La sera dei miracoli

Al civico numero 7 di vicolo del Buco, a Trastevere, una targa ricorda una delle più belle canzoni di Lucio Dalla, “La sera dei miracoli” (1980), dedicata dal cantautore bolognese a Roma, dove visse tra il 1980 e il 1986: «Una canzone – spiegò anni dopo – che ho scritto in un momento di fuoco di Roma, bellissimo in un’estate come questa, di parecchio tempo fa. Io tornai a casa, abitavo a Trastevere, mi misi al pianoforte. Avevo visto Roma incendiata da feste, da canti, da gente ubriaca bene. Da veramente un momento di grande gioia collettiva».
Gli anni di piombo stanno per finire, si comincia a respirare un desiderio di normalità, di leggerezza, di “effimero”, di vita, dopo un cupo decennio di morte. Interprete di questo sentimento di rinascita fu a Roma l’architetto Renato Nicolini, assessore alla cultura dal 1976 al 1985 nelle giunte di sinistra guidate dai sindaci Giulio Carlo Argan, Luigi Petroselli e Ugo Vetere, il quale ideò l’Estate Romana, un esperimento visionario che rivoluzionava il rapporto cultura/masse e abbatteva gli steccati tra élite e popolo con manifestazioni di piazza (spettacoli teatrali, musicali, proiezioni cinematografiche, reading) fruibili da tutti gli strati sociali.
La canzone di Lucio Dalla fa riferimento proprio al “miracolo” realizzato da Nicolini, il quale avrebbe lasciato testimonianza di quel periodo di straordinaria creatività in un prezioso volume edito da Città del Sole: Estate romana. 1976-85: un effimero lungo nove anni (2011).
“La sera dei miracoli” esprime la gioia collettiva dell’Estate Romana, ma ad un livello più alto e universale è un inno alla ripartenza nel quale chiunque può specchiarsi, sia individualmente che collettivamente. Accade ogni volta che dal profondo di ciascuno di noi sale un impellente desiderio di ricominciare a vivere e di lasciarsi alle spalle dolore, ansie e preoccupazioni.
La sera, iniziata con qualcuno intento a fare a pezzi con la bocca una canzone, con il trascorrere delle ore trasforma la città nella visione onirica, felliniana, di una nave sulle onde. Ovunque c’è gente che corre, il protagonista cerca di individuare in tutta quella confusione la propria stella: «Perché mi perderei/ se dovessi capire che stanotte non ci sei», confessa in due versi da brividi.
Il miracolo si compie nel finale, quando la notte sta per finire. Qualcuno, ora, ha sanato la frattura iniziale scrivendo una canzone, mentre “lontano una luce diventa sempre più grande” e la nave può finalmente fare ritorno per portare tutti a dormire. Con nel cuore la promessa di un nuovo inizio.

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17 luglio 1976: intitolazione della piazza “Aid Committe”

Negli anni Ottanta mi è capitato spesso di giocare all’interno della piazza “Aid Committee” (oggi “Maresciallo Azzolina”), allora poco più di una spianata tra le vie Michele Fimmanò e Tenente Rechichi, ai piedi della scalinata della chiesa di Sant’Ambrogio. Una denominazione per me misteriosa, la cui origine avrei scoperto grazie a quella miniera di informazioni storiche su Sant’Eufemia d’Aspromonte che è stata la rivista “Incontri”. A soddisfare la mia curiosità fu il compianto professore Francesco Marafioti, autore di un articolo biografico dedicato a Vincenzo Ascrizzi, presidente del comitato di aiuti italoamericano per il quale, il 17 luglio 1976, il consiglio comunale deliberò l’intitolazione della piazza.
Nato a Sant’Eufemia l’8 settembre 1904, Ascrizzi si era diplomato in ragioneria nel 1924 presso l’Istituto tecnico di Reggio Calabria, quindi era emigrato negli Stati Uniti e si era stabilito a Brooklyn, dove lavorò alle dipendenze della “Bank of America” e della “National City Bank”.
Dopo essere diventato manager della “Sunland Beverage Company”, nel 1947 aprì due agenzie di viaggio a New York e fu presidente dell’Avia Tours Inc., che aveva la rappresentanza esclusiva della “Siosa Lines” di Napoli.
“Self-made man” capace di realizzare il “sogno americano” e di dare lavoro a una ventina di dipendenti, Ascrizzi non dimenticò mai la propria terra d’origine, grazie all’intensa attività di beneficienza che caratterizzò la sua vita. Nel 1963, il presidente della Repubblica Antonio Segni gli conferì la “Stella della solidarietà di seconda classe” e il titolo di commendatore (nel 1972, ricevette la “Stella della solidarietà di prima classe” e il titolo di Grande Ufficiale); nel 1965, fu nominato cavaliere dell’Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme; nel 1968, cavaliere di Gran Croce; nel 1973, cavaliere del supremo ordine militare di Malta.
Da presidente del “Sant’Eufemia Aid Committee” (costituito a New York nel 1966) fu promotore della raccolta di fondi destinati alla ricostruzione delle chiese del paese distrutte dal terremoto del 1908, alla realizzazione del monumento ai caduti, a lavori da realizzare nella scuola media, nelle strade e nella rete idrica, all’acquisto di un’autoambulanza, al finanziamento dell’Istituto antoniano delle “Figlie del Divino Zelo”.
Le iniziative del Comitato riavvicinarono eufemiesi distanti migliaia di chilometri, facendoli sentire comunità e protagonisti di una storia condivisa.
Nel resocontare per “Incontri” la notizia dello svolgimento delle esequie, partecipate a New York da una folla immensa, il tre volte sindaco di Sant’Eufemia Diego Fedele elogiò l’uomo “di grande ingegno” che “spese la sua vita per aiutare quanti avessero bisogno”: «Fu suo vanto aver contribuito, affiancato nella sua generosa opera dal “S. Eufemia AID Commitee” di cui era presidente ed animatore, alla realizzazione in S. Eufemia di importanti opere pubbliche che si trascinavano insolute da decenni tra difficoltà insormontabili». Un “gentiluomo”, concludeva Fedele, che “sarà ricordato dagli amici anche per quel suo sorriso franco e sincero che metteva tutti a proprio agio, proprio come solamente un vero amico riesce a fare”.

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Sale la temperatura nelle carceri: sovraffollamento e carenza d’acqua

Il Dubbio, 9 luglio 2022

L’espressione “stare al fresco” appare particolarmente sadica d’estate, quando le mura delle carceri sono roventi per il sole che picchia tutto il giorno, rendendo i pochi metri quadrati delle celle un forno insopportabile. Nei penitenziari, le alte temperature elevano al quadrato la situazione emergenziale che si vive nel mondo libero, per il surplus di disagio dovuto alla totale assenza di rimedi alla calura.
All’arrivo delle prime ondate di calore, puntualmente si levano le voci dei pochi che si fanno portavoce delle problematiche carcerarie: garanti dei detenuti, associazioni radicali, chiesa, qualche avvocato.
Dietro le sbarre ogni estate è uguale alla precedente, per ignoranza: nel senso etimologico di “ignorare” una realtà drammatica che necessiterebbe di interventi strutturali.
Il “mondo di fuori” non sa niente di sovraffollamento e di carenza di acqua, con tutto ciò che ne consegue sulla qualità dell’esecuzione della pena e del grado di umanità che caratterizzano la vita carceraria. Senza contare che l’opinione prevalente è che, in ogni caso, ai detenuti “ben gli sta” soffrire: le carceri non devono essere hotel a cinque stelle. Questione culturale, certo, per il cui superamento occorrerebbe una sensibilità che non può maturare dall’oggi al domani.
Sembra assurdo, ma esistono carceri con le celle prive di docce, per cui il detenuto può accedere a quelle comuni una sola volta al giorno e in orari prestabiliti, generalmente entro le 16.00. Dopo tale orario, per rinfrescarsi occorre accontentarsi dell’acqua del lavandino o delle bottiglie, mettere continuamente a mollo le magliette e indossarle bagnate, oppure ingegnarsi nella realizzazione del cosiddetto “canotto” con i sacchi della spazzatura.
Nella stragrande maggioranza dei penitenziari non è consentito acquistare piccoli ventilatori. È già tanto se viene tollerata la copertura della finestra con i teli da doccia per attutire il passaggio dei raggi del sole. Di notte, invece, laddove i letti a castello non sono imbullonati al pavimento, vengono spostati al centro della cella, come un catafalco, per scostarli dalle pareti infuocate e potere così “godere” del refolo d’aria che soffia tra la finestra e il cancello.
Il passeggio avviene nelle fasce orarie più calde, in cortili che spesso sono torride scatole di cemento, prive di un angolo d’ombra. Molti detenuti cardiopatici, ipertesi, o semplicemente anziani, si ritrovano così a subire un’afflizione ulteriore e gratuita, poiché – giustamente – scelgono di non usufruire delle ore d’aria. Si tratta probabilmente di un problema organizzativo interno che, proprio per questo, potrebbe essere superato con una razionalizzazione del lavoro più attenta ai bisogni e ai diritti della comunità carceraria.
In molte carceri mancano i frigoriferi nelle celle e i congelatori nelle sezioni. Si beve acqua a temperatura ambiente, bollente, mentre i familiari riducono al minimo l’invio di alimenti e cibi cotti, poiché, anche a causa delle lungaggini delle consegne, andrebbero rapidamente in putrefazione.
Il giurista Piero Calamandrei ammoniva che, per rendersi conto della condizione delle carceri, bisogna averle viste. Chi ha avuto in sorte un passaggio più o meno lungo da una struttura penitenziaria ha il dovere morale e civile di non valutare quell’esperienza come una parentesi dolorosa della propria vita, da dimenticare. Per una questione di dignità: la propria e delle migliaia di detenuti ristretti nelle carceri italiane, nonché quella di uno Stato che si professa di diritto. Considerare cioè la propria detenzione il seme di una pianta che possa un giorno germogliare e dare frutti di umanità.

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5 luglio 1914, il giorno della pacificazione eufemiese

Quando si parla di “data storica” per una comunità, il rischio di scadere nella retorica è sempre in agguato. Non è il caso del 5 luglio 1914, che nella storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte segnò la fine delle aspre divisioni sulla ricostruzione del paese seguite al terremoto del 28 dicembre 1908. Il terribile sisma – che aveva provocato circa 700 vittime e la perdita dell’85% del patrimonio edilizio – ripropose la questione, già vissuta dopo il “fracello” del 5 febbraio 1783, del trasferimento dell’abitato nell’area denominata Pezza Grande. Nel 1783 prevalsero i fautori della ricostruzione nelle aree allora edificate (Paese Vecchio e Petto). Dopo il 1908 le cose andarono diversamente, determinando l’odierno assetto urbanistico del paese con i suoi tre grandi rioni: Paese Vecchio, Petto e, appunto, Pezza Grande. Anche nella riedizione di quel drammatico scontro la polemica tra i sostenitori delle due contrapposte tesi fu violentissima. Da un lato si trovarono gli ex sindaci Francesco Capoferro, Antonino Condina-Occhiuto e il medico condotto nonché grande oratore Bruno Gioffré, che incendiava gli animi degli eufemiesi invitandoli alla resistenza. Nel campo opposto svettava la prestigiosa figura dell’anziano commendatore Michele Fimmanò, per oltre sessant’anni dominatore assoluto della scena politica eufemiese e regista delle elezioni comunali che a maggio 1910 incoronarono sindaco il notaio Pietro Pentimalli.
Il 14 ottobre 1911 la giunta guidata da Pentimalli inviò al presidente del consiglio Giovanni Giolitti e al ministro dei lavori pubblici Ettore Sacchi un promemoria (“Per la riedificazione di Santeufemia d’Aspromonte”) a sostegno del trasferimento del paese nel nuovo sito, che andava a confutare le ragioni del fronte opposto, compendiate nel parere espresso due anni prima dal geografo Mario Baratta (“Per la ricostruzione di Sant’Eufemia d’Aspromonte distrutta dal terremoto del 28 dicembre 1908”). Il governo nazionale sposò la linea di Fimmanò e di Pentimalli, il quale aveva comunque accordato alcune eccezioni provvisorie, in attesa dell’approvazione del piano regolatore. Ma nonostante l’apertura del sindaco, la tensione tra gli schieramenti in campo raggiunse livelli di guardia così alti che più volte rischiò di scapparci addirittura il morto.
Il pericolo di una deriva drammatica convinse “i migliori elementi delle due parti” a sedersi attorno ad un tavolo per trovare una sintesi, che fu concordata con il deputato reggino Giuseppe De Nava, garante ministeriale di un’operazione che teneva insieme tutto: rielezione di Pentimalli nelle elezioni comunali del 1914, edificazione del paese nella nuova area e abrogazione del divieto di ricostruzione nelle aree distrutte dal terremoto.
Probabilmente mai più gli eufemiesi sono riusciti a fornire una lezione così alta di unità di intenti. Gli individualismi furono messi al bando da una generazione responsabile che trovò nel sindaco Pentimalli una guida illuminata (il quale meriterebbe un approfondito e specifico studio biografico), capace di portare fuori dalle tenebre un popolo distrutto moralmente e materialmente. Esempio fulgido di come, di fronte alle avversità, occorre fare quadrato se si vuole dare prova di maturità e di una visione nobile, non condizionata da interessi e ambizioni personali.
Ecco perché la chiusura del discorso pronunciato da Pentimalli il 5 luglio 1914, giorno della posa della prima pietra del nuovo palazzo municipale, rappresenta un inno alla concordia e all’amore per il superiore bene comune che sempre dovrebbero animare chi ha l’onore di rappresentare la comunità nelle istituzioni: «Attorno a questa pietra, come attorno ad un’ara, deponemmo, in sacrificio magnifico, tutte le nostre passioni, purificando l’anima nel più sublime ideale che arrida agli umani: l’amore della nativa terra. Sia fatidica la data che accomuna la rinascita della nostra città a quella degli spiriti composti a feconda pace».

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Il custode delle parole

Anche nell’Aspromonte c’è stato un tempo in cui, come nella Macondo di Gabriel Garcia Màrquez, “il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito”. Ogni cosa ebbe poi un nome, ma, più tardi, i nomi furono cancellati e con essi la civiltà che li aveva prodotti, esito funesto del processo di omologazione culturale denunciato da Pier Paolo Pasolini mezzo secolo fa, che spazzò via i dialetti e ridusse “tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell’espressività”.
Il nuovo romanzo di Gioacchino Criaco (Il custode delle parole, edito da Feltrinelli) è un libro dalle molteplici suggestioni. Riecheggia il monito di Corrado Alvaro sulla “civiltà che scompare” e sulla quale “non c’è da piangere, ma bisogna trarre, chi ci è nato, il maggior numero di memorie”. Criaco non piange, anzi indica la via di una possibile rinascita offrendo al lettore, alla maniera dell’ottico “mercante di luce” di Edgar Lee Masters e Fabrizio De Andrè, le lenti speciali per “rubare il sole” e consentire a chi avrà freddo di riscaldarsi: verbo che, non a caso, nel grecanico ha la stessa etimologia del termine “cuore”.
Il custode delle parole è un poema sull’Aspromonte tutt’altro che incline al compiacimento o al vittimismo. Ci è stato rubato tutto, perché noi per primi ci siamo svenduti e abbiamo rinunciato a tutto. Perché abbiamo fatto la fine degli indiani d’America, fregati “con un po’ di acqua di fuoco e un mucchio di perline colorate”: questa la sorte dei pastori africoti deportati sul mare dopo l’alluvione del 1951 e lì costretti a vivere, rinunciando alla propria identità montanara. Le responsabilità dello scippo vanno equamente divise tra noi e “loro”, i nemici della Calabria. Ci siamo fatti scippare le parole, ma “se a un popolo rubano le parole, quel popolo è morto. E la nostra gente non vive più già da qualche secolo: è morta e non lo sa”.
Passaggio obbligato del riscatto deve essere dunque la riappropriazione di un linguaggio e di una storia millenari, che nel romanzo hanno il volto di Andrìa Amèroto. Il vecchio pastore che sabota le dighe e sa cosa è giusto fare – anche se quel giusto è “troppo difficile da praticare”, perché “qui tutti siamo colpevoli per la legge, retti e loschi” – ha realizzato il suo sogno di libertà tra gli alberi dell’Aspromonte. Ascoltando anche i silenzi, in uno spazio dove nessuno può dirgli cosa deve fare, e vivendo pienamente la propria storia: quella di custode delle parole “per un popolo che le ha perse e vaga, negli anfratti delle nuvole”. Parole che “mette in un piatto e gli apre la pancia con il coltello”.
Cosa fare della propria vita, invece, non lo sa il nipote (Andrìa, come il nonno), lavoratore precario in un call center insieme alla battagliera fidanzata Caterina, nata in Francia da genitori emigrati e ritornata nella Locride. Fino a quando non salva il profugo libico Yidir, il quale diventa aiutante del nonno, che lo tiene clandestinamente con sé. La lenta presa di coscienza consentirà al giovane Andrìa di superare il lacerante conflitto interiore tra restare e partire, che in fondo sono due facce dello stesso coraggio.
Per costruire il futuro, è necessario recuperare il passato nella sua autenticità ed originalità. Si può così scoprire l’inganno non puramente semantico di una montagna lucente che altri hanno decisa aspra e ostile, distorcendone l’etimologia. O che la morte stessa può rappresentare un inizio, poiché i vocaboli morire e volare, nel greco aspromontano, sono quasi identici: “al posto di morire si può dire volare. E chi vola non muore mai”.

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La sconfitta referendaria

L’astensione al referendum sulla giustizia è stata talmente alta che tutte le ragioni di un fallimento di così vasta portata sono probabilmente valide. Una considerazione di carattere preliminare, che esula dai temi dei quesiti, va comunque fatta: dal 1997 ad oggi si sono tenuti nove referendum abrogativi e soltanto una volta (2011) il quorum è stato raggiunto. A testimonianza dello scarso appeal dello strumento di democrazia diretta previsto dalla Costituzione, almeno così com’è strutturato.
Poi, ovviamente, esistono ragioni più contingenti. Dalla selezione dei quesiti operata dalla Corte costituzionale, che ha cassato quelli che avrebbero “tirato” di più, alla scelta della data nella quale gli italiani sono stati chiamati alle urne, allo svolgimento della votazione in un’unica giornata, al silenziamento del dibattito politico operato dai mezzi di informazione. Senza dimenticare che la disaffezione degli italiani al voto viene ormai confermata ad ogni appuntamento elettorale da diversi anni. Basti pensare ad elezioni amministrative che, domenica, hanno registrato la partecipazione di neanche il 50% degli aventi diritto al voto. L’astensione fisiologica e l’indicazione di disertare le urne hanno così consentito di centrare con facilità l’obiettivo di fare saltare il referendum.
Per raggiungere il quorum sarebbe stata necessaria una mobilitazione massiccia, impossibile senza il coinvolgimento delle strutture partitiche. Che non c’è stata per le posizioni contrarie o pilatesche dei maggiori partiti politici. Neanche la Lega, che pure era tra i promotori del referendum, ha dato segni di vita, a differenza di quando furono raccolte le firme. A conferma di quanto quella iniziativa fosse stata essenzialmente strumentale, come molte altre di Salvini sui più svariati temi politici. D’altronde, non è una novità che il leader della Lega sia capace di sostenere oggi una posizione e l’indomani il suo contrario. Con il risultato di non avere alcuna credibilità e di generare soltanto confusione: non si può essere lunedì manettari e martedì dimostrarsi sensibili al tema dell’iniquità della carcerazione preventiva. Oltretutto, laddove c’era da eleggere un sindaco, gli esponenti della Lega hanno preferito concentrare le proprie forze sulla campagna elettorale per le amministrative.
Mi sento di escludere che la “colpa” sia degli elettori che domenica hanno preferito andare al mare. Se gli italiani non hanno compreso l’importanza delle questioni sulle quali avrebbero dovuto esprimersi, vuol dire che il messaggio, per le ragioni già espresse, non è passato.
Ciò non toglie che le questioni dello stato di diritto e del funzionamento della giustizia in Italia rimangono di stretta attualità. Non bisogna arretrare, anzi è di vitale importanza proseguire in una battaglia che riguarda tutti, anche gli otto italiani su dieci che in questa circostanza hanno preferito fare altro.

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Perché voterò sì ai referendum – Intervista a StrettoWeb

“Io, arrestato ingiustamente, voterò sì al referendum Giustizia e vi spiego il perché”
Il referendum Giustizia è alle porte: “non si tratta di tifare per magistrati o garantisti, ma di creare le condizioni affinché la giustizia funzioni”

La carcerazione preventiva è quella cosa per la quale tu finisci in carcere anche se forse non hai commesso il reato che ti viene contestato: accade così una volta su due. Uno dei motivi che giustifica la carcerazione preventiva è la possibilità che l’accusato possa commettere nuovamente lo stesso reato. Quel reato che una volta su due non è stato commesso. Cioè, resti in carcere (mesi, anni) perché potresti commettere nuovamente un reato che non hai mai commesso. Un’assurdità totale: si dovrebbe andare in carcere solo se colti in flagranza di reato o dopo l’accertamento processuale. Esiste un provvedimento più antidemocratico e liberticida, basato sul sospetto e sul pregiudizio? Il quesito referendario numero 2 abroga questa nefandezza giuridica. E francamente mi indigna che si debba ricorrere al referendum per cancellare una norma tipica dei regimi dittatoriali, non di uno Stato di diritto quale l’Italia dovrebbe essere”. E’ quanto scritto, sulla propria pagina Facebook, da Domenico Forgione, storico, ricercatore, ex consigliere comunale di Sant’Eufemia d’Aspromonte, finito suo malgrado in un calderone di arresti effettuati nel comune aspromontano nel febbraio del 2020, a seguito dell’operazione Eyphemos condotta dalla Procura di Reggio Calabria.
Forgione, che si era fin da subito dichiarato innocente e completamente estraneo ai fatti, era stato arrestato e aveva scontato buona parte della sua pena preventiva in Campania. La sua scarcerazione, come vi avevamo raccontato in un articolo del 18 gennaio 2021, era avvenuta dopo 7 mesi. La posizione di Domenico Forgione è completamente caduta: si è trattato di uno scambio di persona. Tutto qui, semplicemente, ma intanto il suo volto, il suo nome, la sua storia, erano finiti su tutti i giornali. E il suo caso non è l‘unico scambio di persona già appurato nel contesto dell’operazione Eyphemos.
Data la vicenda, dato il vissuto personale, dati i tanti nodi ancora da sciogliere sull’operazione che ha visto in manette parte dell’amministrazione comunale di Sant’Eufemia d’Aspromonte e che è costata lo scioglimento del comune e il conseguente commissariamento, abbiamo chiesto proprio a Domenico Forgione le sue personali ragioni del Sì, in vista del prossimo referendum Giustizia per il quale saremo chiamati a votare domenica 12 giugno.
Il referendum in questione va considerato non in contrapposizione alla magistratura, ma come una spinta al Parlamento e alla politica italiana affinché si intraprenda una riforma sostanziale per la quale questo referendum è anche insufficiente, se vogliamo, ma è pur sempre un inizio per provare almeno a spronare una classe politica inerte: l’Italia è il Paese che più volte è stato richiamato dall’Unione Europea proprio per la cattiva amministrazione della giustizia”, spiega Domenico Forgione ai microfoni di StrettoWeb.
Nello specifico, in merito al quesito che andrebbe a modificare gli effetti della Legge Severino, Forgione precisa come il quesito stesso sia stato posto in maniera piuttosto equivoca: “se dovesse vincere il sì non avremo amministratori corrotti legittimati ad amministrare. Tocca alla discrezionalità del giudice stabilire se un amministratore debba decadere o meno. Chi viene condannato in primo grado di giudizio, per la Costituzione Italiana, non è ancora un colpevole, ma per i pubblici amministratori di fatto non è così. In sostanza la presunzione di innocenza, per un amministratore, attualmente non esiste. E il punto è proprio questo: c’è disparità di trattamento tra cittadino comune e amministratore”. Una stortura, questa, che va necessariamente limata secondo i sostenitori del Sì.
Forgione ha anche precisato le ragioni per cui voterà Sì al quesito numero 2, ovvero quello che ha lo scopo di limitare gli abusi della custodia cautelare. “I motivi per cui viene applicata la custodia cautelare – ci spiega il ricercatore storico – sono tre: pericolo di fuga, inquinamento delle prove e reiterazione del reato. Il referendum si concentra su quest’ultimo punto”. La propaganda a favore del no fa leva, anche in questo caso, su un equivoco: se abroghi questo articolo vedrai i delinquenti a spasso. Di fatto, anche in questo caso non è così. “Intanto – precisa Forgione – i reati gravi vengono tenuti fuori da tutto questo, perché stiamo parlando solo di reati che prevedono pene al di sotto dei 4 anni. Inoltre c’è il discorso del pregiudizio: siamo ancora in un momento in cui non è accertata la responsabilità del reato, e siamo quindi in presenza di un paradosso; la legge va a incidere sul fatto che un imputato, il quale forse ha commesso un reato, lo possa ricommettere. E il tutto senza aver ancora appurato se il reato sia stato commesso o meno”.
Anche i promotori del referendum – spiega Forgione – si guardano bene dall’andare a fondo sul discorso delle ingiuste detenzioni, le quali sono a livelli esorbitanti nel nostro Paese: si parla di 1000 casi in un anno, ma questa cifra riguarda solo quelle già risarcite”. Dal 1992 al 31 dicembre 2021, infatti, si sono registrati 30.017 casi di ingiuste detenzioni: vuol dire che, in media, si sono registrati poco più di 1000 innocenti in custodia cautelare ogni anno. Alla base della piramide, però, c’è ancora tutto un ‘sommerso’ che non è tenuto in considerazione in questo conteggio. “Inoltre – precisa Domenico – il referendum non tocca quel reato per cui si viene arrestati più ingiustamente, ovvero l’associazione mafiosa. Per lo più, infatti, le ingiuste detenzioni riguardano reati afferenti al 416bis. Ciò però non significa che chi evidenzia questo problema sia a favore della criminalità. E’ solo un modo per dire che evidentemente la legislazione emergenziale non funziona, visto che abbiamo tutti questi casi di innocenti arrestati, e quindi forse andrebbe rivista. Ma questa, purtroppo, non è materia che entra nel referendum. Chissà, forse viene messo in conto che in distretti giudiziari come la Calabria è normale che vi siano situazioni di questo genere”, chiosa Forgione con amara ironia.
In verità, secondo Domenico Forgione e non solo, queste riforme avrebbe dovuto attuarle il Parlamento. “Se avesse voluto (il Parlamento, ndr) avrebbe affrontato direttamente le questioni, ma da ‘Mani pulite’ in poi nel nostro Paese regna un clima di facile giustizialismo che non consente un dibattito sereno. Perché qua non si tratta di tifare per magistrati o garantisti, ma di creare le condizioni affinché la giustizia funzioni. E attualmente in Italia non funziona, tanto che negli ultimi anni l’indice di gradimento si è abbassato notevolmente. Toccare questo tema pubblicamente, però, è impopolare, perché il parlamentare o il gruppo politico che si fa carico di queste battaglie viene percepito male da un’opinione pubblica avvelenata da 30 anni di giustizialismo. Basti pensare che anche per il prossimo referendum il quesito più importante, ovvero quello della responsabilità civile dei magistrati, è stato cassato”, conclude Forgione.

Intervista realizzata da Monia Sangermano per StrettoWeb, 9 giugno 2022 (qui per il link originale)

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Buon compleanno, Maestro Tripodi

“L’Aspromontano”, appellativo con il quale il pittore Domenico Antonio Tripodi è noto nei circoli culturali nazionali e internazionali, non ha mai nascosto le sue origini, che affondano le radici nella “Nucarabella”, una delle zone più antiche del paese. Accanto alla fontana e al pubblico lavatoio dove le donne si recavano con bumbuli e cortare da riempire d’acqua e per fare il bucato, mentre gli uomini, la sera, godevano della ritemprante frescura della fiumara, al termine di una dura giornata di lavoro nei campi.
Domenico Antonio Tripodi, che oggi compie 92 anni, è nato in una delle poche abitazioni non rase al suolo il 28 dicembre 1908, casa e bottega d’arte del padre, Carmelo, che fu pittore, scultore, musico e fotografo (suoi gli scatti con le immagini spaventose del disastro provocato dal terremoto). Crebbe nella stradina dalla quale, nel 1906, erano partite sopra un carretto trainato dai muli “Galileo Galileo” e “Sant’Antonio abate”, due opere del padre premiate all’Esposizione Campionaria Internazionale di Palermo e successivamente presentate all’Esposizione Internazionale di Parigi, dove a Carmelo (componente della Giuria d’Onore nel 1912-1913) fu conferita una medaglia d’oro.
Partendo dal pavimento in tavole della casa di via Nucarabella, sul quale riproduceva con un pezzo di carbone sottratto al braciere i disegni che il padre eseguiva al cavalletto, Domenico Antonio Tripodi (il quale, dopo avere girato l’Italia, dal 1995 risiede a Roma) ha conquistato il mondo. Le sue opere sono state esposte a New York, Tokio, Istanbul, Parigi, Londra, Stoccolma, Mosca e in tante altre città del continente, ottenendo riconoscimenti, premi e il giudizio entusiasta della critica sui tre periodi della sua lunga carriera artistica: il mito e l’uomo (culminato con “Il filosofo”), la natura e, infine, il monumentale ciclo pittorico dedicato a Dante (150 opere, tra disegni e pitture).
Da anni si dedica inoltre ad un prezioso lavoro di riscoperta e valorizzazione della “dinastia dei Tripodi” (secondo l’efficace definizione di un quotidiano romano): il padre Carmelo, ma anche i fratelli Graziadei (restauratore, tra gli altri, di Giotto, Solimena e Cavallini) e Agostino, meno noto al grande pubblico.
Domenico Antonio Tripodi è un uomo mite e gentile, capace di incantare l’interlocutore con il fascino di una cultura vastissima, impreziosita da raffinate citazioni letterarie. Il nostro rapporto è fatto di lunghe telefonate, di pacchi postali contenenti ritagli di giornali, fascicoli e libri accompagnati da lettere intinte nell’inchiostro di una cortesia, di un garbo e di un’umiltà d’altri tempi.
Ma Tripodi è soprattutto il più grande ambasciatore eufemiese in Italia e all’estero: «Porto avanti il nome di Sant’Eufemia nel mondo», ripete sempre, rimarcando con orgoglio le sue radici.
Per questo noi eufemiesi non dovremmo mai smettere di ringraziarlo.
Buon compleanno, Maestro.

*Nel mio ultimo libro (“Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età contemporanea”) ho dedicato tre distinti paragrafi a Carmelo, Domenico Antonio e Graziadei Tripodi.

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Quando il custode non custodisce

Stamattina l’acqua che scendeva dal rubinetto aveva un poco rassicurante colore marrone. Ho pensato: «Chissà se qualcuno ha già chiamato per segnalare il problema». Che al comune sia arrivata o meno una telefonata, l’inconveniente è durato poco tempo.
Ci sono posti, nella nostra civilissima Italia, dove le cose non funzionano così. L’acqua sgorga costantemente mista a terra, ma farlo presente alle autorità competenti è fatica sprecata. È il caso della casa circondariale “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere. Molti sono a conoscenza di questa vergogna e, qualche volta, la questione ha guadagnato spazio pure sui giornali. Senza tuttavia produrre alcuna iniziativa eclatante. Nell’indifferenza generale, i detenuti continuano a lavarsi con l’acqua sporca e a cucinare con l’acqua minerale. Da anni e chissà per quanti anni ancora.
Non è vero che il carcere non ci riguarda. Noi cittadini siamo lo Stato. E lo Stato ha il dovere di “custodire” chi finisce dietro le sbarre. Ciò comporta un alto grado di responsabilità, alla quale sfugge chi calpesta la dignità dei detenuti che gli vengono affidati, per un periodo più o meno lungo. Così come non lo adempie ogni volta che un detenuto si toglie la vita: 54 nel 2021, 61 nel 2020, 25 nei primi cinque mesi del 2022. Custodia, per definizione, è l’attività di sorvegliare, avere cura, assistere cose o persone.
Politici, avvocati e la cosiddetta “società civile” dovrebbero incatenarsi ai cancelli del carcere di Santa Maria Capua Vetere e urlare “da qua non ce ne andiamo fino a quando, là dentro, dai rubinetti non scenderà acqua potabile e trasparente”.
Senza girarci intorno: quella struttura andrebbe chiusa perché non rispetta la dignità umana. Ma è un abbaiare alla luna, se non si riesce a dare voce a chi non ha voce: «Quello che non si sa – scrisse Enzo Tortora (del quale oggi ricorre il trentaquattresimo anniversario della morte) in una delle sue Lettere dal carcere – è che una volta gettati in galera non si è più cittadini ma pietre, pietre senza suono, senza voce, che a poco a poco si ricoprono di muschio. Una coltre che ti copre con atroce indifferenza. E il mondo gira, indifferente a questa infamia».

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14 maggio 1976: il giorno in cui Sant’Eufemia uscì da un incubo

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Il 14 maggio 1976 segnò per Sant’Eufemia il risveglio da un incubo, condensato nelle lacrime di una donna inginocchiata in mezzo alla strada: «La Madonna ha fatto il miracolo. Il nostro medico è ritornato a casa sano e salvo». Dopo 77 giorni veniva restituito agli affetti familiari e alla comunità eufemiese il medico condotto Giuseppe Chirico (1915-1995), che all’alba era stato rilasciato dai sequestratori lungo la strada provinciale tra i Piani di Carmelia e l’abitato di Delianuova. Alle sette di mattina una folla immensa abbracciò “Don Pepè”, appena sceso dall’auto dei carabinieri che lo aveva riaccompagnato a casa.
Ho scritto di Giuseppe Chirico in diverse occasioni e mi onoro di avere curato il testo del documentario realizzato nel 2001 dalla Pro Loco eufemiese, per l’assegnazione “alla memoria” del Premio Solidarietà “Ginestra”. Don Pepè è tra le personalità più amate nella storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Per l’umiltà, l’umanità e il senso del dovere: qualità proprie di chi fa della professione una missione al servizio della collettività.
È stato pertanto per me naturale riservare a Chirico un paragrafo del libro Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età contemporanea, integrando il materiale documentario già in mio possesso con i servizi giornalistici realizzati per la Gazzetta del Sud da Giuseppe Toscano e Luigi Malafarina (che lo intervistò “a caldo”, subito dopo il rilascio), ma soprattutto raccogliendo l’inedita testimonianza del figlio Gaetano sui tragici giorni del sequestro e sul rapporto d’amore del padre con i suoi concittadini: «Mi portava spesso da piccolo con sé alle visite a domicilio con la sua mitica Fiat 500 bianca. Lì mi accorgevo dell’affetto e del calore di cui veniva circondato dai suoi pazienti e dai familiari, affetto da lui ricambiato».
Proprio per questo, il rapimento provocò uno shock collettivo. Un tradimento, una intollerabile vigliaccata contro un uomo e un professionista esemplare che non conosceva orari di lavoro, “reperibile” giorno e notte, come ricorda il suo amico professore Giuseppe Calarco nel documentario: «Eravamo soliti fare la passeggiata serale. Ricordo che capitava che venisse chiamato per soccorrere qualcuno: senza scomporsi, salutava e col sorriso di sempre si allontanava per fare, come diceva lui, il suo dovere». E infatti, quando la banda dei sequestratori entrò in azione (intorno alle ore 21 del 27 febbraio), Don Pepè stava effettuando il consueto giro serale, con in tasca qualche caramella da offrire ai bambini da visitare a domicilio.
«Guardate come hanno ridotto il nostro medico», urlò un’altra donna vedendo Don Pepè con la barba lunga e incerto nei passi, a causa dei due mesi e mezzo trascorsi per lo più bendato e legato ad una catena. Un’immagine che ancora oggi commuove, al pari dell’intervento del professore Luigi Crea in occasione del conferimento al dottore Chirico del “Premio Sant’Ambrogio” (dicembre 1990): «Sono tanti quelli di cui Lei ha ascoltato il primo vagito e che adesso La ringraziano; sono tanti quelli a cui Lei ha donato la salute del corpo, contribuendo così anche a rendere l’animo più sereno e che adesso La ringraziano; sono tanti quelli che hanno aspettato con ansia il Suo arrivo nella loro casa, sentendosi confortati dalla Sua sola presenza, e che adesso La ringraziano; sono tanti quelli che, in momento di difficoltà materiale e spirituale, si sono rivolti a Lei sicuri di essere ascoltati e capiti e che adesso La ringraziano; sono stati tanti quelli che, prima di chiudere gli occhi alla vita terrena, L’hanno ringraziata, rasserenati dall’amorosa e quasi paterna Sua presenza al loro capezzale. Sembra quasi che anche le case, le strade, gli angoli dei rioni, abituati da sempre a vedere la Sua figura girare instancabilmente in ogni momento del giorno e della notte, vogliano unirsi a noi in questo momento per esprimere il loro grazie. […] Non possiamo però prima non chiederle scusa se in questi cinquant’anni, a volte, non Le abbiamo usato il rispetto che Lei meritava. Soprattutto vogliamo chiederLe scusa per quei vergognosi settantasette giorni che tutti noi cittadini non abbiamo saputo evitarLe. Nei momenti di riflessione e di ricordi, quando persone, avvenimenti Le scorreranno davanti agli occhi, facendoLe rivivere la Sua vita passata, non si fermi, Dottore, su quei tristi giorni, quanto piuttosto sulla gioia che invase tutto il paese per il suo ritorno a casa».

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