Il servizio di Report sulle carceri italiane

La puntata di Report di ieri sera ha il merito di avere squarciato il velo dell’ipocrisia e dell’indifferenza sul tema della condizione delle carceri italiane. Vi consiglio di guardarla quest’ora di servizio giornalistico. Anche se non è tutto. Perché il carcere è repubblica a sé: molto poco di ciò che succede là dentro filtra all’esterno. Nessuno vede l’acqua marrone che sgorga da fetide docce comuni, né sente i miasmi della spazzatura sotto la finestra, assaltata da decine e decine di gabbiani stridenti. E se, ad esempio, per venti giorni presenti una domandina per potere telefonare a casa e non vieni autorizzato, devi stare zitto e subire. Mica c’è il protocollo che registra la domanda: il foglio può passare dalle tue mani al cestino della spazzatura; ed è come se non sia mai stata presentata. Non arrivano fuori dal carcere neanche le parole sghignazzate: «Hai lo stesso cognome di Padre Pio. Solo che lui faceva miracoli; mentre tu fai danni, altrimenti non saresti qua».
La questione carceraria è molto impopolare e di facile strumentalizzazione. Chi solleva il tema viene facilmente additato come “amico” dei criminali. Eppure il rispetto dei diritti umani altro non è che la difesa dello stato di diritto e della civiltà giuridica nata con l’illuminismo.
Il carcere è un luogo dove la dignità umana viene quotidianamente calpestata. Che tu sia colpevole o innocente, non fa differenza: dopo averne varcato il cancello, non sei più nessuno. Sei soltanto un delinquente uguale a tutti gli altri. La tua vita precedente viene cancellata. Se non ce la fai a sopportare il peso dell’angoscia personale e la pressione psicologica del regime carcerario, puoi sempre imbottirti di psicofarmaci o impiccarti.
Le vorrei conoscere le statistiche sul consumo di psicofarmaci nelle carceri. Quelle sui suicidi tra le sbarre sono invece note: 56 nel 2020. E se lo Stato si è sbagliato, pazienza. Tutte le guerre registrano “vittime collaterali”: bombardi un deposito di munizioni e muoiono anche gli inquilini di qualche palazzo vicino. Con la giustizia accade la stessa cosa, tanto c’è il risarcimento per ingiusta detenzione. Come se la serenità mentale e fisica si possa davvero misurare in soldi. Per la cronaca, gli ultimi dati disponibili per il 2019 assegnano alla provincia di Reggio Calabria la spesa più alta per risarcimenti: quasi 10 milioni di euro per 120 casi accertati.
Nel 2020 ho capito tre cose. La prima: il carcere serve per nascondere sotto il tappeto la polvere del fallimento dello Stato, delle sue politiche scolastiche, educative ed occupazionali. La seconda: la funzione rieducativa della pena esiste soltanto sulla carta, all’articolo 27 della Costituzione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Piccolo paradosso: per i detenuti giudicabili va peggio che per i condannati in via definitiva. La terza: chi è colpevole, dopo avere scontato la pena probabilmente uscirà dal carcere ancora più delinquente; chi sconta una pena da innocente, di certo – se non comincerà a delinquere – vedrà nello Stato un nemico.

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Renzi il ganassa

Nel mio piccolo ho avversato Renzi quando guidava un partito che aveva il 40%, era il Re Mida della politica italiana e il popolo gli sbavava dietro. Non era facile essere minoranza nel Partito Democratico e qualche prezzo, per questo, l’ho pure pagato.
D’altronde la storia italiana insegna che sotto il balcone del potente di turno si raduna la stessa folla osannante che poi piscerà sul cadavere di colui che fu uomo della provvidenza: più che altro per emendare le proprie colpe.
Non ho mai creduto alla contrapposizione tra una società civile buona e una classe politica cattiva. I politici ipocriti, opportunisti e voltagabbana sono espressione del popolo che li sceglie. Pertanto non credo alla genuinità della marea di indignazione che sale e sorrido ascoltando il grido “dagli all’untore”.
Non sono Montanelli, che sosteneva di stare dalla parte delle streghe quando si accendevano i roghi. Tuttavia, perché questo stupore e questa indignazione? Renzi fa il Renzi: non è che sia diventato un ganassa oggi. Era un bulletto quando aveva l’Italia ai suoi piedi e tale è rimasto ora che guida un partito che in caso di elezioni non entrerebbe neanche in Parlamento. Incoerente, cinico, dotato di un ego smisurato. Destrutturato, privo di alcuna idea forte, gommoso come la plastilina. Oggi si professa addirittura garantista, dopo avere alimentato la gogna mediatica contro Marino e proposto a ministro il campione nazionale del giustizialismo.
Renzi è l’emblema della politica ridotta a lotta di potere, a scontro personale, a mortificazione dell’interesse generale. Il potere per il potere: quindi può essere (come è già stato) tutto e il contrario di tutto. Come l’altro Matteo, come Di Maio, come la corte di nani che da qualche decennio occupa la scena politica italiana.
Verrebbe davvero voglia di andare ad elezioni, pur di toglierlo dai piedi. Ma non accadrà, non ora. Ne è consapevole lo stesso Renzi, che altrimenti non farebbe la voce grossa, né correrebbe il rischio di scomparire a causa della sua invidia penis.

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Le palline di carta

Dei miei anni alle scuole elementari ricordo con tenerezza una circostanza che si ripeteva ogni mattina. La classe disposta su due file all’ingresso, i bambini in coppia pronti a recarsi in aula. Se chiudo gli occhi sento ancora la mano calda e sudata di Nino, con il suo caschetto biondo, il grembiulino e il fiocco a pois blu. Quel tenersi stretti per mano faceva parte della complessa crescita di due bambini che si affacciavano alla vita.
La scuola non è soltanto didattica, lo sappiamo tutti che è molto altro. Facevo questa riflessione stamattina, quando per pochi minuti mi sono ritrovato a sbirciare mio nipote, che frequenta la terza elementare, impegnato nelle sue lezioni al computer. Ho provato ammirazione per la fatica che costa agli insegnanti e agli alunni.
Non è facile controllare una classe da dietro un monitor, tenere alta la concentrazione dei bambini, non farsi prendere dallo sconforto e continuare, nonostante tutto, nella magnifica missione educativa e formativa di generazioni che dovranno affrontare un mondo oggi rarefatto, avvolto dall’angoscia e dal mistero.
Ho provato malinconia per mio nipote e per tutti gli altri bambini che immagino seduti al tavolino, da soli. Per loro, che stanno crescendo senza avere contatti fuori dalle mura domestiche e che hanno poche occasioni di interazione: e che si vedono così precluso un aspetto importantissimo di crescita individuale. Perché gli altri ci sono, esistono e da grandi – in qualche modo – bisognerà farci i conti.
Chissà quanto durerà questo vivere a metà: senza potersi lanciare una pallina di carta da un banco all’altro, senza poter condividere con il compagno la merenda, senza poterci litigare. Senza crescere esercitando nella vita di tutti i giorni la dimensione interpersonale. Di meno alle elementari, di più alle superiori, a quanto pare. Bambini e adolescenti sono le “vittime” silenziose della pandemia e, più o meno consciamente, lo sanno anche loro. Infatti preferirebbero le lezioni in presenza.
Ma le polemiche sulla scuola appaiono antipatiche, irrispettose e surreali. Inoltre, non aiutano: mentre ci sarebbe un grande bisogno di aiuto, di collaborazione e di responsabilità tra istituzioni, scuole e genitori per limitare al massimo i danni di un’attività che – oggettivamente – si scontra con mille difficoltà. Meglio non caricarci sopra anche le ubbie di un mondo ideale lontanissimo dalla realtà. Nella speranza di vedere nuovamente volare, presto, le palline di carta appallottolata.

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Domenico Antonio Tripodi e Dante Alighieri

Monte Purgatorio

Cosa lega Dante Alighieri a Sant’Eufemia d’Aspromonte? Posta così, la domanda potrebbe sembrare bizzarra. Eppure la relazione esiste, grazie al genio di Domenico Antonio Tripodi, noto come “L’Aspromontano”, che dal 1995 risiede a Roma, dopo avere vissuto in Toscana e a Corbetta (Milano). Il pittore eufemiese, celebre per il suo dipinto “Il filosofo”, finito anche in un volume della Storia della filosofia e delle religioni – Enciclopedia Tutto sapere (Edizioni Paoline-Saie), ogni estate fa ritorno nell’abitazione di via Nucarabella, dove è nato novant’anni fa. La sua lunga carriera artistica, che gli è valsa riconoscimenti e premi in tutto il mondo, si è sviluppata nei tre cicli del mito e dell’umanesimo, della tematica “ecologica” e, infine, della stagione dantesca. Della “riscoperta” di Dante, prima ancora che si avviassero i preparativi per i 700 anni dalla morte del Sommo Poeta (1321), Tripodi è stato un precursore, visto che all’interpretazione pittorica della Divina Commedia ha dedicato quasi trent’anni di ricerche, studi e sperimentazioni. Il risultato di quest’attività indefessa è un ciclo pittorico monumentale, che si compone di 150 opere tra disegni e pitture e che sono già noti sia in Italia che all’estero: memorabile la presentazione del 2005 presso la biblioteca centrale di Mosca.
Il paragone con gli artisti che nel tempo hanno dato forma alle terzine della Divina Commedia viene quasi naturale. La critica però concorda nell’escludere per Tripodi la qualifica “riduttiva” di illustratore: le sue opere non illustrano, bensì interpretano il pensiero di Dante. Ne è convinto, ad esempio, lo storico e critico dell’arte Claudio Strinati, dal 1991 a 2009 soprintendente per il Polo museale romano: «Nella lunga e complessa vicenda delle letture figurative di Dante, Tripodi ha saputo iscriversi da par suo, con una personalità spiccata e originale. […] Il pittore scende, in effetti, alle radici stesse dell’opera dantesca e ne rintraccia l’immane dottrina e la profonda e autentica spiritualità. Quel singolare equilibrio tra immediatezza e meditazione che caratterizza così bene la poetica dantesca, si rintraccia bene nella impostazione figurativa di Tripodi. A lui mai si potrebbe attribuire la qualifica di illustratore. Egli non illustra, infatti, ma rivive la vicenda dantesca, e la sua pittura è un bell’esempio di vicinanza tra nobili spiriti che pensano la stessa cosa in modi diversi e ritrovano una sintonia profonda a distanza di secoli».

L’indovino Tiresia
La fine di Ulisse
Minosse
La città dolente

*Le immagini dei quadri sono tratte dal Catalogo: Domenico Antonio Tripodi, Il colore nella Divina Commedia (2018).

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Il terremoto del 28 dicembre 1908 nella testimonianza del medico Bruno Gioffrè

Chiesa di Sant’Eufemia V.M.

Alle prime ore del 28 dicembre 1908 Sant’Eufemia fu squassata da un terremoto di magnitudo 7,5: la scossa tellurica durò 46 lunghissimi secondi e, abbattendosi su abitazioni già colpite nel 1894, nel 1905 e nel 1907, causò una tragedia di enormi proporzioni. Il numero delle vittime non è mai stato accertato con esattezza, poiché sono discordanti le testimonianze dirette e i dati riportati dagli storici. Furono circa 700 per la giunta comunale, che il 14 ottobre 1911 inviò al governo il documento “Per la riedificazione di Sant’Eufemia d’Aspromonte”. Secondo altre fonti, i morti potrebbero essere stati molti di più, un migliaio o anche oltre. L’elenco stilato dall’arciprete Luigi Bagnato, a sette mesi dalla tragedia, riporta invece i nominativi di 530 vittime, un dato molto vicino a quello di 537 fornito da Vincenzo Tripodi nella sua “Breve monografia su Sant’Eufemia d’Aspromonte”. I feriti furono più di duemila, il patrimonio edilizio perduto pari all’85%: le abitazioni crollate e quelle demolite in un secondo momento furono complessivamente 1.100; un centinaio quelle parzialmente distrutte.

Il medico condotto Bruno Gioffrè in una foto del 1906

Drammatica la testimonianza del medico condotto Bruno Gioffrè (1865-1931), riportata nel suo “Quarant’anni in condotta” (pp. 89-93): «Come trascorsi la nefasta giornata io non so dirlo. Quanti feriti soccorsi, e quali? E di quante sciagure fui spettatore? Non ne ho chiara memoria. Solo ricordo che vestito sommariamente, con camicia da notte, senza cappello, digiuno, vagai fino alla sera, tornando inebetito al lume di una lucerna all’antro ospitale che trovai pieno di rifugiati avviliti e taciturni. […] E si taceva tutti, mentre per l’aria gelida ed umida giungevano urli e sospiri e la terra era tutto un fremito per le scosse che si susseguivano senza tregua. Mi si apprestò un giaciglio con qualche straccio a terra, e nella quasi oscurità passarono non so quante ore. Ma più alte grida ci scossero. Uscimmo dalla baracca e vedemmo non lungi colonne di fiamme che rompevano la notte. Più case ardevano, sotto una delle quali era seppellita tutta una famiglia e sotto un’altra una vecchia signora inferma che avevo curato in quei giorni. Terrore e strazio! Così passò la spaventevole notte. E venne l’alba, funebre anch’essa, ed io ripresi il mio triste lavoro. […] Il più esasperato sconforto invase gli animi. Alcuni dei migliori cittadini si spinsero fino a Palmi, capoluogo del circondario, e informarono le poche autorità superstiti della immensa sciagura del paese […]. Ma nulla giunse nei quattro giorni finali dell’anno sciagurato: non un pane, non un farmaco. Solo il primo gennaio del 1909, Capodanno tristissimo, si vide la prima faccia umana, e fu il Vescovo della Diocesi, Monsignor Morabito, con un carro di viveri e con parole di soave conforto».

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Il mio 2020 in otto L

LIBRI – Libri letti. Devo ad André Malraux, tratta da “La condizione umana”, la più efficace definizione di prigione: «il luogo in cui si arresta il tempo che altrove continua». Giorni sempre uguali a sé stessi, ripetitivi e interminabili. I libri sono distrazione e allenamento: ho avuto come coach Borges, Voltaire, Tabucchi, Carlo Levi, Vittorini, Sciascia, Sofri, Balestrini, Consolo, Bufalino, Hosseini e tanti altri. Libri da scrivere. Come quello interrotto il 25 febbraio, ora ripreso e quasi completato.
LASAGNE – Ricky Albertosi dichiarò di avere mangiato in cella i bucatini all’amatriciana più buoni della sua vita, probabilmente esagerando per non uscire dal suo ruolo di guascone. Io ho invece provato tanta tenerezza nel vedere l’impegno e la pazienza di chi cucina le lasagne, così come la pizza, le torte e tutto ciò che va cotto al forno… senza avere il forno, sopra un fornellino da campeggio. Lasagne che si condividono: un modo per farle viaggiare da un lato all’altro della sezione si trova sempre, se necessario anche con il metodo della canna da pesca.
LUNA – «Nei mari della luna i tuffi non si fanno»: a volte è grandissima e ti ci vorresti tuffare lo stesso, a dispetto dei Mercanti di Liquore. Ma nelle notti infinite è un puntino che forse ti guarda, forse no. Sta là, tutta compresa dentro un quadratino della rete della finestra. Stretta, stretta, come noi in sei passi avanti e sei indietro. Il blindo è un coperchio di bara fino al mattino successivo. A fendere la notte, la luce della torcia come un lampo o l’interruttore carogna, mentre dormi.
LOTTA – Lotta impari, contro un “dominio assoluto” che incredibilmente ha la faccia dello Stato. Lotta per avere riconosciuto anche il diritto di telefonare, quando ti viene negato con pretesti assurdi. Mentre le domandine vengono ignorate, oppure non si trovano e ogni giorno bisogna ripresentarle. Si aspetta, si aspetta, in una realtà nella quale nessuno è responsabile e tutti “eseguono degli ordini”. Eppure non si arretra, anche a costo di una punizione, per non perdere l’ultimo briciolo di dignità.
LUCE E LUTTO – Tra i libri letti, ho molto apprezzato “La luce e il lutto” di Gesualdo Bufalino, il cui intento è proporre emozioni, più che esporre ragioni: «Lusingandomi – precisa – che quelle sappiano non meno di queste spiegarci agli altri e, prima che agli altri, a noi stessi». A pagina 124 ho cerchiato di rosso una frase, definitiva: «Qualunque violenza inflitta a un innocente in nome d’un interesse o principio o puntiglio (uno dei tanti che volubilmente di secolo in secolo appassionano i potenti) è altrettanto empia che inutile».
LENZUOLO – Il rumore della battitura mette i brividi. Sgabelli, brande e pentole contro finestre e cancelli. Le voci sono una babilonia di rabbia: «Vergogna! Vergogna!». Vergogna per un suicidio annunciato, già tentato qualche giorno prima. Il lenzuolo come un cappio, annodato alle sbarre della finestra. Finalmente libero. Non è il primo e non sarà l’ultimo, tra questa umanità dannata, stordita da un consumo spropositato e incontrollato di psicofarmaci, purché sia sonno.
LIBERTÀ – La libertà violentata nel cuore della notte ha la voce sorda di colpi violenti sulla porta, come tonfi nell’anima. I polsi fanno male, ma non quanto gli scatti delle macchine fotografiche, schierate come un plotone d’esecuzione che mitraglia contro la scalinata della questura. Non c’era nessuno sette mesi dopo, quando le porte si sono aperte. Nessuno a fotografare la valigetta di plastica e la borsa con cerniera a quadretti rossi e neri. Nessuno nel chilometro di strada percorso a piedi come un profugo, fino al bar più vicino.
LETTERE – Lettere ricevute e lettere scritte, tantissime e provvidenziali: pacca sulle spalle e terapia. Per volare con il pensiero oltre il filo spinato. Per ingannare la routine concentrazionaria che mina quotidianamente la dignità di un detenuto attraverso il controllo del suo corpo. Per continuare a vivere, con la speranza che pulsa dentro il petto all’avvicinarsi della guardia. Per trovare nella solidarietà altrui la conferma alle parole di Camus: «Nella profondità dell’inverno, ho imparato alla fine che dentro di me c’è un’estate invincibile». La verità è un’estate invincibile.

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Calogero Mannino

Dopo un calvario giudiziario durato trent’anni, Calogero Mannino è stato assolto. Tanto sicuro era della sua innocenza, che aveva scelto il rito abbreviato. Quando giungerà a conclusione anche il processo degli imputati che hanno scelto il rito ordinario, sarà ufficiale che non vi fu trattativa tra stato e mafia. Con buona pace di chi ha costruito carriere e fatto soldi scrivendo libri sull’argomento. Che almeno si aggiornino i manuali di storia. Qualche giorno fa era stata invece assolta Nunzia De Girolamo, al termine di un’altra vicenda giudiziaria durata sette anni. Prima ancora era toccato ad Antonio Bassolino. Il metodo è sempre lo stesso: si elabora il teorema e poi si piegano eventi e circostanze a quel teorema. Che, quasi sempre, si rivela sballato, frutto di una visione mafiocentrica, camorrocentrica, ndranghetocentrica della realtà. Una comodissima scorciatoia che evita noiosissime ed inutili analisi sociologiche, economiche e culturali: tanto, a queste latitudini tutti sporchi e cattivi siamo. O dobbiamo essere, perché così fa comodo ad una narrazione autoassolutoria del fallimento di tutte le politiche governative sul Mezzogiorno. Dalla legge Pica in poi, la questione meridionale è sempre stata un affare emergenziale e criminale.
La vicenda Mannino (quelle De Girolamo, Bassolino e tante altre) dice però altro, senza aggiungere niente di nuovo, in verità. Ci ricorda, ad esempio, lo sbilanciamento pauroso esistente tra accusa e difesa in processi che dalle aule dei tribunali vengono furbescamente trasferiti nelle piazze, notoriamente assetate di sangue. Il corto-circuito mediatico-giudiziario di vicende di questo genere rappresenta una grave lesione dello stato di diritto. Una procura può infatti presentare la propria inchiesta come verità assoluta, già un paio d’ore dopo gli arresti, grazie a certa stampa che le consente di emettere sentenze molto prima dei canonici tre gradi di giudizio cui avrebbe diritto un imputato. Sul fronte opposto, con mille cautele e distinguo, al massimo è consentito di pronunciare la formula di rito, vigliacca ed ipocrita, che prevede la “piena fiducia sull’operato della magistratura” e l’auspicio che la giustizia faccia “il suo corso”.
E pazienza se al termine del “corso” della giustizia, dopo anni o addirittura decenni, resteranno vite ed attività economiche distrutte da carcerazioni preventive e sequestri e amministrazioni comunali marchiate dall’infamante timbro dello scioglimento per infiltrazioni mafiose.

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Pablito

“I nostri miti morti ormai”, come in una celebre canzone di Guccini. Ho iniziato a canticchiare “Incontro” subito dopo avere saputo che anche Pablito ci ha lasciati, in questo terrificante 2020. Un riflesso pavloviano: «Siamo qualcosa che non resta/ frasi vuote nella testa e il cuore di simboli pieno». I simboli di un bambino di nove anni cresciuto a pane con l’olio e Gazzetta dello sport, Corriere dello sport, Tuttosport, Intrepido sportivo e Guerin sportivo. Il Bar Mario era una sorta di emeroteca olimpionica. Il bambino di nove anni amava il calcio visceralmente, volava sulle ali della sua bellezza poetica, che cercava di imitare ovunque si potesse correre dietro ad a un pallone: piazze, strade, angoli abbandonati che venivano convertiti in campo da calcio. La bellezza non ha colori, per questo collezionava i poster dei suoi supereroi preferiti. Accanto ai nerazzurri, quelli bianconeri di Zoff, Scirea, Tardelli, Rossi e della colonia straniera sbarcata nel campionato più bello del mondo: Platini, Rummenigge, Falcao, Zico, Maradona, Passarella, Junior, Socrates, Cerezo.
Nell’immaginario collettivo Paolo Rossi rimarrà per sempre Pablito, il ragazzo timido e di poche parole capace di trasformare in gol il più sbilenco dei cross, un rimpallo o un pallone vagante dentro l’area. Nell’era moderna, soltanto Pippo Inzaghi gli si è avvicinato come natura e stile di gioco.
Paolo Rossi, per tutti “Pablito” dopo il “Mundial ’82”. Di questi tempi non lo sarebbe diventato. Due anni di squalifica per calcio scommesse e la convocazione poco prima del mondiale, dopo una lunghissima inattività. Nell’Italia di oggi, assetata di sangue, sarebbe stato crocifisso in piazza. Ma quella era un’epoca di uomini veri e un “hombre vertical” come il commissario tecnico Enzo Bearzot non era certo tipo da farsi intimidire da chi, eufemisticamente, storceva il naso. Neanche quando, nelle prime tre partite, Paolorossi (sì, tutto attaccato) era stato un fantasma. Credeva nei suoi “il vecio”. Credeva in Paolorossi, sempre titolare a dispetto di tifosi, giornalisti e sedicenti padreterni del calcio. Bearzot sapeva che in Italia basta poco per passare dal disprezzo all’idolatria: a Rossi bastarono tre partite per diventare Pablito e per fare scoppiare di gente il carro del vincitore. Tre gol al Brasile, nella partita di calcio più celebrata insieme al 4-3 alla Germania nel 1970, due alla Polonia in semifinale e uno alla Germania in finale, sotto la pipa felice e sorniona di Sandro Pertini.
Pablito aveva avuto la sua seconda possibilità e, con sé stesso, aveva riscattato l’Italia intera: aveva affermato il principio che la polvere non è per sempre, così come l’altare. Che si può rinascere ogni giorno. Una lezione che molti oggi sembrano avere dimenticato, seguaci invasati della furia iconoclasta di uno Stato che si vorrebbe etico.
Ad ogni partita il Bar Mario registrava il pienone. Dopo la vittoria con il Brasile avevo rischiato di impiccarmi con la tenda mentre correvo fuori per esultare. Portai per giorni i segni sul collo e le ginocchia sbucciate. In quell’indimenticabile 11 luglio sembrava di stare in curva. I più piccoli a gambe incrociate per terra, gli altri dietro, seduti nelle sedie o in piedi. Gli occhi fissi sul Phonola 28 pollici issato a un metro e mezzo d’altezza sopra due banchi, per consentire anche ai più distanti di vedere qualcosa. E il cuore che andava a mille, fino al grido di Nando Martellini: «Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!». Gli azzurri che si rincorrono nel Bernabeu, la magia e la malinconia di un tempo lontano, il sorriso e le braccia al cielo di Pablito: “le cose sognate e ora viste”, proprio come nella canzone.

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Camerotto 1

[Fonte Immagine: Il Riformista]

Dalla finestra a rete
entra un cielo affannato,
manto silenzioso
di un tempo senza ore.
Lontano
tace il sole
nuvole distratte
rincorrono i pensieri muti,
stanchi.
Siamo ali spezzate
e ansia di volo,
il petto ammaccato
dai battiti dell’attesa.

[HH192000011 – Marzo 2020]

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Splendi, Diego

Scrivo di te di notte, l’ora del dialogo con le stelle. L’ora dei sogni. L’ora dell’amore. Perché sei stella, sogno e amore. Sei “Pibe de oro” e “mano dei Dios”, sei “Isso”: il liberatore dei popoli oppressi, il riscatto degli scugnizzi, il bambino che grida che il re è nudo mentre attorno il sistema volge lo sguardo da un’altra parte. Per paura o per debolezza. Due sentimenti che non ti appartengono, che non possono appartenere a chi ha respirato la polvere di Villa Fiorito.

Sono argentini i due più grandi rivoluzionari della seconda metà del XX secolo: Ernesto Che Guevara e tu, Diego. «Siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia, commessa contro chiunque, in qualsiasi parte del mondo». Ed è quello che hai fatto salendo le scale degli spogliatoi del San Paolo, il 5 luglio 1984. Caricandoti sulle spalle la rabbia degli ultimi per condurli nella scalata al cielo: sapendo che “la vita è una lotteria di notte e di giorno”, come canta di te Manu Chao. Lo sai meglio di chiunque, Diego: conosci vittorie e sconfitte della vita, quella tua vita che hai spesso maltrattato, ma sempre amato. Sei il Lord George Byron del calcio. Lo sarai per sempre, con quel cuore grande che hai portato anche in un campo infangato di Acerra, per mantenere la promessa fatta ad un bambino malato. E come sorridevi, quel giorno. Per questo la gente ti ama e ti amerà per sempre: come me, con il tuo poster attaccato accanto a quello dell’Inter dei record.
E allora splendi, continua a splendere, nell’eterno presente in cui vivono gli Dei.
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