Si è svolta ieri al Palazzo del Quirinale la cerimonia di consegna degli Attestati d’Onore ai 29 nuovi Alfieri della Repubblica, giovani nati tra il 1999 e il 2008 “che si sono distinti per la loro testimonianza, il loro impegno, le loro azioni coraggiose e solidali” e che rappresentano modelli positivi di cittadinanza, “esempi dei molti ragazzi meritevoli presenti nel nostro Paese”.
Tra i premiati anche Roman Moryak (14 anni il 30 maggio), nato a Reggio Calabria da genitori ucraini che risiedono da circa 15 anni a Sant’Eufemia d’Aspromonte, con la seguente motivazione: «Si è distinto per la passione e l’impegno dimostrati prima nello studio del sassofono, poi nell’attività di calciatore, e quindi in quella di scacchista. Nei tornei di scacchi il suo valore è molto apprezzato e già diversi trofei sono entrati nella sua personale bacheca, oltre a piazzamenti importanti a livello regionale e nazionale. Essendo figlio di immigrati ucraini, nella sua comunità è divenuto un simbolo positivo di integrazione».
Si tratta di un riconoscimento del quale andare fieri come comunità eufemiese per il suo alto valore simbolico, in un momento storico particolarmente difficile per le tematiche legate al concetto di integrazione.
Nel suo intervento il Presidente della Repubblica Mattarella, riferendosi allo stupore dei giovani premiati in virtù di comportamenti da essi stessi considerati “normali”, ha sottolineato l’importanza di “far vedere che questa è la normalità della vita, che aiutare gli altri, aiutare chi è in difficoltà, rende la vita migliore, fa vivere meglio se stessi e la comunità in cui si è inseriti”: «Ed è quel che avete fatto, in tanti modi diversi, ciascuno con un’iniziativa particolare, dimostrando che ogni persona è irripetibile, ma che tutte queste risorse individuali confluiscono nella vita comune, nella convivenza. Non siete i soli a fare cose così belle da sottolineare; tanti altri ragazzi come voi hanno fatto cose analoghe. Voi li rappresentate tutti, perché il nostro Paese è pieno di ragazzi che hanno la vostra stessa sensibilità. È importante però farla conoscere, far capire che questa è la regola della vita, la normalità, che dovrebbe essere sempre praticata da tutti».
«Vi ringrazio molto – ha concluso il capo dello Stato – perché avete dimostrato che questa è la vita del nostro Paese e che la solidarietà è l’impalcatura della convivenza. Nulla regge senza impalcatura. La nostra società, il nostro vivere insieme non starebbe in piedi senza la solidarietà. Voi l’avete praticata e dimostrata».
Complimenti a Roman e auguri anche ai genitori, Igor e Ivana.
*La fotografia e il video della consegna degli attestati sono condivisi dal sito istituzionale della Presidenza della Repubblica (www.quirinale.it)
Oggi non è un bel giorno
Chi ha subito un attentato conosce bene la prostrante sensazione di amarezza e di incredulità che ti resta a lungo dentro. Vorresti capire perché ti è capitata una cosa tanto brutta e vile. Per mesi o anni, o per sempre, temi che possa riaccadere. Di notte, poi, ogni rumore che somigli a uno scoppio ti fa saltare dal letto.
Non è paura, i vigliacchi non fanno paura perché soltanto di quello sono capaci: agire nell’ombra, fare un “dispetto”. Però la serenità di una famiglia viene turbata.
Ho letto più volte la reazione “a caldo” di Ilaria: «Ho paura, non di voi e del vostro lurido gesto, mi fa paura la vostra mentalità, mi terrorizza il solo pensiero che mio fratello debba crescere in un ambiente così ostile e miserabile. Io sono “scappata” ma con la nostalgia nel cuore e la voglia di tornare per poter valorizzare i luoghi dove sono nata e cresciuta, ma ad oggi non vorrei mai più ritornare e se potessi farei fuggire le persone che porto nel mio cuore».
Sono parole che mettono tristezza, proprio perché pronunciate da una giovane. Chi resterà in questo paese? Che resterà di questo paese? Mi angoscia il pensiero di una buia direzione che intravedo, che ogni tanto provo a indicare, sconfortato, su questo blog. E che ha suscitato anche la reazione dei soliti tromboni ammantati dalla retorica del “viviamo in un posto bellissimo”.
Io odio la retorica. Non bisogna generalizzare, su questo concordo. E bisogna sottolineare, valorizzare le cose e le persone belle che pure ci sono. Credo di farlo in questo spazio virtuale e nella vita di tutti i giorni. Però non si fa un buon servizio al paese nascondendo la testa sotto la sabbia. Bisogna anche essere onesti, con la propria coscienza e nei confronti proprio della parte sana della nostra comunità. Sant’Eufemia non è il migliore dei posti possibili, così come la Calabria non è l’Eden per i suoi tramonti, il buon cibo, il mare e la montagna che sono così attaccati che sembrano fare l’amore.
È il secondo attentato, a distanza di poco tempo, che colpisce persone perbene di Sant’Eufemia. Qualche mese fa l’incendio del furgone da lavoro dell’idraulico Mimmo Cammarere, un uomo che nella sua vita ha solo e sempre lavorato, sin da quando era un ragazzino. Ora è toccato alle famiglie Papalia-Bagnato.
Tutto questo è vergognoso. Le persone perbene non si toccano. Bisogna avere rispetto per chi lavora dalla mattina alla sera, con garbo e con il sorriso sulle labbra. Per chi trasmette ai propri figli con l’esempio quotidiano il valore dell’unione familiare e la religione del lavoro, sottolineati da Maria: «Tutti insieme, sin dall’inizio, per toccare con mano ciò che nella vita non deve esser dato per scontato e capire che nulla si ottiene senza il sacrificio».
Riporto i commenti di Ilaria e Maria, nella speranza che siano letti da tanti altri giovani come loro. Che possano servire da monito. E faccio mie le parole postate da Francesca sul suo profilo Facebook, sotto una foto bellissima, per rispondere “con i nostri sorrisi” ad un gesto così vile, perché rappresentano la risposta dell’intelligenza alla barbarie: «Dovreste solo prendere esempio da una famiglia bella, unita, che lavora duramente e onestamente. È questo che vi auguro: essere come noi».
Le medaglie di Giuseppe Silvani
Medaglia di bronzo al valore militare |
Due anni fa scrissi di Giuseppe Silvani, soldato eufemiese nella prima guerra mondiale che alla fine del conflitto fa sostanzialmente perdere le proprie tracce negli Stati Uniti, da dove era rientrato in Italia per essere arruolato nell’esercito. Lo stesso foglio matricolare, conservato presso l’Archivio di Stato di Reggio Calabria, si conclude con l’annotazione “non è stato possibile completarlo risultando l’interessato irreperibile”.
L’articolo ha navigato sulle onde del web fino ad arrivare, qualche giorno fa, davanti agli occhi di Margie Silvani, nipote dello “sconosciuto eroe di Sant’Eufemia”. Grazie a Margie, che vive a Cedar Knolls (New Jersey), possiamo aggiungere nuovi tasselli alla biografia del trovatello eufemiese medaglia di bronzo al valore militare e raccontare una piccola storia di emigrazione che si inserisce nella grande storia dell’emigrazione italiana nel secolo scorso.
Qualche vuoto rimane: ad esempio non sappiamo chi adottò il piccolo Giuseppe Silvani, che tra le altre cose ha lasciato in eredità a figli e nipoti le due fototessere che Pasquale e Domenico (il cognome non è specificato) gli spediscono da Sant’Eufemia nel luglio del 1962 firmandole sul retro, entrambi, “il tuo caro fratello”.
I due probabili fratelli di Silvani, da sinistra: Pasquale e Domenico |
Apprendiamo invece che nel 1912 Silvani aveva sposato Giuseppa Carzo (nata a Sinopoli), poco tempo prima del suo primo viaggio negli Stati Uniti a bordo della nave “Madonna”, che sbarca a Ellis Island il 15 marzo 1913.
Le medaglie e gli attestati delle onorificenze custoditi da Margie confermano il dato della lacunosità delle fonti documentarie sulla grande guerra e completano l’elenco che era stato possibile stilare sulla base delle informazioni riportate sul foglio matricolare. L’onorificenza più prestigiosa conferita a Silvani è la medaglia di bronzo al valore militare, guadagnata in un’azione di guerra sul Monte San Marco il 23 maggio 1917, che gli vale anche l’assegnazione (“per le ferite di shrapnel riportate alla gamba destra”) del distintivo d’onore, un galloncino d’argento che i soldati feriti in combattimento applicavano alla divisa, sul braccio destro. Seguono le altre decorazioni: la medaglia commemorativa della guerra 1915-1918; la medaglia a ricordo della guerra europea (meglio conosciuta come medaglia interalleata della vittoria o medaglia della vittoria); la croce al merito di guerra.
Croce al merito di guerra |
Distintivo d’onore |
Medaglia interalleata della vittoria |
Medaglia commemorativa della vittoria |
Infine, l’attestato rilasciato dal ministero della guerra agli italiani rientrati dall’estero per servire l’esercito, che riporta la formula: «All’appello della Patria in armi, accorse sollecito da Oltre Oceano, sfidando le insidie delle navi e dei sommergibili nemici. Partecipò lodevolmente alla lotta per la difesa e il compimento dell’Unità nazionale, meritando la gratitudine della Patria».
Attestato ministero della guerra |
A guerra finita Silvani parte nuovamente per gli Stati Uniti e, il 20 aprile 1920, sbarca dalla “Pannonia”. La moglie Giuseppa lo raggiunge con la nave “Taormina” più di un anno dopo, il 27 settembre 1921. In tutto saranno sei i figli nati dal matrimonio di Giuseppe e Giuseppa. I quattro maschi partecipano alla seconda guerra mondiale con l’esercito statunitense, quindi troveranno occupazioni dignitose: Rocco presso il dipartimento dei lavori pubblici, come il padre; Pasquale nei vigili del fuoco; James “Jimmy” Vincenzo nel porto di New York; Michael nella polizia.
Foto del matrimonio di Michael Silvani con Margaret. Da sinistra: Pasquale Silvani, Michael e Margaret, Giuseppa Carzo, Giuseppe Silvani, Rocco Silvani, James Silvani |
Delle figlie, Grace e Mildred “Millie”, la prima muore giovanissima in un incidente d’auto, nel 1949.
Grace Silvani |
Michael, James e Millie Silvani |
Giuseppe Silvani si stabilisce a Pittsburgh (Pennsylvania) e lavora per circa nove anni nelle miniere di carbone. Naturalizzato il 7 gennaio 1926, tre anni dopo si trasferisce a West Orange (New Jersey), città nella quale risiederà per tutto il resto della sua vita (muore nel 1967), impiegato presso il dipartimento dei lavori pubblici, come operaio addetto alla manutenzione delle strade. Ed è proprio grazie al responsabile del dipartimento, Louis Falcone, che nel 1957 la comunità di West Orange viene a conoscenza degli atti di eroismo di Silvani durante la guerra dalle colonne del “West Orange Chronicle”: i tre giorni trascorsi senza mangiare per trarsi in salvo dopo un’incursione in territorio nemico; il ferimento alla coscia nella Decima battaglia dell’Isonzo e i 37 giorni di ricovero in ospedale; la cattura di diversi prigionieri nell’azione premiata con il conferimento della medaglia di bronzo al valore militare. Vicende incredibili commentate da Silvani con semplicità e umiltà disarmanti: «Ho fatto semplicemente il mio dovere, come tutti gli altri soldati».
West Orange Chronicle, 15 luglio 1957 |
Seicento messaggi nella bottiglia
E pensare che tutto iniziò sotto la doccia. Si sa: sotto la doccia si canta e si pensa. A me capitava spesso di “voler dire delle cose” e di immaginare anche come le avrei scritte. Da qualche anno avevo smesso di scrivere per “Il Quotidiano della Calabria”, ma sentivo dentro di me parole che volevano uscire. Parole che non avevo mai scritto, anche perché da corrispondente locale del giornale avevo pochi margini sia come temi da trattare, che come spazi a me riservati per ogni articolo. Più o meno nello stesso tempo aveva pure chiuso i battenti la rivista “Incontri”, periodico eufemiese edito dall’Associazione culturale “Sant’Ambrogio”, sulla quale mi dilettavo a scrivere degli argomenti più disparati.
Sotto il flusso dell’acqua calda, tra aggettivi, verbi e sostantivi che si accavallano dentro la mia testa, decisi di ricavarmi sul web uno spazio dove potere esprimere i miei pensieri. Nacque così prima “Santeufemiaonline” e, da quell’idea, il 24 marzo 2010 “Messaggi nella bottiglia”. Al primo post del blog diedi un titolo che più personale non sarebbe stato possibile: “Minita”, come io stesso mi presentavo da bambino, quando ancora non riuscivo a pronunciare bene il mio nome. Perché sostanzialmente sono rimasto un bimbo curioso di scoprire il mondo che lo circonda.
Oggi i messaggi nella bottiglia sono seicento: fa effetto questo traguardo, perché l’esperienza del blog è stata per me fondamentale. Qui ho avuto la possibilità di continuare a coltivare la mia passione per la storia, con ricerche che poi sono finite sui libri dedicati alla storia di Sant’Eufemia. Qui ho scritto del mio paese e, a volte, inciso nel suo tessuto sociale e culturale con iniziative partite da alcuni articoli. In sintesi sono queste due ragioni a dare linfa al blog stesso, che considero un efficace strumento di comunicazione.
C’è poi l’aspetto umano, che non è affatto secondario perché la gratificazione alla fine è esclusivamente quella: e ovviamente fa piacere essere apprezzati per ciò che si scrive. Ogni tanto mi arrivano messaggi privati che considero medaglie: sono il più bel riconoscimento.
“Messaggi nella bottiglia” è il diario pubblico dei miei ultimi nove anni. Niente di più, niente di meno. Il post “Minita” si chiudeva con la considerazione che “può risultare utile affidare alle onde virtuali della rete un messaggio dentro la bottiglia. A futura memoria”. Ci penso sempre quando (è capitato proprio ieri) vengo contattato da qualcuno che ha scovato per caso sul web un mio articolo.
Adoro questa casualità, che nasce anche dalla volontà di non essere “invadente”. Sia chiaro: a me fa piacere che gli articoli vengano condivisi se altri decidono che vale la pena condividerli. Ci mancherebbe. Però mi affascina l’idea che sia l’articolo stesso a “chiedere” di essere diffuso perché ha contenuti interessanti; non che lo chieda il suo autore mediante una richiesta esplicita di condivisione, l’uso indiscriminato del tag dei propri contatti Facebook o la richiesta del “like”, l’intasamento delle chat di Whatsapp.
Scrivo assecondando interessi e gusti miei personali. Cerco di porre all’attenzione di chi legge avvenimenti e personaggi che mi sembrano significativi. Lo faccio con una libertà assoluta, nella scelta degli argomenti e nel modo di trattarli. Non è fantastico?
Dona il sangue, salva una vita
Sempre con maggiore frequenza, purtroppo, leggiamo che negli ospedali c’è carenza di sangue. Ospito pertanto volentieri sul blog l’intervento di mio fratello Luis, che sottolinea quanto sia importante donare il sangue, al di là dell’associazione con la quale si sceglie di farlo, e di come basta poco (non “basterebbe”, precisa esortando all’azione concreta della donazione) per dare sostanza e vita al concetto di solidarietà. Al suo invito unisco il mio, quello di un ex ventiseienne salvato dalla trasfusione consecutiva di sette sacche di sangue.
*Sono un donatore di sangue. A Sant’Eufemia sono attive due associazioni per la raccolta delle donazioni, Avis e Adspem; regolarmente, i giornali locali denunciano la cronica, drammatica carenza di sangue nelle strutture ospedaliere, esortando la popolazione a donare: eppure, sebbene nel nostro paese operino due realtà, la risposta eufemiese è scarsa. L’associazione di cui faccio parte vanta un gran numero di tesserati: tra questi, c’è chi riesce a donare assiduamente; c’è chi, per sopraggiunti limiti di età o di salute, non può donare, spendendosi comunque in maniera encomiabile per la causa; c’è chi, nonostante essere in condizioni ottimali per effettuare la donazione non sia agevole, ci prova sempre. E poi c’è chi alle donazioni non lo incontri mai. Ho più rispetto per chi non fa niente, che per chi finge di fare. Prima di continuare devo però confessare il mio peccato originale: per destare e spronare la mia attenzione, mi è stato necessario sentir fischiare le pallottole vicine, maledettamente vicine. Non voglio raccontare cosa mi ha scosso dal mio torpore e motivato, appartiene al mio vissuto più intimo, però è innegabile che per svegliarmi c’è voluto uno scappellotto ben assestato. Mai mi sarei fermato a riflettere sul fatto che spesso, molto più spesso di quanto si possa immaginare, un medico debba sostituirsi a Dio nello scegliere a chi dare una speranza di vita con il poco sangue a disposizione. Mi è stato detto che un dio cinico, seppur combattuto dentro un camice troppo stretto e che mai più sentirà candido, davanti alla scelta fatale salva il bambino e condanna il vecchio. E davanti a due bambini?
L’inspiegabile vola ad ali spiegate. Perdonate il banale gioco di parole ma personalmente ho sempre preferito la potenza disarmante dell’ironia al nichilismo dell’aggressività “di posizione”. Inutile scontrarsi frontalmente con l’ignavia e l’apatia di chi pensa di fare la sua parte pascolando compulsivamente sui vari social, salvo poi sparire all’atto pratico. Che, diciamocela tutta, se ti azzardi a muovere critica (una volta nobile presupposto, volano di miglioramento) al modus operandi imperante vieni prontamente tacciato di arroganza e mancanza di rispetto verso posizioni diverse dalla tua. Ma tant’è. Ci indigniamo sbigottiti per gli sconvolgenti risvolti dell’apertura di una lettera di Maria (no, non quella, l’altra, quella di canale 5…) ma non ci accorgiamo delle criticità attorno a noi. Palpitiamo per una noce di cocco sparita sull’isola dei famosi e sbuffiamo alterigia in attesa che al tg termini il servizio sui gommoni della disperazione. Eppure, basta poco. Non “basterebbe”, condizionale-alibi di fatalisti e disfattisti: “basta”, indicativo che non offre zone d’ombra di dubbia interpretazione. Purtroppo viviamo in un contesto storico basato sui punti esclamativi, sull’eclatante: se non fa notizia, audience, non interessa. È davvero così? Per conto mio, agli eroi da blockbusters cinematografici preferisco gli eroi invisibili di tutti i giorni, quelli che una cosa la fanno solo perché va fatta.
“Donare è ricevere”: questo lo slogan della mia associazione. Non ho detto quale sia delle due e non lo farò, non è importante. L’importante è donare, con chi è un dettaglio irrilevante.
*Luis Forgione, donatore
Un paese dormitorio
Provate a fare un giro per le strade del paese anche soltanto dopo le 21.00, non a mezzanotte. Un deserto. Incrocerete qualche rara macchina, a volte neanche quella. A me mette tristezza questo lento spegnersi di candela. Nell’ultimo decennio Sant’Eufemia ha avuto un crollo, è inutile girarci attorno. Come una persona anziana che di colpo si sveglia pieno di acciacchi e, a un certo punto, si lascia andare. I segnali c’erano già, anche prima di dieci anni fa. Perché l’emorragia di giovani prima o poi la paghi in termini di vitalità, di voglia di cambiare le cose, di spirito combattivo. Di dire: «Ci provo, comunque vada ci provo».
Si vive rannicchiati sulle proprie piccole certezze, che danno un minimo di tranquillità a chi le possiede. Ma per lo più si sopravvive, in tutti i sensi. Non è soltanto questione di economia, anche se i soldi sono oggi purtroppo al vertice della scala dei valori. È proprio apatia, come se niente potesse avere importanza al di là del proprio superbo deretano. Un paese rassegnato al declino, che ha subito una sorta di mutazione genetica. Che si indigna poco o niente, che ha fatto del quieto vivere la propria filosofia di vita. E che aspetta a bocca aperta. «Chi me lo fa fare?»: tutto ruota attorno a queste cinque miserabili parole. Non eravamo così. No, non eravamo così. Timidi, impauriti, servili.
E mentre una sorta di mutazione genetica sta stravolgendo il nostro stesso carattere, la nave affonda. Non basta ordinare all’orchestra di continuare a suonare. La nave affonda e là sopra ci stiamo più o meno tutti.
A Sant’Eufemia c’erano due filiali di banca: chiuse entrambe. Il centro di riabilitazione “Chirico” dava lavoro e forniva un servizio di assistenza fondamentale per i disabili del comprensorio: chiuso. L’associazione turistica Pro loco, dopo vent’anni, ha chiuso i battenti, preceduta dall’associazione culturale Sant’Ambrogio. Non ci è rimasta nemmeno la squadra di calcio, sparita; mentre il tennis aveva tirato le cuoia già da tempo. Ogni tanto ne ricordano funzione e gloria qualche lavoro di ristrutturazione del campo sportivo o la ritinteggiatura di quello da tennis, dovesse un giorno succedere un miracolo. Per chi crede nei miracoli.
Ricordi di un passato che sembra lontanissimo, mentre dietro gli scuri di questo moderno e triste dormitorio ognuno coltiva la propria solitudine.
La Giornata mondiale del malato con l’Agape
La Giornata mondiale del malato è tra le iniziative più significative che l’Associazione di volontariato cristiano “Agape” celebra annualmente. Per questa XXVII edizione, incentrata sulla gratuità e sulla logica del dono («Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date»), sono stati diversi i momenti ai quali i volontari hanno partecipato.
Durante la mattina sono state effettuate le visite domiciliare agli ammalati, mentre il pomeriggio è stato caratterizzato dalla condivisione della Giornata con il parroco don Marco Larosa.
Alcuni volontari hanno trasportato la statua della Madonna di Lourdes presso la struttura residenziale per anziani “Mons. Prof. Antonino Messina”, dove il parroco ha condotto la recita del Santo Rosario e impartito il sacramento dell’Unzione degli infermi.
Successivamente don Marco ha celebrato la Santa Messa, nel corso della quale il presidente Iole Luppino ha letto la “preghiera dei fedeli” e ricordato i volontari dell’Associazione che non sono più tra di noi:
«Signore, noi volontari ti ringraziamo per quello che Anna, Adelina, Antonella e Marco ci hanno dato e insegnato in tanti anni di amicizia. Ti chiediamo che adesso nel tuo Paradiso possano vegliare sulle loro famiglie e sull’Agape, di rafforzare in ogni volontario il desiderio di impegnarsi per gli altri e di risvegliare nei giovani la voglia di scoprire la bellezza di donarsi».
A ricordo della Giornata del malato 2019, l’Agape ha consegnato un rosario nel corso delle visite domiciliari e omaggiato la R.S.A. “Messina” con un quadro recante l’effigie della Madonna di Lourdes.
5 febbraio 1783: ’u fracellu a Sant’Eufemia d’Aspromonte
Sono quasi le 13 di un giorno come tanti, il ritmo della vita dei contadini e dei pastori scandito dai consueti lavori di un’economia di sussistenza. Molti sono ancora a tavola, intenti a consumare il pranzo frugale della povera gente. Ma il 5 febbraio 1783 non sarà un mercoledì come gli altri: è il giorno del “fracellu”, una terrificante ondata sismica che provoca nella Calabria meridionale 30.000 vittime e 31.250.000 ducati di danni.
Secondo il geologo Dolomieu, bastò la prima scossa (magnitudo 7.1) “per rovesciar tutto”: «I paesi e tutte le case di campagna furono smantellati nel medesimo istante. I fondamenti parvero come vomitati dalla terra che li rinchiudeva. Le pietre furono attrite e triturate con violenza le une contro le altre, e la malta che le riuniva fu ridotta in polvere».
Uno scenario apocalittico descritto da diversi contemporanei, tra i quali Andrea Gallo (professore nel Collegio di Messina): «Cominciò a sentirsi tremare la terra da prima leggermente, indi con forza tale, con tal muggito e con scotimenti così varj ed irregolari che il suolo videsi ondeggiare, le muraglie muoversi da ogni lato, urtarsi insieme negli angoli, triturarsi e crollare, saltare i tetti per aria, slogarsi i pavimenti delle stanze, infrangersi le volte, rompersi gli archi più forti, e, senza punto cessare il terribile movimento, con tre o quattro continuate scosse, che si succedettero l’una all’altra, rovinarono le case, caddero i superbi palazzi, precipitarono le chiese ed i campanili, si aperse con lunghe fenditure il terreno».
I sussulti della terra proseguono fino al 28 marzo, quando si verifica l’ultima violentissima scossa, di magnitudo 7.0 (altre di poco inferiori vengono registrate nei giorni 6, 7 febbraio e 1 marzo, oltre a un migliaio di minore entità). Il letterario diplomatico Michele Torchia annota: «Se ne sono contate fino al giorno 3 del corrente Marzo in sì gran numero tra forti e leggiere, che cogli avvisi posteriori parlasi di un tremuoto continuo […]. Il loro movimento è stato di ogni genere, di sussulto, ondulatorio, di trepidazione. Non è stato moto della terra, ma un rovescio totale della sua superficie».
Lo sconvolgimento del sistema idrogeologico produce effetti devastanti: liquefazione delle sabbie, frane che ostruiscono il corso dei torrenti deviandone il corso o dando origine a paludi e laghi. Intere montagne spariscono o vengono squarciate, ovunque si aprono voragini che ingoiano “tutto ciò che si è presentato al loro abisso”: «gli alberi vi sono stati svelti dalle loro radici, le Città rovesciate dalle loro fondamenta; le acque sorgive vi hanno perduto o nascosto il loro corso; il fiume Petrace assai profondo vi ha lasciato il suo letto per tre giorni; quello di Rosarno ha straripato sulle campagne; e quello di Sitizano ha formato un lago tra i monti congiunti».
Molti centri della costa tirrenica reggina, della piana di Gioia Tauro e dell’entroterra aspromontano (così come del Vibonese) vengono letteralmente rasi al suolo: Terranova, Polistena, Oppido, Santa Cristina, Palmi, Scilla, Bagnara. I superstiti vagano per le campagne laceri e affamati, senza neppure un po’ di fuoco per riscaldarsi. Ovunque vi sono cadaveri, che vengono infine sepolti in qualche modo, dove capita: «La mortalità – conclude Torchia – è stata grande; quivi anche par che il flagello abbia fissato il teatro della Carneficina».
Sant’Eufemia d’Aspromonte non viene risparmiata. Su una popolazione di 3.160 abitanti, il terremoto miete 945 vittime (302 uomini, 414 donne, 216 bambini, 13 monaci); i danni stimati ammontano a 300.000 ducati. Il paese per tre quarti è situato sul versante e lungo le rive del torrente “Peras” (o “Marino”), mentre il rimanente quarto occupa un piano elevato, denominato “Petto del Principe” e al quale si giunge “per una via assai erta e lunga più che quattrocento metri, che sale rapidamente verso una difficile altura che chiamasi “Calvario”: viene quasi completamente distrutto.
In una relazione (databile tra il 1792 e il 1824) sottoscritta da 55 cittadini davanti al notaio Giuseppe Rechichi, si legge: “La cittadinanza alla vista spaventevole della rovina di tutti gli edificij del paese, d’innumerabili cadaveri degli estinti concittadini, fra le grida de’ semivivi e feriti, in mezzo insomma della confusione e del timore, che ingombrava i sensi di ogn’uno, non seppe altrove ritrovarsi un asilo che nei contigui giardini del Petto e Pezzagrande, provedendosi a proporzione del bisogno di malconcie baracchelle di tavole, una delle quali fu destinata al divin culto ed alla conservazione de’ Sagramenti”.
Tuttavia, nel volgere di poco tempo la popolazione ritorna nelle proprie case ricostruite, “sol colà rimanendovi un avanzo della gente bassa, vile, ed inosservante de’ generali e comunali principij di ben vivere”. La baracca utilizzata come chiesa viene distrutta e i sacramenti trasferiti nella chiesa di Santa Maria delle Grazie, riedificata ed elevata a “chiesa Parrocchiale e Madre”, preferita alla vecchia chiesa Matrice anche perché situata al centro del paese: “per commodo di quell’avanzo del popolo rimasto al Petto si [costruì] una Chiesa filiale [dedicata alla protettrice Sant’Eufemia], ed altra consimile nell’antico suolo della diruta Chiesa Matre [già sotto il titolo di Sant’Eufemia, assunse il nuovo titolo del Rosario], per commodo di coloro che nel convicinio della stessa abitassero, l’una e l’altra a spese della C.[assa] S.[acra]”.
Tra gli effetti del terremoto va infatti sottolineato il trasferimento della parrocchia dalla chiesa “Matrice” a quella di Santa Maria delle Grazie. Il monastero di San Bartolomeo, invece, non verrà mai più ricostruito. I sette monaci (su venti) superstiti si trasferiscono nella “grangia” del “Belvedere”, dove dalla seconda metà del 1700 dispongono di un baraccone dotato di quattro camere, cucina, refettorio e cappella; mentre attorno cominciano a ergersi sparse abitazioni di contadini, in direzione della feconda pianura della “Pezzagrande”.
Proprio in quest’area (“Petto del Principe, Pezzagrande e Vigna di Belvedere”), secondo il governo borbonico, va ricostruito il paese. Il piano redatto dall’architetto Giuseppe Oliverio e rettificato dall’ingegnere Vincenzo Ferraresi consta di tre rettangoli: “Uno stretto e allungato con le vie ortogonali disposte in senso SSW-NNE e NNW-SSE; un altro, maggiore di forma, all’incirca quadrato con le vie pure tagliatisi ad angolo retto, ed infine il terzo doveva sorgere nelle adiacenze del Calvario, cioè della piccola cappella che ancora oggi si scorge nella parte alta di via Roma”.
Ma non tutti concordano sulla necessità di abbandonare il “Vecchio Abitato”. Più di un secolo dopo, quando il terremoto del 1908 avrebbe riproposto più o meno negli stessi termini la questione dell’edificazione della “Pezzagrande”, i fautori del trasferimento nel nuovo sito rispolverano quel precedente: «Si era già con gran fervore, da tutto il popolo, dato principio alla buona opera della riedificazione del paese in “Pezzagrande” e “Petto del Principe”, quando un prete mestierante, premuroso di secondare e favorire gl’interessi del principe di Scilla, allora feudatario delle terre della “Pezzagrande”, cinse la stola, buon mezzo qualche volta di lucrose ciurmerie, si ammantò di piviale, inalberò la croce e nel nome del Signore predicò alla folla superstiziosa la necessità e il dovere della riedificazione nella vecchia area del paese distrutto; perché ivi erano le afflitte anime dei morti, preganti pietà dai memori congiunti, ivi i simulacri dei santi e delle madonne, invocanti dal popolo il ritorno nei vecchi santuari da ricostruire. E il prete coi suoi pochi proseliti, cointeressati con lui, la ebbe vinta, e l’unità, la bellezza, la igiene, il commercio, la civiltà soggiacquero; la “Pezzagrande” fu abbandonata ed il paese fu, disordinatamente e con ristrette viuzze, riammassato sulla vecchia rea angusta, malferma, minacciata dalle frane, antigienica e fatalmente soggetta a disastri futuri, inevitabili».
Il progetto Oliverio-Ferraresi non viene quindi realizzato, se non in minima parte nel “Petto”. Diverso, invece, sarà l’esito dopo il 1908, quando la resistenza di numerosi eufemiesi verrà superata grazie ad una soluzione di compromesso che consentirà l’edificazione del nuovo sito, ma anche la permanenza della popolazione in quello vecchio.
*Nella foto, la pianta del progetto Oliverio-Ferraresi
**Fonti
– Carbone-Grio, Domenico: I terremoti di Calabria e di Sicilia nel secolo XVIII (ristampa edizione 1884), Barbaro editore 1999
– Iero, Caterina: Sancta Euphemia. Cenni storici, vita civile e costume di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Laruffa editore 1997
– Luzzi, Vincenzo Francesco: La Comunità ecclesiale di Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età moderna, in: Sant’Eufemia d’Aspromonte, Atti del Convegno di studi per il bicentenario dell’autonomia, Rubbettino editore 1997
– Pentimalli, Pietro (e altri): Per la riedificazione di Santeufemia d’Aspromonte, 14 ottobre 1911
– Principe, Ilario: Città nuove in Calabria nel tardo Settecento, Frama Sud 1976
– Rao, Anna Maria: La Calabria nel Settecento, in: Storia della Calabria moderna e contemporanea (a cura di Augusto Placanica), Gangemi editore 1992
– Torchia, Michele: Tremuoto accaduto nella Calabria e a Messina alli 5 febbraio 1783 descritto da Michele Torcia Archiviario di S.M. Siciliana e Membro della Accademia Regia (a cura di Giovanni Russo), Nuove edizioni Barbaro 2003
– Tripodi, Vincenzo: Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte (ristampa edizione 1945, a cura di Antonino Fedele), Vannini editrice 1999
Mila chilometri, mila attimi
Si fa presto a dire: «Era solo una macchina». Lo so che era solo una macchina. Però ci pensi. Pensi a quanta vita, in diciassette anni e 413.000 chilometri. Ero da poco tornato dagli Stati Uniti, dove con un team di ricercatori universitari conducevamo uno studio sugli italo-americani di terza generazione: New York era ancora sotto shock per l’attacco alle Torri Gemelle del settembre precedente. Dall’altra parte dell’Atlantico avevo assistito all’anatema scagliato da Nanni Moretti, a piazza Navona, contro l’intera classe politica della sinistra: «Con questi dirigenti non vinceremo mai». Mi sentivo un po’ girotondino pure io, lo ammetto.
Il mondo sembrava comunque andare secondo i miei progetti. Probabilmente proprio per questo arrivò lei, la Saxo: per affrontare meglio la discesa. Nonostante la stroncatura, vergata su carta da lettera (preistoria), di un mio carissimo amico: «Non ti posso lasciare un attimo che combini danni. Hai comprato una macchina a tre porte e senza aria climatizzata. Male, molto male».
Più tardi sarebbe arrivato il tempo del disincanto, la Saxo unica superstite di un sogno infranto. Ma anche testimone di una seconda vita.
Diciassette anni sono un tempo lunghissimo, soffiato sul palmo di una mano come polline.
Pensi all’allegria e alle lacrime. Alla felicità condivisa con chi ha voluto salirci, sulle note di una canzone. A quel viaggio di dolore fino in Francia. Ai libri nelle scatole chiuse con il nastro adesivo. Alla sabbia delle colonie estive. Alla neve che diventa acqua. Alle partite di calcio a cinque. A matrimoni, funerali, lauree. A fiocchi rosa o azzurri. Alle griglie e alle buste di carne. Alle birre di notte. Ai fogliettini volanti e al bloc notes nel cruscotto. Alle parole pensate, da dire, non dette. A chi c’era e a chi non c’è più. Collezioni di attimi.
Era solo una macchina. Eppure, prima di consegnarla allo sfasciacarrozze, non ho potuto fare a meno di darle un bacio sul vetro.
Torneo del paesaggio FAI: gli investigatori del paesaggio del liceo “Fermi” accedono alla fase finale
Sono ben sei le squadre provenienti dal liceo scientifico “Fermi” di Sant’Eufemia che accedono alla fase finale del “Torneo del paesaggio 2018-2019”, concorso per la scuola secondaria di secondo grado organizzato dal settore scuola educazione del FAI (Fondo Ambiente Italiano), con il sostegno dell’azienda Ferrero: una gara di cultura e ricerca sul paesaggio italiano che ha come finalità quella di “avvicinare i giovani alle tematiche del paesaggio italiano, stimolando il senso di responsabilità nei confronti del patrimonio culturale e ambientale”. Uno strumento di sensibilizzazione affinché le nuove generazioni “possano acquistare consapevolezza del valore delle risorse idriche, sia per la terra che per l’uomo”, che si inserisce nella campagna del Fai #salvalacqua” per la diffusione tra i cittadini della consapevolezza del valore dell’acqua quale elemento indispensabile per la vita.
Si è conclusa nei giorni scorsi la prima fase del torneo, al quale hanno partecipato 2.000 squadre in tutta Italia e che ha decretato le 250 finaliste. Proprio al liceo di Sant’Eufemia va la palma di istituto con il maggior numero di finaliste: due squadre della I F (scientifico), due della IV F (scientifico), due della I G (scienze umane).
I giovani “investigatori del paesaggio”, coadiuvati dalle professoresse Carmela Cutrì e Maria Rosaria Scopelliti, entrambe docenti di lettere e referenti del progetto, hanno dovuto scegliere un bene naturale legato all’acqua o frutto dell’opera dell’uomo particolarmente significativo del proprio territorio (per la sua storia e per le sue caratteristiche), per poi scattare con uno smartphone una fotografia capace di “raccontare le peculiarità del bene in rapporto col paesaggio”. Una volta individuato il bene d’acqua da fotografare, ogni squadra ha raccolto informazioni sugli aspetti storici, naturalistici, culturali, artistici e sociali, mediante ricerche bibliografiche e interviste agli abitanti del luogo. Un’attività utile per descrivere il bene (caratteristiche geomorfologiche, ambientali, floro-faunistiche, storiche, artistiche, culturali), inserirlo nel contesto paesaggistico (ambiente geografico, sociale, culturale), rilevarne lo stato di conservazione (ben conservato, degradato, completamente abbandonato, a rischio inquinamento) e per metterne in evidenza il rapporto con la comunità (relazione tra il luogo e i cittadini, sia al giorno d’oggi che in passato, eventuali vincoli o misure di tutela imposte dalle istituzioni).
Di seguito, le sei fotografie ammesse dalla giuria degli esperti alla fase finale del concorso.
Antica fontana “Del Casino”, in località Meladoro, nei pressi di “San Bartolo”: in quest’area sorse in epoca basiliana l’insediamento abitativo dal quale, successivamente, si sviluppò Sant’Eufemia d’Aspromonte.
“Gebbia”: vasca che raccoglieva l’acqua piovana da utilizzare per l’irrigazione delle terre e che fungeva inoltre da abbeveratoio per gli animali da soma utilizzati nei lavori dei campi e per le greggi.
Ruscello con rami: “Numerose sono le leggende del nostro territorio legate ai corsi d’acqua che hanno come protagonisti oscure creature e misteriosi mostri. I ruscelli, nel loro impetuoso fluire, formano gorghi che trascinano ogni cosa nel movimento tumultuoso dei flutti, nella voragine dei mulinelli”.
La “lamia”: torrente Marino nel tratto in cui si immette sotto il Museo della civiltà contadina per poi scorrere sotto piazza don Minzoni. “Lamia” rievoca il mito greco della mostruosa creatura marina “che travolge con le sue acque e ingoia chiunque cada nel suo inganno”.
Fontana del complesso monumentale di San Giovanni di Dio (Sinopoli). Un “luogo fatato, simbolo della resistenza alle intemperie e alle calamità naturali”, finalmente riscattato dall’incuria e dal degrado che avevano trasformato un’opera d’arte in una stalla.
Fontana Nucarabella, utilizzata dalla popolazione eufemiese per l’approvvigionamento di acqua e, nelle vasche retrostanti, come pubblico lavatoio.
Per partecipare alla fase nazionale che deciderà i sei vincitori del concorso, i finalisti dovranno presentare entro il 13 marzo un progetto (power point, video) finalizzato al coinvolgimento delle comunità locali affinché prendano coscienza del valore del bene d’acqua fotografato nella prima fase.