Bastassero l’indignazione e la rabbia. L’indignazione per i 165 morti in carcere, dal primo gennaio ad oggi, in un Paese sedicente civile, vigliacco di fronte all’emergenza drammatica che si vive quotidianamente nei penitenziari italiani. Dove, secondo i dati di “Ristretti Orizzonti”, nel 2024 sono già 67 i detenuti che si sono tolti la vita (due in meno rispetto a tutto il 2023), mentre altri 98 sono deceduti per “altre cause” (ben oltre i morti registrati nell’intero anno passato). La rabbia nei confronti di una classe politica imbelle, a destra come a sinistra pronta a strumentalizzare fatti e persone per puro calcolo politico, a seconda che si trovi al governo o all’opposizione. Perché il dato incontrovertibile è che nessuno ha mai fatto niente per porre fine alla sistematica violazione dei diritti umani che si verifica nelle carceri italiane, certificata da un sovraffollamento medio del 130% e dall’insufficienza cronica di personale penitenziario e sanitario. Lo stiamo vedendo in questi giorni: ogni ipotesi deflattiva, anche di infima entità, diventa una “svuota-carceri”.
«Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo», stabilisce l’articolo 40 del codice penale, richiamato da “Nessuno tocchi Caino” nella denuncia-esposto-provocazione contro il ministro della Giustizia Nordio e i sottosegretari Delmastro Delle Vedove e Ostellari, le figure istituzionali sulle quali ricade la responsabilità della custodia dei soggetti ristretti in carcere.
Gonfiamo il petto per “la Costituzione più bella del mondo” e non siamo capaci di difenderla da chi la calpesta, nonostante dovrebbe rappresentarne spirito e applicazione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità». Umanizzazione delle pene, lo suggerisce la parola stessa, significa considerare il detenuto una persona, non un anonimo numero di matricola. Si dimentica o non si vuole comprendere che in carcere entra l’uomo, non ciò che di illecito ha commesso. Il reato resta fuori dalla recinzione, a nutrire l’autocompiacimento dei legni dritti. Chi non è mai entrato in un carcere non ha idea di quante vite un “delinquente” possa salvare, con un gesto o con una parola.
“Le” pene (non “la” pena), afferma la Costituzione. Che non dovrebbero pertanto consistere esclusivamente nella reclusione in carcere. Che potrebbero essere altro. Che sarebbe meglio fossero altro, come anche le statistiche sulle recidive suggeriscono. Misure diverse non vuol dire “tutti liberi”, né che chi sbaglia non debba pagare. Se la finalità delle pene è tutelare la sicurezza pubblica evitando il reiterarsi di comportamenti contrari alla legge, esistono oggi strumenti di controllo efficacissimi, che non richiedono necessariamente la detenzione carceraria.
Manca il coraggio per riuscire a superare la visione carcerocentrica dell’esecuzione penale. Stare dalla parte dei reietti non porta voti. Mentre si propone di costruire più strutture penitenziarie (tra due, tre anni), di carcere si muore. L’ingiustizia di una giustizia disumana è in questi numeri drammatici e nella responsabilità di chi consente afflizioni gratuite, inutili, ignobili.
La serata commemorativa in onore di Carmelo Tripodi
L’omaggio a Carmelo Tripodi, nel centocinquantesimo anniversario della nascita, è stata l’occasione per ripercorrere la storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte tra il XIX e il XX secolo. Una comunità semplice, in prevalenza composta da contadini, braccianti agricoli e pastori, pur con la presenza di un diffuso artigianato, i cui manufatti venivano venduti nei due mercati settimanali che si tenevano in piazza Purgatorio.
Quando nacque Tripodi (28 aprile 1874), Sant’Eufemia contava poco più di seimila abitanti, concentrati nel “Vecchio Abitato”, nel “Petto” e nelle campagne, prima che il terremoto del 1908 determinasse l’edificazione della vasta area denominata “Pezza Grande”. Le abitazioni erano prive di servizi e per l’approvvigionamento dell’acqua i cittadini si servivano delle fontane pubbliche e dei lavatoi, dove le massaie facevano il bucato. Di notte regnava il buio, tranne che nelle poche strade e piazze illuminate dai circa trenta lampioni ad olio che il “lampionaio” accendeva e spegneva aiutandosi con una lunga asta. Sindaco era Paolo Capoferro, cognato di quel Michele Fimmanò che dominò la scena politica e amministrativa del paese per quasi sessant’anni.
Sin da piccolo Tripodi si appassionò alla pittura e al disegno, grazie alla frequentazione della bottega d’arte di un artista locale, Giosuè Versace. Nel 1895 si iscrisse all’Accademia di Belle Arti di Messina, dove seguì gli insegnamenti di Francesco Paolo Michetti, prima di fare ritorno in paese per aprirvi uno studio di pittura, di scultura e, in seguito, di fotografia. Artista poliedrico, vincitore di premi nazionali e internazionali, il valore etico della sua attività emerge nei ritratti e nelle fotografie, in particolare negli scatti unici e straordinari che documentano il disastroso sisma del 1908.
Carmelita Tripodi, nel commentare con competenza tecnica le immagini montate da Carmela Cutrì, si è soffermata sul genio del nonno, mentre dietro al tavolo dei relatori scorrevano il “Galileo Galilei”, “Cristo sulle acque”, i ritratti di alcune donne e quello del padre, le pale di un altare, l’altare monumentale della chiesa di S. Maria delle Grazie, il disegno della vecchia “Via della Fontana” (oggi via Nucarabella) e quello della “Varia”.
Marzia Tripodi ha quindi ordinato con delicatezza da nipote ricordi e testimonianze toccanti, che hanno esaltato la cifra umana ed esistenziale del grande artista eufemiese.
Le musiche di Angela Luppino, che ha eseguito alcune arie di Puccini e Mascagni, hanno infine conferito alla serata un’atmosfera piacevole ed originale.
Omaggio a Carmelo Tripodi
Lunedì 5 agosto verrà ricordata la figura di un grande eufemiese, Carmelo Tripodi, nel centocinquantesimo anniversario della sua nascita. Pittore e scultore, le sue opere guadagnarono nel primo decennio del secolo scorso la ribalta nazionale e internazionale.
Tripodi fu artista dal “multiforme ingegno”, capace di spaziare anche nel campo della musica e, soprattutto, in quello della fotografia, che a cavallo del Novecento registrava uno sviluppo portentoso.
Ad oltre un secolo di distanza, straordinario è il valore storiografico delle fotografie che testimoniano la distruzione di Sant’Eufemia d’Aspromonte e la sofferenza della popolazione in occasione del terremoto del 1908.
L’omaggio a Tripodi avrà luogo in piazza “Giorgio La Pira”, a partire dalle ore 21.30. Un video, realizzato da Carmela Cutrì, ci farà toccare con mano la dimensione artistica di questo nostro illustre concittadino. Attorno alla sua proiezione, che sarà intervallata dal commento musicale curato da Angela Luppino, si svilupperà la conversazione con le nipoti Carmelita e Marzia Tripodi.
Le babbucce di Carminuzza
Sono nato in Australia nel mese di luglio, ed era inverno. Un inverno senza feste comandate, senza quei crudeli segnatempo carichi di malinconia per gli anni volati via, per volti e ricordi in dissolvenza. E sempre d’inverno sono arrivato, a quattro anni e mezzo, in questo paese che è diventato il mio guscio, alla vigilia di un ormai lontanissimo Natale. Non conoscevo nessuno, ma le rrughe di un tempo conoscevano i bambini prima ancora che nascessero. Così, le babbucce di lana lavorate ai ferri da Carminuzza hanno tenuto caldi i miei piedi, difendendoli dal freddo. C’era la neve: non l’avevo mai vista, né avevo mai sentito al tatto il suo gelo. Cominciai allora a sviluppare l’interesse per ciò che non conosco.
Oggi che porto sulle spalle il peso di parecchi anni in più, mi rassicura verificare intatta la curiosità di quel bambino. Lei muove tutto. Spinge a guardare dietro, oltre e in profondità. Raramente ciò che appare chiaro è verità: quando va bene è parte di una verità, che ha tante facce quante sono le angolazioni dalle quali si osservano fatti e persone. L’illusione di possederne una a portata di tasca è la presunzione di Icaro, con le sue ali di cera squagliate dal Sole.
La vita sa essere sorprendente, nel bene e nel male. È polvere e altare. La ricerca spasmodica della Felicità con la effe maiuscola crea insoddisfazione e incapacità di coglierne l’essenza, che è intrisa di normalità.
«Perché dovrebbe essere felice? Chi le ha detto che si viene al mondo per essere felici?», risponde il Cardinale al regista in crisi («Eminenza, io non sono felice»), in una celebre scena del film “8½” di Federico Fellini. Spesso siamo felici, ma non ce ne accorgiamo, salvo rimpiangere molto tempo dopo ciò che è stato, quando realizziamo di non averne saputo godere mentre la sua routine svanita si srotolava. Il paesaggio osservato sfrecciando a 180 all’ora non è uguale a quello che assaporiamo attraversandolo a piedi. La differenza sta nella fretta, nell’ansia di fare e di arrivare. Dove?
Tiziano Terzani ci ha insegnato che “contento” è un vocabolo molto più calzante di “felice”. Accontentarsi significa non sottomettersi ad un sistema che produce sempre nuovi desideri, per lo più inutili, che generano frustrazione e tristezza. È il legno al quale aggrapparsi per non affondare quando le onde incombono altissime e minacciose, pronte a travolgere tutto.
Non si può scappare dalla vita, bisogna viverla qui e ora. Inseguendo la propria serenità, cercando di rendersi utili per qualcosa o per qualcuno. Tenendo a mente – con Georges Clemenceau – che i cimiteri sono pieni di persone indispensabili. Ostinandosi ad abbracciare l’umanità delle strade storte, a trarre insegnamenti dal prossimo e da ciò che accade (perché desiderato o contro la propria volontà), dagli errori, dalla miriade degli impercettibili miracoli quotidiani.
Mantenendosi seri, senza prendersi troppo sul serio.
Quello che conta
Non credo che la felicità sia l’altra faccia del dolore, che gioia e sofferenza vadano intese in contrapposizione, né – tantomeno – che la vita possa considerarsi un gioco a somma zero, un flipper dalla pallina sballottata tra sentimenti così lontani. Talmente estremi da potersi toccare, piuttosto: una sorta di convivenza necessaria. Nonostante oggi si faccia molta fatica ad accettare ciò che genera malessere. Abbiamo confezionato un mondo perfetto e falso, e ci sguazziamo come pesci dentro l’acquario, senza neanche accorgerci di quanto le nostre menti siano offuscate dal bisogno di apparire uomini e donne felici, dalla vita piena e soddisfacente.
Da ciò che di noi facciamo vedere, celebriamo vite invidiabili. Sul posto di lavoro, in famiglia, nella società. Con la cannuccia del cocktail stretta tra i denti, spettatori di tramonti incantevoli o sotto un palco a cantare a squarciagola, passiamo da un successo all’altro. Una tensione spasmodica alla competizione e all’affermazione al fine di soddisfare l’urgenza di dimostrarci i migliori, dal momento che, nelle nostre ammirevoli esistenze, non può esserci spazio per la tristezza e per il fallimento.
Sappiamo che non è così. Ne siamo consapevoli, ma non lo accettiamo. Apparenza e reputazione sono il nuovo oppio dei popoli, una gabbia mentale dalla quale è difficile evadere. Ma lo iato fra realtà e aspettative produce frustrazione e rancore. Si fatica a valutare obiettivamente ciò che si muove attorno a noi, al di là di noi, perfino contro di noi che – chini su noi stessi – ci contempliamo l’ombelico, addirittura convinti di essere gli unici al mondo a possederne un esemplare così bello.
Andrebbe invece reclamato il diritto a non essere i migliori, a non soffrire ansie da prestazione. A rivendicare l’utilità della sconfitta nel percorso di crescita personale, la sua dignità e la grandezza morale dell’averci provato a trovare una strada. Che esiste, dietro una curva imprevista, nemmeno immaginata.
Vantiamo radici greche e dimentichiamo che gli eroi del mito sono dei perdenti: Achille, Ettore, Agamennone. Tutti mortali, tutti vinti. Angosciati e fragili.
Fragili come chi lotta ogni giorno per aggiungere tempo al proprio tempo. Eppure in grado di convivere con la sofferenza che accompagna il declino. Pronti ad amare e a sorridere, a gioire di ogni conquista in apparenza insignificante: riuscire a portare la forchetta alla bocca, muovere qualche passo, godere di un’ora d’aria, essere presenza per qualcun altro. Incantati dal prodigio di una vita ridotta alla sua essenza, che nel poco riesce ad ammirare il tutto. Capaci di bastarsi.
A Paolo
L’espressione del viso, impressa nella fotografia scattata cinquant’anni fa, conferma la frase vergata sul retro da mio padre: «I due disperati». Tre parole per esprimere con ironia l’affetto, l’amicizia, la condivisione di un riscatto cercato e trovato lontano dall’Italia, in quell’Australia che ha accolto e dato a molti italiani la possibilità di un futuro che non fosse miseria.
La notizia ci è arrivata addosso come una secchiata d’acqua gelida, nonostante il sospetto. I social sono uno strumento utile, ma in casi come questi crudele: è bastato ricordare i nomi dei figli e percorrere a ritroso la cronologia dei loro post per imbattersi in Paolo Rao sorridente accanto alla figlia Agata, a dispetto dell’annuncio della sua morte nel 2021. Da tempo non ricevevamo le sue periodiche telefonate, mentre i nostri tentativi si infrangevano contro il silenzio del suo cellulare. Lo sconvolgimento degli ultimi anni ci aveva impedito di andare più a fondo nella ricerca, ma ora, nonostante tutto, sarebbe stato il momento di una boccata d’ossigeno. Non è andata così ed è un dolore che punge, per quanto differito. Sono gli occhi di mio padre, che dicono tutto di quell’alchimia unica con Paolo e con mio zio Stefano, del vuoto lasciato da entrambi in sua assenza. L’ennesima ingiustizia.
Impetuosa è l’onda dei ricordi, che riaffiorano insieme al tono della voce di Paolo nell’imprecazione “maledetto vento!”, masticata mentre con la mano cercava di sistemarsi i capelli nel deserto australiano.
Si erano conosciuti da “Bendinelli & Carlini”, la ditta di un fiorentino e di un romano che pitturava le case a Melbourne e dintorni. Paolo di origini siciliane, mio padre dall’Aspromonte: entrambi con addosso il culto del lavoro che ha scritto le pagine più belle e dignitose dell’emigrazione italiana.
Tra le altre “imprese”, ricorreva spesso il ricordo del viaggio epico attraverso la “Nullarbor Plain”, oggi proposto nei pacchetti vacanze riservati ai turisti che amano l’avventura.
La notte di Natale del 1974 il Nord Territorio era stato devastato dal ciclone Tracy, le cui raffiche di vento raggiunsero i 240 km/h: l’80% della capitale Darwin (dove morirono 66 persone) fu distrutto, il 94% delle abitazioni dichiarato inabitabile, la stima dei danni ammontò a 837 milioni di dollari.
E a Darwin i due amici decisero di recarsi. A neanche trent’anni e con la storia che si erano lasciati alle spalle, i 9.000 km di strada da percorrere in macchina non erano fonte di apprensione.
Per ricostruire le città servivano muratori, carpentieri, idraulici, elettricisti e ovviamente imbianchini. Come loro due. Uno sguardo d’intesa e via, a bordo della possente Ford Falcon 500 di mio padre.
A Darwin non ci arrivarono. C’era da ricostruire anche a Port Hedland, in Australia Occidentale, raggiunta dopo i circa 7.000 km percorsi per tagliare da Est a Ovest e risalire a Nord. Quattro giorni a snocciolare il rosario delle città attraversate, una volta partiti da Melbourne: Adelaide, Ceduna, Norseman, Perth, Geraldton, Carnarvon, Broome. Sul tavolo, ora, tra le mie mani un cartello indica il 26° Parallelo, un altro segnala la linea del Tropico del Capricorno, Paolo pesca dalla battigia con una lenza i pesci per il sontuoso barbecue da consumare insieme agli altri operai, mio padre pennella dalla scala a forbice, entrambi sorridono con una birra in mano.
La pianura di Nullarbor si estende per oltre 1.200 km di deserto tra Ceduna a Norseman. La “Eyre Highway” che l’attraversa è una linea retta infinita e senza dislivello, dall’effetto ipnotizzante. Non essendo al tempo asfaltata, il passaggio delle auto sollevava un polverone di terra rossa e sottile capace di resistere per mesi anche ai lavaggi più accurati. Ogni 200 km circa, la presenza di una “Road House” dava la possibilità di fare rifornimento, mangiare e bere qualcosa.
A dispetto dell’etimologia (dal latino: “senza alberi”), puntini in lontananza indicavano la presenza di qualche acacia, dall’ombra delle quali potevano saltare fuori aborigeni in costume tradizionale e armati di lance, che andavano incontro all’auto con l’intento di piazzare strumenti musicali tribali (“didgeridoo”, “bullroarer”) e i “boomerang”, dopo una serie di lanci dimostrativi.
A Port Hedland soggiornarono in una roulotte per un mese e, alla fine del lavoro, rientrarono a Melbourne. Per la gioia dei bambini, anche se Fanny – nonostante i tentativi di corruzione con caramelle e cioccolatini – faticò a perdonare il capellone simpatico e pieno di vita che aveva avuto il torto di portare via suo zio.
Il voto di Peppe
«Non ce l’ho fatta a non andare a votare». Peppe ha detto proprio così, a dispetto dell’oltre 50% di italiani che, invece, a non andare ce l’ha fatta benissimo. Un astensionismo sul quale occorrerebbe una seria riflessione, se soltanto a qualcuno importassero i motivi per i quali sempre più elettori disertano le urne.
Peppe, quasi novant’anni, sul tema ha sempre avuto idee chiare, maturate in anni di duro lavoro nelle campagne e di militanza nel partito comunista. Anche se, sottolinea, oggi comunisti non ce ne sono più: «Neanche io lo sono. Mio padre era un comunista vero, non io. Nonostante le battaglie». Quel padre che Peppe seguiva all’alba, zappa in spalla, attraversando il paese – che per comodità collochiamo in Aspromonte, anche se potrebbe trovarsi in qualsiasi angolo del Meridione – per raggiungere le campagne circostanti o addirittura i comuni vicini. Per una giornata di lavoro, a zappare o a “rampare”, quando l’inclemenza del tempo non costringeva la squadra di braccianti a fare rientro a casa, a mani vuote dopo un paio d’ore di cammino all’andata e altrettante al ritorno.
Peppe non gode di ottima salute. Fino a qualche anno fa, nel suo seggio, è stato sempre il primo a votare. Quando arrivavano presidente e scrutatori, lui li aspettava già all’ingresso. Un militante d’altri tempi, che credeva nell’Idea e nella possibilità di riscatto per mezzo della scheda deposta nell’urna: «Al Partito volevo bene come a mio padre».
Questa volta Peppe non ha votato per primo, perché al seggio hanno dovuto accompagnarlo. Stava talmente male che quasi stava per svenire. E allora, in quel preciso istante, si è compiuto il miracolo del buon senso e dell’umanità. I componenti del seggio e le forze dell’ordine si sono sostituiti alla cabina elettorale e hanno fatto da paravento con le proprie spalle, consentendogli così di votare nel corridoio, seduto sulla sedia: «Non votare, per me, sarebbe come non entrare in chiesa per un credente. Lo farò finché avrò la forza di respirare».
Il dopo-voto, come sempre, è stato un profluvio di dichiarazioni azzardate, che non tengono conto della questione principale: qualsiasi percentuale fotografa una realtà minoritaria, in una nazione nella quale vota meno della metà degli aventi diritto al voto. Parole “celebrative del nulla”, direbbe De André.
Su questo vuoto e sulla disillusione che allontana soprattutto i giovani dalla politica si staglia, invece, il profondo senso civico di Peppe, il quale ci ricorda con un solo gesto e con poche parole quanto grande sia stata la conquista di un diritto oggi snobbato. Un esempio, questo sì, da celebrare.
*In foto: “I funerali di Togliatti” (Renato Guttuso)
L’incontro con Carmine Abate a “Primavera di libri”
Per onorare l’evento “Primavera di libri”, anche quest’anno il Terzo Millennio ha scelto molto bene. Non nascondo di essere un po’ di parte, perché Carmine Abate è tra i miei scrittori preferiti. Proprio per questo ho considerato un bel regalo la decisione dell’associazione di affidare a me il compito di conversare con l’autore, al quale ho sottoposto una serie di domande sul suo ultimo romanzo e sui temi centrali della sua più vasta produzione letteraria.
Come i protagonisti del romanzo, ci siamo chiesti come sia stato possibile uno scempio di tale portata. Sarebbe interessante riuscire a comprendere dove finisca il pregiudizio, che esiste e che noi calabresi subiamo quotidianamente, e dove inizi il compiacimento con il quale ci autoassolviamo da responsabilità che sono anche nostre.
Abbiamo parlato di Sud, Calabria, identità, emigrazione, dei soprusi di uno Stato spesso ostile, sin dal 1861. La vicenda narrata in “Un paese felice” è emblematica: 700.000 alberi distrutti e un borgo raso al suolo utilizzando il ricatto del posto di lavoro, in nome di uno sviluppo industriale mai iniziato, sulla base di un progetto antistorico e antieconomico già nel momento in cui il Quinto centro siderurgico veniva sbandierato come la salvezza per l’intero territorio. Troppe poche persone hanno difeso Eranova, mentre partiti e sindacati pendevano dalle labbra di Giulio Andreotti, nello storico discorso tenuto a Gioia Tauro il 25 aprile 1975.
Gli spunti di riflessione offerti dal romanzo sono stati tanti. Il rapporto con la Storia Grande, l’intreccio tra generi letterari, i riferimenti autobiografici, gli autori “omaggiati” da Abate nel romanzo: Gabriel Garcia Marquez e la sua Macondo, alla quale Eranova somiglia poiché racconta le “stesse storie di solitudine, di ingiustizie e di lotta”); Pier Paolo Pasolini e la necessità di prendere coscienza dei problemi del mondo per non fare la fine di Riccetto nel cortometraggio “La sequenza del fiore di carta”; Corrado Alvaro e la denuncia nel suo “Itinerario italiano”: «Sono pochi i paesi d’Italia che abbiano conosciuto meglio della Calabria l’ingiustizia, il sopruso, la violenza».
Mi ha colpito l’attenzione dei presenti, un atteggiamento non consueto quando si parla di libri e quasi subito cominciano a manifestarsi nell’uditorio segnali di stanchezza. Le due ore trascorse con Abate sono invece volate senza distrazioni, con grande soddisfazione per tutti: per lui (lo ha anche sottolineato), per il pubblico e per il Terzo Millennio, cui va il merito di avere organizzato un’iniziativa dal grande valore culturale.
Carmine Abate protagonista della Primavera di libri del Terzo Millennio
Per la settima edizione della “Primavera di libri” l’associazione Terzo Millennio si regala e regala alla comunità di Sant’Eufemia d’Aspromonte Carmine Abate, uno tra i maggiori scrittori contemporanei.
Nato a Carfizzi, piccolo paese arbëresh in provincia di Crotone, da giovane Abate è emigrato in Germania, prima di stabilirsi nel Trentino. Dalla Calabria, in fondo, non è però mai andato via. Nei suoi romanzi, tradotti in tutto il mondo, radici e memoria sono il collante che tengono insieme storie d’amore, di emigrazione, di rassegnazione e di ribellione. Nostalgia non fine a sé stessa, che diventa denuncia sociale quando riporta alla luce vicende drammatiche ma dimenticate o ignorate. Come nel suo ultimo romanzo, Un paese felice (Mondadori, 2023), che racconta l’utopia fallita di Eranova, il paese sorto nel 1896 da un atto di ribellione della popolazione nei confronti del marchese Nunziante di San Ferdinando e raso al suolo nella seconda metà degli anni Settanta del Novecento per fare posto, in nome del progresso, alla costruzione (mai realizzata) del quinto centro siderurgico: «Non può essere vero», ripetono tutti. Invece è stato vero.
Un romanzo corale, di malinconia e di orgoglio, nel quale tutti possono riconoscersi o riconoscere volti familiari: Lina e Lorenzo (l’io narrante che molto ha dell’autore), Mastro Cenzo e Donna Mena, Petraro e una folla anonima sulla quale si abbatte il cinismo dello Stato e di chi indirizza il corso della storia passando sopra i sentimenti, il buon senso, finanche le logiche economiche: «Sono pochi i paesi d’Italia – ricorda l’autore citando il Corrado Alvaro di Itinerario italiano – che abbiano conosciuto meglio della Calabria l’ingiustizia, il sopruso, la violenza».
Abate ha scritto romanzi entrati nella storia della letteratura: Il ballo tondo, Il mosaico del tempo grande, La collina del vento (Premio Campiello 2012), La festa del ritorno, La moto di Scanderbeg, soltanto per citare i titoli ai quali sono personalmente più affezionato.
L’incontro organizzato dall’associazione Terzo Millennio avrà luogo domenica 19 maggio alle 17.30, presso la Biblioteca comunale all’interno del Palazzo municipale. L’evento non costituisce soltanto l’occasione per ascoltare dalla voce dell’autore le considerazioni sul suo ultimo lavoro, ma si preannuncia piuttosto come un prezioso momento di crescita culturale collettiva.
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Una grande prova di generosità
Grazie anche ad un ottimo lavoro di prevendita e alla grande adesione in piazza Matteotti nella mattina di domenica 12 maggio, tutte le azalee dell’AIRC sono state distribuite dai volontari dell’Agape. Con 168 piantine, Sant’Eufemia d’Aspromonte ha conseguito nella provincia di Reggio Calabria il migliore risultato, in proporzione alla popolazione, confermandosi inoltre tra i primi comuni in termini assoluti.
Grazie a tutti per il generoso contributo in favore della ricerca per lotta contro il cancro.