Tito Fedele: Ricordanze e riflessioni

La mia prefazione alla ristampa del libro di Tito Fedele: Ricordanze e riflessioni (2020)

A cosa servono i ricordi? Qual è la loro natura? Perché nascono e si incastonano
nella mente, a volte sfidando anche la nostra stessa volontà? Se ha ragione
Cesare Pavese nel considerare che delle nostre vite ricordiamo gli attimi, non
i giorni, può rivelarsi utile imitare il clown di Heinrich Böll e farne “collezione”.
È ciò che fa Annunziato Fedele in Ricordanze
e riflessioni
, compiendo un’operazione che non sempre cede al rimpianto,
nemmeno quando prevale la nostalgia per persone, luoghi, storie lontane.

Esiste una sottile distinzione tra questi due sentimenti. Il rimpianto è causato da un
passato che opprime, un passato che è ancora presente perché avremmo voluto
fare qualcosa e vi abbiamo rinunciato o perché abbiamo compiuto un’azione che,
nel presente, consideriamo un errore. La nostalgia può invece avere anche un’accezione
positiva, nonostante la sua etimologia (nostos: ritorno; algos: sofferenza) indichi –
ad esempio in Milan Kundera – il dolore suscitato dal desiderio inesaudito di “ritornare”
ad una condizione di felicità perduta. È il caso dei ricordi piacevoli, che
provocano uno stato d’animo di serenità interiore.  

I ricordi e le riflessioni di Fedele confermano l’immagine popolare, strettamente
connessa alla molteplicità dei rapporti interpersonali che comporta lo
svolgimento della professione di “medico di paese”, di un uomo dal vasto sapere
e dalla grande umiltà. La familiarità con la quale riesce a “colloquiare” con gli
scrittori classici conferisce alla sua formazione la solidità delle radici nodose
e robuste di quei vecchi ulivi più volte richiamati nel libro. Letture
preziose, certamente favorite dalla presenza, in casa, della fornitissima
libreria appartenuta allo zio sacerdote: tomi “pergamenati”, testi sacri, libri
di storia e di diritto ecclesiastico, grandi classici e poeti latini minori. Ma
anche Shakespeare, Goethe, Hugo: raffinatissimo il rimando a I miserabili per descrivere la malattia
che in gioventù lo tiene “stretto come Jean Valjean quando cadde in mano ai
vili Thenardier”.

I riferimenti letterari di Ricordanze e
riflessioni
impreziosiscono i ricordi di Fedele rivestendoli di un’aurea nobile,
così come i ricorrenti “intermezzi musicali”, dotte citazioni da musicofilo con
la passione per le sinfonie dei grandi compositori, ereditata dal padre. Quel
padre che suona il violino in chiesa e che si diletta a pizzicare le corde del
suo mandolino per i figli raccolti attorno al braciere, la sera dopo avere
consumato la cena. Spesso sono proprio le melodie del grammofono a mettere in
moto la macchina dei ricordi, a fare da sottofondo musicale alle conversazioni
dell’autore con la propria anima e con la vita fuggita, a illuminare i visi degli
amati congiunti.

I ricordi di Fedele sono istantanee che fissano sul foglio immagini suggestive,
paradigmatiche della realtà eufemiese nella prima metà del XX secolo. Una
società rurale composta da uomini e donne semplici che vivono all’interno di un
sistema produttivo di pura sussistenza, fondato per lo più sull’autoconsumo e nel
quale il baratto svolge ancora una funzione economica rilevante. Quella in cui
Fedele nasce e cresce è la Sant’Eufemia della ricostruzione avvenuta dopo il
terremoto del 1908, caratterizzata dall’urbanizzazione degli anni Venti e
Trenta nell’area denominata “Pezzagrande”, che però mantiene il centro
propulsore nel vecchio sito (Paese Vecchio o Vecchio Abitato), dove continua a
risiedere il ceto storicamente dominante sotto il profilo culturale, politico
ed economico. Un universo popolato da gente umile, scomparsa tra le pieghe del
tempo, i cui “racconti costituivano meravigliose pagine di inedite storie”. Agricoltori,
pastori, lavoratori a giornata, calzolai, sarti, falegnami e artigiani che oggi
sopravvivono nei racconti di Nino Zucco e nella memoria collettiva.

Sono tempi di stalle, di asini e di muli: tempi di mercanti provenienti dai paesi
ionici della provincia reggina che pernottano a Sant’Eufemia, per poi ripartire
all’alba. Molte famiglie vivono nelle baracche senza acqua, prive di corrente
elettrica e dei servizi igienici. L’alimentazione è povera, la carne quasi
sconosciuta, mentre molto praticata è la tecnica dell’essicazione degli
alimenti. I fratelli piccoli ereditano gli indumenti dei fratelli più grandi,
ma può anche capitare che un cappotto passi dal figlio al padre. La mortalità
infantile è alta, così come il tasso di analfabetismo. La vita dei contadini è
duro lavoro dalla mattina alla sera, quando – scrive il poeta eufemiese
Domenico Cutrì – “seduti scalzi sull’acciottolato/ davanti alla porta di casa/
farfugliavano nel vuoto/ aspettando pensierosi il domani/ per chi riusciva a
vederlo”: loro unico svago, la cantina nei giorni di festa. Le donne sono
raccoglitrici di olive (“partivano molto presto la mattina, silenziose, mobili
ombre nel buio della notte”), braccianti agricole che a casa devono anche
badare a nidiate di figli affamati e sporchi.

In questo contesto socio-economico vanno inseriti i “brevi scritti” di Fedele, nei
quali le vicende familiari assurgono a paradigma della storia di un’intera
comunità. Nel libro scorrono i volti di congiunti e di conoscenti; si avverte
il respiro di un secolo trascorso troppo rapidamente, che induce alla
malinconia. Un po’ quel che accade leggendo i titoli di coda di un film che
affascina e che si desidererebbe non finisse mai: si vorrebbe riavvolgere il
nastro per farlo ripartire ancora, dall’inizio. Allo stesso modo, al tramonto
della propria esistenza, Fedele rimette in ordine pensieri, ricordi e persone che
hanno accompagnato il suo cammino, affinché volti e fatti siano cornice pregiata
del suo testamento spirituale: “gli anni seguirono agli anni, innumerevoli
tramonti ed altrettante aurore”.

Ricordanze e riflessioni
si compone di tre parti, che hanno come filo rosso l’attenzione bozzettistica
dell’autore, la precisione nella descrizione di paesaggi, colori e voci della
natura, sui quali posa uno sguardo indulgente e paterno. O delicato, come
quando “dipinge” l’amata dimora, edificata negli anni Trenta sopra i ruderi di
un’antica abitazione patrizia distrutta dai terremoti succedutisi nel tempo a
Sant’Eufemia.

Colpisce l’incastro del registro lirico con quello scientifico, che spesso convivono senza
stonare. Il linguaggio letterario, elegiaco e a tratti raro, caratterizzato da
un ampio ricorso alla figura retorica della similitudine, richiama lo spirito
di Omero, Virgilio, Lucrezio, Euripide, Eschilo, Tacito, Esiodo, Ovidio e di tutti
i grandi classici latini e greci. Così, il mare viene presentato come il “ponto
profondo” del mito greco e, per descriverlo, Fedele declama un repertorio inesauribile
di aggettivi qualificativi. A volte, è la stessa costruzione della frase a
riprodurre lo stile latino, in particolare nella posizione del complemento di specificazione,
posto dinanzi al sostantivo: “i cui rami pendenti lambivano del fiume le acque
loquaci”.

L’Arcadia di Fedele ha i suoni e i colori di “Campanella”, che egli paragona alla Pieria:
il luogo della mitologia greca dove, secondo Esiodo, furono generate le Muse. La
“ridente conca” nella quale il genitore costruisce una piccola casa, che
diventerà la residenza estiva della famiglia, è il suo posto delle fragole, il
luogo incantato della sua spensierata fanciullezza.

Tra la nebbia del tempo prendono forma e si fanno largo, squarciandola, le figure
dei propri cari. Il padre scampato al terremoto del 1908 soltanto perché alle
5.20 di quell’infausto 28 dicembre era già uscito di casa per recarsi negli
uliveti. La madre, originaria di Bagnara Calabra e figlia di un capitano di
lungo corso morto durante un viaggio verso l’Argentina. I fratelli: Nino, nella
seconda guerra mondiale tenente pilota e subito dopo emigrato negli Stati
Uniti, dove si afferma come critico musicale per “Il progresso italo-americano”,
il più diffuso quotidiano statunitense in lingua italiana nel Novecento. Mimì,
che sul fronte greco-albanese contrae una malattia pleuropolmonare che presto lo
porterà alla morte. Diego, più volte sindaco di Sant’Eufemia tra gli anni
Sessanta e gli anni Ottanta, con il quale ha un rapporto di affetto
particolare, definito dal ricorso alla similitudine con i Dioscuri: “Forse,
nell’infinito spazio percorrendo le eterne vie degli astri e delle comete, ci
accosteremo, brillando, con smarriti occhi, ai luoghi dove transitò, con la
durata di un sogno, la nostra vita, dove fuggirono le nostre stagioni”.
Celestina, che muore tra le sue braccia (“ho poggiato la mia mano sinistra
sulla tua fronte e la destra sulle tue mani diafane, per far fluire in te un poco
del mio calore e della mia stessa vita”). Sarino, con il quale da adolescente scavalca
la cinta del cimitero per portare fiori sulla tomba di Mimì. Marietta,
“modellatrice fine di antica oggettistica muraria dal sinistro aspetto”.
Ancora: lo zio Diego, “abile oratore” e podestà in epoca fascista: è lui, nel
1926, il gran cerimoniere dell’inaugurazione del nuovo palazzo comunale e
dell’acquedotto, alla presenza del gerarca e deputato di origine paolana
Maurizio Maraviglia, al quale viene conferita la cittadinanza onoraria; lo
scrittore, pittore e scultore Nino Zucco; il pittore Carmelo Tripodi e il
figlio Domenico Antonio, che “dipinge pure il soave” poiché è riuscito a
trasferire sulla tela i versi della Divina Commedia; Francesca, ragazza di
umilissime origini accolta in casa che, dopo la morte, viene tumulata nella
cappella di famiglia.

Le riflessioni di Fedele toccano gli arcani temi dell’esistenza, gli interrogativi
che gli uomini si pongono, spesso senza riuscire a darsi una risposta, sin
dalla notte dei tempi: contemplando la volta celeste o rimanendo incantati
davanti alle innumerevoli prove della perfezione del creato. Soltanto il mito e
la Bibbia (“ambedue storie sacre”) sono in grado di dare risposte al mistero
della vita e della morte, a rassicurare sull’esistenza dell’Aldilà, dove sarà
possibile rivivere in eterno i momenti felici della vita terrena.

I pensatori dell’inizio della civiltà alleviano la sete di conoscenza, stimolata
dalla consapevolezza dei limiti che gravano la condizione umana come pesante e
intollerabile fardello. Un esercizio emozionante e crudele nello stesso tempo,
che però consente all’autore di visitare le dimensioni più intime e arcane dell’esistenza
umana. Ad esempio, quella onirica: il sogno è il luogo dell’incontro metafisico
con i defunti, che si materializzano portando con sé messaggi che Fedele si
sforza di interpretare. E se la figura del padre svanisce come l’anima di
Patroclo alla vista di Achille, gonfi di lacrime sono gli occhi dei pazienti
che, da lontano, scrutano il loro vecchio medico curante.  

I ricordi tengono insieme tutto: passato e presente, il senso stesso della vita.
Riscattano l’uomo dalle sue miserie quotidiane e lo elevano a un piano di
eternità. Quei ricordi che – ci insegna Enzo Biagi – sono la nostra fortuna,
perché contengono tutta la bellezza del mondo.

Ecco la ragione per la quale è necessario conservarli con cura e tramandarli:
affinché non svaniscano come le stelle alle quali Fedele li paragona, puntini
luminosi posti al di sotto della costellazione di Andromeda che nel volgere di
poco tempo si dissolvono nel mare. 

 

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Giornata mondiale del malato

Dal 1992, quando fu istituita da Papa Giovanni Paolo II, l’11 febbraio ricorre la Giornata mondiale del malato. Il tema di questa XXVIII edizione è tutto nelle parole del Vangelo di Matteo: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro». Papa Francesco ha invocato occhi che vedano l’umanità ferita perché capaci di guardare in profondità, occhi che “non corrono indifferenti, ma si fermano e accolgono tutto l’uomo, ogni uomo nella sua condizione di salute, senza scartare nessuno, invitando ciascuno ad entrare nella sua vita per fare esperienza di tenerezza”. Spesso sappiamo tutto di quello che succede nel mondo, ma non ci accorgiamo della sofferenza del nostro vicino di casa. E di sofferenza ce n’è tanta: basta entrare nelle case, soffermarsi, non passare oltre; lottare contro uno dei mali più gravi di questi nostri tempi: l’indifferenza.
La Giornata del malato è tra le iniziative più significative che l’Associazione di volontariato cristiano “Agape” celebra ogni anno, articolandola in tre momenti. Durante la mattina sono state effettuate le visite domiciliari agli ammalati e la consegna di una statuetta della Madonna di Lourdes. Il pomeriggio è stato invece dedicato alla preghiera, sotto la guida del parroco don Marco Larosa. Presso la struttura residenziale per anziani “Mons. Prof. Antonino Messina” (alla quale l’Associazione ha donato un rosario), don Marco ha condotto la recita del Santo Rosario e impartito il sacramento dell’unzione degli infermi, alla presenza della statua della Madonna di Lourdes, portata all’interno della RSA dai volontari dell’Agape. Infine, la celebrazione della Santa Messa nella chiesa di Sant’Eufemia, conclusa con la “Preghiera per la XXVIII Giornata Mondiale del Malato”, nel corso della quale il presidente dell’Agape Iole Luppino ha ricordato i volontari dell’Associazione che non sono più tra di noi: «Signore, noi volontari Ti ringraziamo per quello che Anna, Adelina, Antonella e Marco ci hanno dato e insegnato in tanti anni di amicizia e di condivisione. Ti chiediamo che dal tuo Paradiso essi possano vegliare sulle loro famiglie e sull’Agape, di rafforzare in ogni volontario il desiderio di impegnarsi per gli altri e di risvegliare nei giovani il desiderio di scoprire la bellezza del donarsi».

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Lettera ai vertici di Poste Italiane

Sulla Gazzetta del Sud di oggi, la mia segnalazione a Poste Italiane del disagio patito dall’utenza di Sant’Eufemia a causa dell’elevato numero di operazioni svolte quotidianamente dall’Ufficio, a fronte della presenza di due soli sportelli, attivi con turni di lavoro antimeridiani. Ho scritto alla direzione centrale Risorse Umane Organizzazione e Servizi di Roma, a quella per il Sud di Napoli e a quella di Reggio Calabria. Ho chiesto pertanto l’adozione di opportuni provvedimenti, in particolare l’apertura di un terzo sportello e la collocazione del “totem giallo” all’interno dell’Ufficio postale, essendo il “numerino” inidoneo allo smistamento del lavoro sulla base delle diverse tipologie di servizio richiesto dagli utenti.

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Rosario Lalà

La storia di Sant’Eufemia è fatta da tantissimi personaggi anonimi, gente poverissima e affamata che a fatica, negli anni della grande miseria, riusciva a racimolare tutti i giorni un misero boccone. Tra le due guerre e nei primi anni del secondo dopoguerra non era inusuale che nelle numerosissime famiglie del tempo si saltasse più di un pasto, o che questo si riducesse a un po’ di pane accompagnato da qualche oliva. Molto triste era poi la condizione di chi viveva da solo e non svolgeva nessun mestiere. A questi poveracci non restava che affidarsi alla carità altrui. Potrebbe sembrare paradossale, ma non lo è: in una condizione di indigenza generale, slanci di umanità alleviavano la fatica del vivere di questi sfortunati. Si divideva il poco che si aveva.
Lalà (al secolo, Rosario Sabino) era “un innocuo vagabondo”. Così lo definisce Nino Zucco nell’omonimo racconto (Fuoco a Diambra, Bonacci Editore, Roma 1956). Un randagio senza parenti e senza un tetto, che dormiva sopra un giaciglio di “mattoni e pietre con calcinacci” in una vecchia casa terremotata. Indossava vestiti laceri, spesso sacchi rattoppati, i baffi sporchi e la barba ispida. Era letteralmente “a brandelli” e aveva i piedi spaccati dal gelo: «Sembrava che nei talloni gli avessero dato dei colpi d’accetta».
Raccoglieva per terra i mozziconi di sigaretta per alimentare la sua pipa e “si nutriva con il piatto della carità umana”, oppure con la frutta che rubava negli orti. Quando poi la fame diventava troppa, non disdegnava le galline morte “con il morbo”, che arrostiva nella forgia di mastro Rocco il maniscalco.
Il suo era per lo più un parlare senza senso: «Non sapeva fare altro che ridere e dire parole sconnesse». Il massimo del suo divertimento era attendere alla fermata della corriera l’arrivo delle bagnarote “cariche di mercanzie, che vendevano o barattavano con olio e ortaggi”: le seguiva attendendo il momento propizio per sollevare le loro vesti esclamando: «Bella Madonna!», ma spesso finiva inseguito e picchiato dalle possenti donne del mare.
Le buscava spesso Lalà. Era infatti il bersaglio preferito dei ragazzi del paese, che lo prendevano a colpi di pietra per strada oppure si introducevano di notte nel suo nascondiglio, per svegliarlo di soprassalto. Quegli stessi ragazzi che però si presero cura di lui quando si beccò la polmonite: «Rantolava rincantucciato in un angolo umido e fetido», eppure «voleva vicino i suoi ragazzi, e ad essi chiedeva un po’ di cibo e un po’ di vino, soprattutto vino».
Quella volta si salvò, ma una seconda polmonite gli fu fatale. Finiva così la vita di Lalà, il cui corpo, benedetto dal parroco (“che ebbe sempre pietà di lui”), fu portato via dagli spazzini.

A Lalà, tipico “personaggio” di paese, dedicò un suo componimento il poeta eufemiese Domenico Cutrì:

Parivi scemu, ma scemu non eri,
armenu a modu toi, tu ragiunavi,
si ’ncunu ti parrava l’ascurtavi
’mpocu sedutu e ’mpocu standu ’mperi.
Cu eri? Chi facivi? Chi speravi?
La to testa paria senza penseri,
non avivi famigghia, né mugghieri,
ridivi sempri e sempri caminavi.
Tenivi stritta ’nmanu na cortara
di crita, vecchia, rutta e nigru e lordu
tu eri sempri di ’n testa a li peri.
Na cosa avivi bona, lu ricordu,
ca ringraziavi tantu volenteri
cu ti stindiva ndi la manu ’n sordu!

*La fotografia è tratta dal libro di Domenico Cutrì, Cascami. Poesie dialettali, Tipografia La Cartografica, Palermo 1965, p. 90 (a pagina 91, la poesia).

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My long distant friend Tina e l’Agape

Racconto questa bella storia per tre ragioni: perché la protagonista mi ha autorizzato a renderla pubblica; perché le belle persone vanno indicate come modelli positivi di cittadini del mondo; perché spesso i social sono un luogo dove prevale l’odio, mentre questa storia dimostra che fortunatamente non sempre è così. Puoi utilizzare un martello per attaccare un quadro ad una parete, in modo da renderla più bella; puoi utilizzare lo stesso martello per spaccare la testa a qualcuno che non ti sta particolarmente simpatico. La differenza è sostanziale e sta tutta nell’uso che di un determinato strumento viene fatto.
Con Tina (Fortunata) Ciccone Sturdevant ci siamo “conosciuti” su Facebook nell’aprile del 2016, un mese dopo la pubblicazione negli Stati Uniti di “Through the Circles of Hell: A Soldier’s Saga”, la testimonianza sulla Prima guerra mondiale di Giuseppe Ciccone, suo padre. Una sorta di diario in versi tenuto in un baule fino al 1971, quando viene consegnato dall’anziano genitore alla figlia, che insieme al nipote J. Richard Ciccone (professore presso l’Università di Rochester) decide di darlo alle stampe quarantacinque anni dopo averlo ricevuto, con una traduzione inglese a fronte.
Da allora siamo rimasti sempre in contatto: “keep in touch” è infatti la chiusura delle nostre email e lettere, che firmiamo “your long distant friend”. All’inizio utilizzavamo entrambi l’inglese, poi qualche volta io l’italiano e lei l’inglese, infine entrambi l’italiano.
Tina è infatti nata e cresciuta a Sant’Eufemia. Ha ricordi della vita in paese e di alcuni suoi personaggi degli anni Trenta e Quaranta: ad esempio mi ha più volte scritto del dottore Giuffrè-Napoli (’u medicu da ’rrina), la cui abitazione ha frequentato. Nel 1950, raggiunge con la mamma negli Stati Uniti il padre, due fratelli e una sorella; successivamente sposa Ernest Sturdevant e dà alla luce quattro figli: Gary, Donna, Lisa e Linda. Oggi vive a Silver Spring (Maryland) ed è una nonna e bisnonna felice.
Gli articoli del mio blog hanno restituito a Tina le radici, facendole anche recuperare quella lingua italiana che non utilizzava più da mezzo secolo: così mi ha scritto più volte lusingandomi parecchio, perché lo scopo principale di “Messaggi nella bottiglia” è proprio il recupero della nostra memoria storica. “Fatti di oggi, memorie di ieri” è il sottotitolo del blog: e tra i fatti di oggi ci sono anche le iniziative dell’Agape. Parlare di volontariato non vuol dire “sentirsi belli”: è un tentativo di allargare il campo, di spingere soprattutto i giovani a provare questa esperienza utile per sé e per la comunità nella quale si vive.
Tina ha sempre dimostrato di apprezzare le nostre attività: talmente tanto da decidere di “dare una mano”, nonostante la distanza. Così, inaspettata, è giunta in questi giorni una donazione per la nostra associazione: «Voglio mandare un regaluccio per i bambini aiutati dall’Agape». Un assegno a nome mio, da girare all’Agape “per un programma di tua scelta”, che ha suscitato in tutti noi volontari emozione e gratitudine.
Il contenuto della lettera di accompagnamento è tra i riconoscimenti più belli che abbia mai ricevuto, ma quello lo tengo per me. Grazie, grazie, grazie, mia cara “long distant friend”.

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A proposito delle prossime elezioni comunali

Con l’elezione del sindaco di Sant’Eufemia Domenico Creazzo a consigliere regionale, al quale auguro buon lavoro e faccio i complimenti (così come faccio i complimenti anche all’altro candidato Giuseppe Gelardi che, pur non centrando l’obiettivo, ha ottenuto un eccellente risultato), si apre inevitabilmente la partita delle prossime elezioni comunali. Sussistendo infatti causa di incompatibilità tra la carica di consigliere regionale e quella di sindaco, entro sei mesi Creazzo dovrà dimettersi, dopodiché si andrà a nuove elezioni.
Già lunedì, a urne ancora calde, ho ricevuto parecchi messaggi e, ovviamente, la fatidica domanda, sentita anche nei giorni successivi: «Ti ricandiderai?». Al quesito rispondo pubblicamente, con franchezza: chi sarà il prossimo candidato a sindaco, per il mio modo di intendere la politica, è l’ultimo dei problemi. Ho sempre odiato le personalizzazioni e le autocandidature. Il vero quesito, dunque, dal mio punto di vista è un altro: di questo nostro paese cosa vogliamo fare? Quanta gente c’è disposta a fare uno sforzo di generosità per mettersi al servizio della comunità e, soprattutto, di un progetto che voli alto, che tenti di scardinare vecchie logiche e dia la speranza di un’inversione di rotta anche nella quotidianità amministrativa del comune?
Se non c’è il sogno, non c’è politica, ma soltanto gestione di (poco, pochissimo ormai nei comuni) potere. E io non posso esserci.
Se c’è il sogno, se ci sono giovani e meno giovani innamorati di questo nostro paese che accettino di mettersi in gioco e che, soprattutto, accettino di metterci la faccia (perché, dopo, è facile lamentarsi perché “al comune ci sono sempre gli stessi”), che accettino di diventare protagonisti attivi e non spettatori disincantati della fase che si è ora aperta, allora io ci sarò.
Credo di avere sempre dato prova di non coltivare ambizioni personali. È notorio che nelle passate elezioni ero disposto a fare non uno, ma dieci passi indietro, pur di arrivare ad una soluzione di lista unitaria. Cosa che allora non è stata possibile, con mio grande rammarico. Ci sarà questa possibilità? Non lo so. So però che dall’ipotesi di un progetto che sia il più inclusivo e condiviso possibile dipenderà o meno la mia presenza. A queste condizioni potrò esserci, con il ruolo che, tutti insieme, decideremo per tutti coloro che accetteranno la sfida. Tutti insieme.
Ho sempre fatto politica con spirito di servizio e di lealtà nei confronti dei miei compagni di viaggio, sia quando sono stato protagonista, sia quando ho avuto un ruolo più defilato. Spirito di servizio significa che le decisioni vanno prese collegialmente: elaborazione di un programma elettorale, selezione dei candidati a consigliere, decisione su chi sarà il candidato o la candidata a sindaco (l’ordine non è casuale).

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La cura

Ero poco più che un adolescente quando cominciai ad ascoltare Franco Battiato nelle musicassette EMI. All’inizio mi incuriosiva questo personaggio singolare, anche se non riuscivo a cogliere tutti i riferimenti culturali che le sue canzoni suggerivano. Mi affascinavano la profondità del pensiero e l’eclettismo di una produzione improntata sulla sperimentazione artistica. Intuivo che i suoi testi contenevano più livelli di lettura anche quando l’orecchiabilità del brano poteva trarre in inganno, come nelle celeberrime “Centro di gravità permanente” e “Bandiera bianca”. Tutto questo mi bastava: è stato il punto di partenza per entrare in mondi a me sconosciuti; mi ha suggerito letture e domande sul mondo, sugli uomini e sul rapporto con il divino.
Mi è venuto in mente questo mio “incontro” con Battiato, ascoltando per caso alla radio “La cura” (album: “L’imboscata”, 1996). Con la tristezza nel cuore per le condizioni di salute che hanno determinato il ritiro di Battiato dalle scene e alimentato le voci di una misteriosa malattia che ne avrebbe intaccato le facoltà mentali. La più atroce delle condanne per chi ha cercato di spingere la mente oltre i gretti accadimenti terreni e materiali.
Ho chiuso gli occhi e ho cercato di concentrarmi sui versi composti da Battiato e dal filosofo Manlio Sgalambro, per “respirarli” a pieni polmoni. Non so se “La cura”, come qualcuno sostiene, sia la più bella canzone d’amore italiana. Graduatorie di questo genere sono antipatiche. Come si fa a stabilire se sia più bella di “Caruso” (Dalla), “La costruzione di un amore” (Fossati), “Vorrei” (Guccini), “Sempre e per sempre” (De Gregori)? Si potrebbe continuare a lungo.
“La cura” non è una semplice canzone d’amore. Tratta dell’amore nella sua forma più alta e universale, quella capace di elevare lo spirito e di condurre l’uomo alla scoperta della sua vera essenza, temi che Battiato ha sviluppato attraverso lo studio delle dottrine religiose orientali e la pratica del sufismo. Se il verso “tesserò i tuoi capelli come trame di un canto” è un inno d’amore, “percorreremo assieme le vie che portano all’essenza” richiama il misticismo già affrontato nel brano “E ti vengo a cercare”.
Per qualcuno, l’io narrante della canzone è Dio stesso. Sarà Dio a prendersi cura dell’artista, un “essere speciale”. Lo proteggerà da paure, turbamenti, ingiustizie, inganni, fallimenti. Gli porterà il silenzio e la pazienza. Percorrerà al suo fianco le vie che portano all’essenza. Gli donerà le leggi del mondo.
Mentre le parole libravano nell’aria, pensavo a Battiato oggi. Forse sofferente, forse “non presente a se stesso”: o forse, finalmente al di là del tempo e dello spazio, nella condizione di pace inseguita per tutta la vita.

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Salviamo Favazzina

Dopo le mareggiate del 23-24 dicembre, Favazzina è uno strazio. Il mare ha travolto le sue caratteristiche e graziose spiaggette, portando via tutto. Quel che è rimasto somiglia tanto a un campo di battaglia subito dopo un bombardamento. Terra arata, rivoltata, franata. Spaccature lungo il poco di spiaggia rimasta, profonde come ferite dell’anima.
Favazzina è uno dei miei luoghi dell’infanzia. A Favazzina mio padre mi ha insegnato a nuotare, quarant’anni fa. Favazzina è stata teatro delle gare di resistenza in apnea tra bambini. A Favazzina mi sono tuffato per la prima volta dagli scogli sull’acqua limpida. Gli stessi scogli che, adolescente, ho esplorato a caccia delle patelle, da staccare con il coltello e divorare subito dopo una veloce sciacquata sulle piccole onde.
Tutte le estati degli anni 80 le ho trascorse a Favazzina, gli occhi felici e il sale sulla pelle, spruzzi e tuffi, gol e parate. Favazzina sono i miei fratelli e i miei cugini francesi, sarabanda giocosa con seguito di ombrelloni e borse frigo gigantesche con dentro frutta, panini e bibite. Favazzina è la Toyota Corolla di mio zio Carmelo, nello stereo le musicassette di Johnny Hallyday e Adriano Celentano per un mese di fila, mentre mia zia Gigì gli intima di andare piano non appena supera i 100 km/h.
Alla fine degli anni 90, Favazzina fu per me una piacevole riscoperta, fatta insieme a tanti altri amici e a tanti bambini, ospiti dell’Orfanotrofio Antoniano di Sant’Eufemia, che per tutto il mese di luglio con i volontari dell’Associazione “Agape” accompagnavamo al mare. Una colonia estiva che per un decennio abbiamo organizzato portando a Favazzina bambini di Altamura e Napoli, ma anche disabili e ragazzini di Sant’Eufemia provenienti da nuclei familiari disagiati.
Da qualche anno Favazzina mi attende a settembre, il periodo in cui preferisco andarci per lasciarmi cullare dalle onde e dal silenzio. Nella solitudine della “mia” spiaggia ho letto Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo ed è stata una doppia emozione.
Ora è tutto molto doloroso. La strada d’accesso è crollata e della stessa spiaggia non è rimasto quasi niente: una lingua ristretta di massi sputati dal mare. La furia del mare si è abbattuta anche sui miei ricordi di bambino, di adolescente, di adulto. Come se abbia portato via anche una parte di me.
Favazzina deve continuare a vivere anche per noi, suoi innamorati. Sul sito charge.org Carmen Santagati ha promosso una petizione (“Ricostruiamo Favazzina di Scilla distrutta dal maremoto”), che ho sottoscritto e che chiedo di sottoscrivere ai tanti che come me amano quest’angolo di Paradiso.

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Mozione contro la riapertura della discarica di contrada “La Zingara”

La mia richiesta segue quella analoga presentata da Adone Pistolesi, del gruppo consiliare “Rinascita per Bagnara”, in occasione del consiglio comunale tenuto a Bagnara il 30 dicembre 2019 (la cui votazione è stata rinviata). Essa segue ad altre due mie azioni sulla vicenda: la prima (2 settembre 2019), la richiesta al sindaco Creazzo di “farsi promotore di un’iniziativa (un incontro o un consiglio comunale aperto) che coinvolga le realtà associative della nostra comunità e la sua popolazione, per fare il punto della situazione e per valutare quali eventuali azioni possiamo tutti insieme intraprendere per difendere il nostro territorio”; la seconda (12 dicembre 2019), una nota nella quale lamentavo che “ad oltre tre mesi di distanza questo auspicato coinvolgimento dell’opposizione, delle realtà associative e della popolazione di Sant’Eufemia” non c’è ancora stato. Ritengo che una determinazione ufficiale da parte del consiglio comunale possa essere utile e rafforzare la posizione di contrarietà alla riapertura della discarica espressa dal sindaco Creazzo in diverse circostanze.

Al Presidente del Consiglio comunale
di Sant’Eufemia d’Aspromonte

Mozione: Richiesta di inserimento, come punto all’ordine del giorno del prossimo consiglio comunale, di una mozione contro la riapertura della discarica in contrada “La Zingara”, nel comune di Melicuccà

Premesso
che
con una nota stampa del 2 agosto 2019, il Settore rifiuti della Regione Calabria ha comunicato la volontà di riaprire entro 24 mesi la discarica di contrada “La Zingara”, ricadente nel comune di Melicuccà, ma confinante con Sant’Eufemia d’Aspromonte e con Bagnara Calabra;
tra la popolazione e gli operatori economici del territorio ha generato molta preoccupazione il dissequestro della discarica, permanendo forti perplessità circa l’impatto negativo che la stessa, situata alle porte dell’Ente Parco Nazionale dell’Aspromonte, avrebbe sotto il profilo ambientale, turistico ed economico;
già in anni abbastanza recenti le popolazioni locali hanno manifestato la propria contrarietà, mettendo in campo diverse iniziative di protesta che portarono al sequestro della discarica stessa;
è necessario mettere in campo una serie di iniziative conseguenti, con il coinvolgimento della popolazione, delle associazioni del territorio e delle amministrazioni dei Comuni limitrofi
Chiedo
l’inserimento, come punto all’ordine del giorno del prossimo Consiglio comunale, di una mozione contro la riapertura della discarica di contrada “La Zingara” di Melicuccà.

Il Consigliere comunale
Domenico Forgione – “Per il Bene Comune”
Sant’Eufemia d’Aspromonte, 31 dicembre 2019

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Buon 2020

Buon anno
a chi non ci sperava
a chi vede il bicchiere mezzo pieno
a chi stringe forte quando abbraccia
a chi si prende cura degli altri
a chi rispetta la natura
a chi non odia
a chi fa collezione di attimi
a chi canta sotto la doccia
a chi singhiozza nel buio di un cinema
a chi ripensa al finale di un romanzo
a chi crede in qualcosa
a chi non smette di cercare
a chi ama
a chi corre per strada
a chi danza sotto la pioggia
a chi si commuove guardando le stelle
a chi si fa cullare dal silenzio
a chi trattiene il fiato
a chi fa sogni colorati
a chi tenta la giocata di tacco
a chi beve in compagnia
a chi si ribella
a chi trova una ragione per sorridere
a chi pianta un seme
a chi resiste e vive, vive e resiste.

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