciso un ragazzo di 29 anni con un colpo di fucile sparato da 60 metri; ed io penso che in una società appena appena “umana” non dovrebbero esistere cecchini che sparano per uccidere altri uomini. Penso anche che a Gioia Tauro un cecchino non avrebbe preso la mira contro un ladro bianco, magari calabrese: la vita di un negro non vale niente, solo partendo da questo assunto si può comprendere la barbarie del gesto.
Ieri il “Corriere della Sera” ha pubblicato un’intervista all’ex ministro dell’Interno Marco Minniti che andrebbe incorniciata. Non esiste altra via che quella della ricerca di un punto di sintesi tra le ragioni della sicurezza e quelle del rispetto dei più elementari principi di umanità.
La propaganda elettorale permanente nella quale viviamo, alimentata da una studiata strategia mediatica, non ci permette di fermarci per riflettere sulla complessità del fenomeno migratorio. Soffiare sul fuoco dell’odio di un elettorato impaurito e arrabbiato è politicamente redditizio. Ma poi ci sono responsabilità di governo urgenti e ineludibili, ai quali non si può dare risposta a colpi di tweet o di video-messaggi privi di contraddittorio: anche perché i migranti continuano ad arrivare. La questione è come affrontare le problematiche connesse ad un esodo inarrestabile: e questo c’entra poco con “gli stranieri che delinquono”.
Le semplificazioni vanno bene in campagna elettorale, meno quando si tratta di governare. Alimentare tensioni è da irresponsabili. Un ministro dell’Interno non può e non deve essere irresponsabile: non può permetterselo, né può esprimersi come l’avventore di una bettola.
Due anni fa mi trovavo ricoverato all’ospedale “Riuniti” per un piccolo intervento. Nella notte furono portate diverse donne, sbarcate nel porto di Reggio Calabria con altre centinaia di disperati che avevano affrontato il viaggio dall’Africa stipate nel vano motori. Avevano ustioni su tutto il corpo, soprattutto alle gambe e alla schiena, tanto che non riuscivano a stare sdraiate sopra il lettino. Uno strazio. Le vedevi tutto il giorno piegate sulla pancia, appoggiate nella parte centrale del materasso, come se stessero affacciate ad una finestra. La finestra della libertà, dalla quale affacciarsi con gli occhi gonfi di paura e di sofferenza, nel petto la speranza di una vita migliore. La “pacchia” no, nei loro occhi quella non si leggeva.