Altri dodici giorni e avrebbe compiuto trent’anni. Chissà se Carlo Muscari pensò a quell’imminente anniversario, mentre infilava la testa dentro al cappio in piazza Mercato, a Napoli, il 6 marzo del 1800. Tra gli ultimi patrioti della Repubblica Napoletana ad essere giustiziato, Muscari era nato a Sant’Eufemia il 18 marzo 1770 da Francesco e Lavinia Pugliatti. Il padre apparteneva ad una ricca ed aristocratica famiglia di proprietari terrieri originaria di Melicuccà, la madre era una nobildonna reggina. Compiuti gli studi ginnasiali a Roma sotto la guida dello zio Giuseppe Maria Muscari, intimo di Pio VI e di Sant’Alfonso de’ Liguori, si laureò in legge a Napoli, dove viveva il fratello maggiore Giuseppe, avvocato, che curò anche la formazione di un altro fratello, Gregorio. Nella capitale borbonica frequentò gli ambienti massonici e nel 1794 fu coinvolto in una congiura giacobina che gli procurò l’arresto e la reclusione nel carcere della Vicaria, con l’accusa di “asportazione d’armi proibite, bestemmie, miscredenze, violenze ed altri eccessi”, oltre che per il possesso di “alcuni libri sediziosi francesi”. Messo in libertà dietro il pagamento di una cauzione di 1.000 ducati, subì un altro deferimento tra il 1795 e il 1797.
Con l’arrivo dei francesi a Napoli e la fuga del re Ferdinando IV, Carlo Muscari fu tra i protagonisti degli eventi che portarono alla proclamazione della Repubblica Napoletana, a gennaio del 1799. Inizialmente ebbe il comando della II compagnia della I legione, con il grado di capitano; successivamente, passò prima alla II legione come capo battaglione e infine fu comandante della Legione “Bruzia”, che contava 500 fanti e 200 cavalieri.
Il 20 gennaio 1799 partecipò alla presa del castello di Sant’Elmo e alle operazioni che sancirono la vittoria degli insorti filofrancesi, mentre a marzo si distinse nello scontro contro i filoborbonici di Torre Annunziata. Membro della “Commissione pel piano delle Finanze”, insieme al fratello Gregorio fu inoltre componente della Commissione “degl’informi” (23 marzo), che si occupava dell’epurazione dell’apparato burocratico borbonico.
Nel frattempo, anche il quarto fratello Muscari, Mercurio, era scappato da Sant’Eufemia in seguito al saccheggio ed al tentativo di incendio della propria abitazione da parte delle truppe sanfediste che stavano risalendo la Calabria e raggiunse i fratelli a Napoli. La guerra civile stava però cambiando segno. Dopo la capitolazione dei giacobini nella difesa del forte di Vigliena (13 giugno 1799), le truppe del cardinale Ruffo guadagnarono il controllo della città. Carlo, Gregorio e Giuseppe Muscari si asserragliarono nei Castelli. Mercurio, che inizialmente aveva trovato rifugio in un convento, da lì fu costretto a scappare travestito da frate, ma fu riconosciuto e arrestato.
Il trattato di capitolazione sottoscritto il 19 giugno concedeva agli insorti la facoltà di trasferirsi in Francia. Ma cinque giorni dopo sbarcò a Napoli l’ammiraglio Nelson, il quale come primo atto ordinò la sospensione del trattato. Cosicché dal vascello inglese “Audace”, dove aveva ottenuto di trasferirsi insieme ad altri patrioti calabresi che avevano scelto l’esilio e che era pronto a salpare verso la Francia, Carlo Muscari fu trasbordato sulla corvetta borbonica “Stabia”, riportato a terra e “fatto transitare assieme a tanti altri per le vie di Napoli con un collare al collo” prima di essere imprigionato nei Castelli del Carmine e Castelnuovo, in attesa del processo.
Tra le lettere della fitta corrispondenza intercorsa tra Ferdinando IV di Borbone e il cardinale Ruffo, ad agosto, una fa riferimento al condannato eufemiese: «Il Re ha risoluto, e vuole che la Suprema Giunta di Stato proceda in giustizia, e giudichi con tutto il rigore delle leggi i seguenti rei di Stato: Carlo Muscari, Michele Filangieri, Pietro Doria».
Per lo storico Vincenzo Cuoco la condanna a morte di Muscari, emessa il 27 gennaio 1800, è paradigmatica del clima giustizialista instauratosi con il ritorno dei Borboni: «Le sentenze erano fatte prima del giudizio. Chi era destinato alla morte doveva morire […]. Dal processo di Muscari nulla si rilevava che potesse farlo condannare; ma troppo zelo avea dimostrato Muscari per la Repubblica, e si voleva morto. La Giunta, dicesi, ebbe ordine di sospender la sentenza assolutoria e di non decidere la causa finché non si fosse trovata una causa di morte. A capo di due mesi è facile indovinare che questa causa si trovò».
Ferdinando IV di Borbone, con la “reale determinazione” del 14 febbraio riconfermò la sentenza di morte. Eseguita la sentenza, la salma fu poi sepolta nella chiesa di Santa Caterina ai Funari.
Nel centenario della morte il presidente del consiglio provinciale di Reggio Calabria, l’eufemiese Michele Fimmanò, tenne il discorso commemorativo che si concluse con la collocazione, all’interno del municipio di Sant’Eufemia, di una lapide in marmo con sopra scolpite le parole dettate da Vittorio Visalli: «Tradita la fede dei patti/ da bieca voluttà di tiranni/ CARLO MUSCARI/ milite della Repubblica Partenopea/ moriva strangolato a Napoli/ il 6 marzo 1800/ I cittadini eufemiesi dopo 100 anni/ a ricordo ed esempio».
Ridotta in macerie nel terremoto del 1908, una riproduzione dell’iscrizione fu posta alla fine degli anni Venti nel nuovo palazzo municipale, ma anch’essa andò distrutta con la demolizione dell’edificio, nella metà degli anni Ottanta.
La bandiera che non c’è
Circa un mese fa scrissi un post sugli articoli dedicati dal Corriere della Sera a Sant’Eufemia d’Aspromonte in occasione del terremoto del 28 dicembre 1908 e, sulla base delle informazioni storiche inedite così recuperate, un altro sull’attività di soccorso della nobildonna Adele Alfieri di Sostegno. Molto interessante è quello datato 13 marzo 1909, che fa riferimento al consiglio comunale del 9 marzo, nel quale l’amministrazione di Sant’Eufemia, allora retta da un commissario, deliberò di adottare quale bandiera del comune quella del municipio di Milano (croce rossa su sfondo bianco), consegnata dai volontari milanesi alla comunità eufemiese alla fine dei due mesi trascorsi in terra aspromontana:
Il Comune di S. Eufemia d’Aspromonte, quale omaggio e manifestazione di gratitudine a Milano, ha deliberato di adottare per la sua bandiera i colori della nostra città. Ottenendone l’adesione dal sindaco sen. Ponti, il Commissario prefettizio Cappelli, ne dava notizia ai cittadini di S. Eufemia, con un nobile manifesto. «Quando voi vedrete – dice questo – sventolare la candida bandiera con la Croce rossa, ricordatevi che quei colori sfolgoravano al sole della vittoria sui campi di Legnano, là dove il valore italiano, e specialmente dei milanesi, seppe piegare e sconfiggere l’oltracotanza dello straniero. Da quel dì risorse a vita nuova la bella e cara città lombarda; da quel dì crebbe nella prosperità e nella potenza la nobilissima regina della valle padana, che nell’ora della sventura vi ha soccorso con regale generosità, ed ora vi conforta permettendovi di adottare nella bandiera i suoi colori». La manifestazione di S. Eufemia d’Aspromonte, alla cui resurrezione lavora il Comitato milanese di soccorso, non poteva essere più nobile e commovente.
La notizia non è nuova, io stesso l’ho riportata in diversi miei libri. Tuttavia, nel tempo la bandiera è scomparsa da un punto di vista “istituzionale”. Lo Statuto comunale attualmente in vigore, approvato nel 2000 e successivamente modificato un paio di volte, all’articolo 6 menziona soltanto lo stemma e il gonfalone, che sono “quelli descritti dal Decreto del Presidente della Repubblica del 16 gennaio 1995”. E cioè:
STEMMA: di rosso, alla Santa Eufemia, in maestà, leggermente volta a destra, con il viso, le mani, i piedi di carnagione, aureolata d’oro, capelluta dello stesso, vestita con la lunga tunica d’argento, le spalle coperte dal manto d’azzurro, ricadente sul fianco sinistro, la Santa impugnante con la mano destra la palma del martirio, di verde, posta in palo. Ornamenti esteriori da Comune.
GONFALONE: drappo partito di bianco e di azzurro riccamente ornato di ricami d’argento e caricato dallo stemma sopra descritto con la iscrizione centrata in argento, recante la denominazione del Comune. Le parti di metallo ed i cordoni saranno argentati. L’asta verticale sarà ricoperta di velluto dei colori del drappo, alternati, con bullette argentate poste a spirale, Nella freccia sarà rappresentato lo stemma del Comune e sul gambo inciso il nome. Cravatta con nastri tricolorati dai colori nazionali frangiati d’argento.
Non conosco il motivo per cui, a differenza di tanti altri, lo Statuto comunale di Sant’Eufemia non conferisce nobiltà istituzionale alla propria bandiera. Ritengo però che spesso la forma è sostanza e che, pertanto, gli atti ufficiali possono contribuire al rafforzamento della memoria storica di una comunità. Si può rimediare e mi auguro che il sindaco Pietro Violi, al quale va il mio ringraziamento per avermi messo in contatto con Alberto Minissi (colui che mi ha fatto pervenire gli articoli del Corriere della Sera), si faccia promotore dell’iniziativa istituzionale necessaria.
Il comune di Sant’Eufemia non era infiltrato
Al netto della gioia per chi è stato restituito ai propri affetti e con la certezza che altre posizioni verranno chiarite nei successivi gradi di giudizio, un dato va sottolineato, urlato direi: l’amministrazione comunale di Sant’Eufemia d’Aspromonte non era in mano a nessuna presunta cosca.
Le figure “infiltrate” nel comune, secondo la tesi accusatoria erano cinque:
Domenico Creazzo, sindaco – assolto perché il fatto non sussiste;
Cosimo Idà, vicesindaco – assolto perché il fatto non sussiste (scambio di persona);
Angelo Alati, presidente del consiglio comunale – assolto perché il fatto non sussiste (scambio di persona);
Domenico Forgione, consigliere comunale di minoranza – archiviato al termine dell’udienza preliminare (scambio di persona);
Domenico Luppino, responsabile dell’ufficio tecnico – assolto perché il fatto non sussiste.
Il Tribunale di Palmi ha restituito l’onore al comune inteso come istituzione. Di questo va dato atto e per questo, come comunità, dobbiamo essere contenti e fieri. Il vestito che ci era stato cucito addosso non era della nostra misura. A farne le spese per quasi tre anni, ovviamente, è stata la comunità eufemiese. Che per questo non verrà mai risarcita.
Io mi auguro che questo caso eclatante dell’ingiustizia delle misure di prevenzione antimafia possa essere di aiuto per la revisione di una legge, quella sullo scioglimento dei comuni, che è semplicemente barbara e ingiusta. Fino ad ora non ne potevamo nemmeno accennare, perché si sa come funziona in questi casi: non se ne deve parlare, bisogna aspettare che la giustizia faccia il suo corso… insomma, si va avanti per frasi fatte, anche quando, soprattutto in piccoli centri come il nostro, chi ci vive conosce la verità dei fatti al di là di ciò che si legge nelle ordinanze di custodia cautelare, si scrive sui giornali, si pontifica nelle televisioni.
Io stesso, nelle interviste rilasciate dopo la mia archiviazione, un anno e mezzo fa avevo dichiarato che il comune era stato sciolto sulla base di tre scambi di persona: quella parte di intervista non è mai andata in onda. Tuttavia comprendo la cautela dei giornalisti.
Occorre trovare un modo per fare sentire il grido di dolore di un Sud che ha sì i suoi problemi, ma subisce una criminalizzazione quotidiana e indistinta. Serve una classe politica con le palle, che faccia il bene del proprio territorio, che sappia amarlo e difenderlo, senza retorica e concretamente, pronta a pagare per questo anche un prezzo molto alto.
Giornata mondiale del malato
La Giornata mondiale del malato, giunta alla trentunesima edizione, è tra le iniziative “storiche” dell’Associazione di volontariato cristiano “Agape”. Come ormai da tradizione ogni 11 febbraio, anche quest’anno i volontari si sono recati presso la struttura residenziale per anziani “Mons. Prof. Antonino Messina”, accompagnati dal parroco don Marco Larosa, il quale ha condotto la recita del Santo Rosario e impartito agli ospiti della struttura il sacramento dell’Unzione degli infermi.
Tema della trentunesima Giornata del malato è stata “la compassione come esercizio sinodale di guarigione”. Nel suo messaggio Papa Francesco ha sottolineato che «non siamo mai pronti per la malattia. E spesso nemmeno per ammettere l’avanzare dell’età. Temiamo la vulnerabilità e la pervasiva cultura del mercato ci spinge a negarla. Per la fragilità non c’è spazio. E così il male, quando irrompe e ci assale, ci lascia a terra tramortiti. Può accadere, allora, che gli altri ci abbandonino, o che paia a noi di doverli abbandonare, per non sentirci un peso nei loro confronti. Così inizia la solitudine, e ci avvelena il senso amaro di un’ingiustizia per cui sembra chiudersi anche il Cielo. […] Tutti siamo fragili e vulnerabili; tutti abbiamo bisogno di quell’attenzione compassionevole che sa fermarsi, avvicinarsi, curare e sollevare. La condizione degli infermi è quindi un appello che interrompe l’indifferenza e frena il passo di chi avanza come se non avesse sorelle e fratelli».
Fermarsi, avvicinarsi, curare e sollevare. Come il Samaritano che raccoglie per strada un uomo mezzo morto e, dopo avergli prestato le prime cure, lo porta in una locanda e lo affida all’albergatore raccomandandogli: «Abbi cura di lui».
La presidente dell’Agape, Iole Luppino, ha consegnato il dono dell’associazione alla struttura, un’aureola luminosa per la statua della Madonna di Lourdes, e la “Pergamena di Solidarietà” al Coro parrocchiale “cAntonella gioia”, che ha partecipato all’iniziativa accompagnando con canti religiosi la recita del Rosario.
Alle 18:00, presso la chiesa di Sant’Eufemia, don Marco ha infine celebrato la Santa Messa, dedicata dall’Agape ai volontari defunti, nel corso della quale è stata recitata la preghiera predisposta dall’Ufficio Nazionale per la pastorale della salute:
«Padre santo, nella nostra fragilità ci fai dono della tua misericordia: perdona i nostri peccati e aumenta la nostra fede.
Signore Gesù, che conosci il dolore e la sofferenza: accompagna la nostra esperienza di malattia e aiutaci a servirti in coloro che sono nella prova.
Spirito consolatore, che bagni ciò che è arido e sani ciò che sanguina: converti il nostro cuore perché sappiamo riconoscere i tuoi prodigi.
Maria, donna del silenzio e della presenza: sostieni le nostre fatiche e donaci di essere testimoni credibili di Cristo Risorto».
La marchesa filantropa tra i terremotati di Sant’Eufemia
Come spesso succede in Italia dopo una tragedia, alla diffusione della notizia del terremoto che il 28 dicembre 1908 aveva raso al suolo Reggio e Messina, si mise immediatamente in moto la macchina degli aiuti. Ovunque sorsero comitati di soccorso per la raccolta di beni di prima necessità e, da tutta la Penisola, sui luoghi del disastro accorsero volontari che per giorni interi scavarono anche a mani nude per trarre in salvo chi era rimasto intrappolato sotto le macerie, per estrarre i cadaveri, per puntellare le abitazioni non completamente crollate. Nei comitati massiccia fu la presenza della nobiltà lombarda, piemontese e toscana. Già il 4 gennaio 1909, il “Corriere della Sera” informava che la signora Giulia Baglia-Bambergi, presidentessa dell’Assistenza pubblica milanese, la contessina Giulia Melzi d’Eril e la contessa Emilia Giulini Airoldi, avevano rivolto un appello alle dame milanesi, affinché cooperassero alla preparazione di biancheria e alla confezione di indumenti da recapitare nel centro di raccolta allestito presso l’Istituto pedagogico forense (il riformatorio) di via Bellini a Milano. La contessa Carla Visconti di Modrone (madre del futuro regista Luchino Visconti) aveva invece messo a disposizione villa Librera, nella Bovisa, per l’eventuale ricovero dei feriti.
Nelle zone terremotate la situazione era drammatica e la tensione sempre pronta ad esplodere, tanto che gli stessi soccorritori dovettero imporsi con le cattive per ottenere la collaborazione della popolazione, timorosa che la presenza di cadaveri sotto le rovine delle case potesse scatenare un’epidemia. Una corrispondenza da Sant’Eufemia ne dava notizia sul “Corriere della Sera”, il 6 gennaio 1909: «Sono ritornato stamane a Sant’Eufemia. Il disseppellimento dei cadaveri, che è assai faticoso, continua fra l’enorme cumulo di macerie su cui la squadra milanese fa continue disinfezioni. Purtroppo, però, i morti giacciono per ore e ore, perché nessuno vuole prestarsi a trasportarli al cimitero. Non bastano gli incitamenti del Comitato, non l’esempio: bisognerebbe ricorrere alla violenza. Oggi l’ing. Zanetti di Milano dovette puntare la rivoltella su un individuo che si rifiutava di aiutarlo nel trasporto di un cadavere. E l’atto energico ebbe benefici effetti. Ma si può fare sempre così? All’ospedale mancano i mezzi, le materasse e i cuscini, e i poveri feriti sono sul duro suolo. La volenterosa squadra milanese, malgrado i gravi disagi a cui va incontro, lavora indefessamente alle demolizioni, disinfezioni e dissotterramenti. Stanotte i bravi giovani, che sono semplicemente attendati senza paglia e senza coperte per le difficoltà del trasporto, non hanno potuto a lungo stare sul suolo, perché gelava e hanno dovuto passare la notte all’aperto, davanti ad un gran fuoco».
Nello stesso articolo, il giornalista evidenziava però anche la grandezza di una nobildonna accorsa in paese insieme ai nipoti, la marchesa Adele Alfieri di Sostegno: «Un’opera che conforta assai ed è da additare a tutte le dame italiane, è quella della marchesa Alfieri di Sostegno, la quale, dalle prime ore del giorno fino ad ora avanzata, è nella tenda di medicazione fra i medici a curare i feriti. Oggi la Regina Madre le ha telegrafato, elogiandola per l’opera sua altamente filantropica e comunicandole l’invio di due suore ai suoi ordini. La marchesa Alfieri ha, dal canto suo, rivolta preghiera alla Principessa Letizia [figlia di Giuseppe Carlo Bonaparte e Maria Clotilde di Savoia, primogenita del primo re d’Italia, Vittorio Emanuele II] perché le mandi una automobile per poter spiegare più facilmente la sua attività».
Ma chi era Adele Alfieri di Sostegno? Figlia di Carlo Alfieri di Sostegno e Giuseppina Benso di Cavour, per parte materna era nipote di Gustavo, fratello dello statista Camillo Benso di Cavour; il nonno paterno era invece Cesare Alfieri di Sostegno, primo ministro, presidente del Senato del regno di Sardegna e, dopo l’unificazione, senatore del regno d’Italia; nonché cugino di Vittorio Alfieri. Potendo contare sull’eredità di un vasto patrimonio, Adele e la sorella Luisa, moglie del più volte ministro degli esteri marchese Emilio Visconti Venosta, furono molto attive nel campo della beneficienza. Adele istituì in Italia e all’estero scuole materne, scuole elementari, laboratori femminili di cucito e promosse la raccolta di fondi per gli emigrati all’estero. Coltivò inoltre con il grande meridionalista Pasquale Villari un rapporto “profondo e duraturo”, secondo quanto documentato dalla sua biografa Giustina Manica. Alla base del suo impegno in favore delle popolazioni del Mezzogiorno vi fu certamente l’interesse per la “questione meridionale”. In occasione del terremoto del 1905 aveva accolto nell’asilo di Santena (Torino) due orfanelle del catanzarese. Dopo quello del 1908 si recò in Calabria, accompagnata dai nipoti Enrico e Giovannino. Il vescovo di Mileto, Giuseppe Morabito, che secondo la testimonianza del medico eufemiese Bruno Gioffrè fu il primo ad arrivare a Sant’Eufemia («Solo il primo gennaio del 1909, Capodanno tristissimo, si vide la prima faccia umana, e fu il Vescovo della Diocesi, Monsignor Morabito, con un carro di viveri e con parole di soave conforto»), in un telegramma alla sorella Luisa elogiò l’operato dei figli (“impareggiabili, lavorano con generoso ed esemplare slancio”) e sottolineò che Adele era “ammirata da tutti”. Encomio ribadito anche dal colonnello Rostagno, comandante del reggimento dei granatieri di Sardegna: «Ella fu superiore a qualsiasi elogio e parole nostre di riconoscenza non gioverebbero mai a sostituire quelli che mille infermi rivolgono alla Gentile Signora, per l’opera buona umana e generosa da essa prestata».
La ricerca storica ha un aspetto etico, che consiste nel fare giustizia dell’oblio immeritato riservato a personaggi eccezionali. L’azione umanitaria in favore della popolazione terremotata assegna alla marchesa Adele Alfieri di Sostegno un posto di rilievo nella storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte.
Bibliografia:
*Domenico Forgione: Sant’Eufemia nell’età contemporanea. Storia, società, biografie, Il Rifugio Editore, Reggio Calabria 2021.
*Giustina Manica, Adele Alfieri di Sostegno: profilo di una nobildonna, in “Rassegna storica toscana”, numero speciale “Elementi di studio dell’identità femminile fra Ottocento e Novecento”, luglio-dicembre 2016 (anno LXII – n. 2), pp. 245-258. Le parole di elogio del vescovo Morabito e del colonnello Rostagno sono a pagina 254.
*Bruno Gioffré, Quarant’anni in condotta, Tipografia Ugo Quintily, Roma 1941.
Il terremoto del 1908 a Sant’Eufemia nel reportage del Corriere della Sera
Il terremoto del 1908 fu il primo avvenimento “mediatico” nella storia italiana. In riva allo Stretto arrivarono gli inviati dei quotidiani più diffusi, con al seguito i fotografi. Le immagini pubblicate sui giornali consentirono alle popolazioni delle province più lontane di “vedere” la devastazione, i morti, i feriti e l’opera dei soccorritori, contribuendo così anche al consolidamento dello spirito nazionale.
Nel mio ultimo lavoro sulla storia di Sant’Eufemia ho riportato la relazione dell’ingegnere Antonio Pellegrini sull’attività del comitato lombardo di soccorso, insieme a quelle preparate dalla Croce Rossa Italiana e dalla Croce Verde (Sant’Eufemia d’Aspromonte nell’età contemporanea, Il Rifugio Editore, 2021, pp. 60-66).
Il contributo della Croce Verde fu enorme, tanto che alla benemerita associazione il nostro comune aveva dedicato una via del paese, la cui denominazione fu imperdonabilmente cambiata dopo la seconda guerra mondiale. E prima o poi bisognerebbe intervenire sulla censurabile abitudine di cancellare, con un tratto di penna, fatti e personaggi rilevanti nella storia di una comunità: quando basterebbe una targhetta (“già via…”) per salvare la memoria storica del posto in cui si vive.
Quando scrissi il libro non possedevo alcuni articoli del “Corriere della Sera” (pubblicati tra il 30 dicembre 1908 e il 13 marzo 1909), nei quali si fa riferimento a Sant’Eufemia d’Aspromonte e all’opera dei soccorritori. Documenti straordinari, che ho potuto visionare grazie alla generosità di Alberto Minissi, volontario e cultore della storia della Croce Verde. Di particolare importanza è il reportage di A. Jannoni, pubblicato il 5 gennaio 1909 con il drammatico titolo “L’agonia dei sepolti vivi a Sant’Eufemia”. Lo riporto integralmente, per il suo alto valore storiografico e umano:
«Mentre nell’accampamento dei soldati del 20° fanteria regna grave il silenzio, un sibilo forte, e poi uno scuotimento come di un treno che passasse vicinissimo, ci sveglia di soprassalto. Tutti siamo in piedi, in preda al panico: la gente raccolta nelle vicine baracche grida terrorizzata. La scossa è stata fortissima: ma la stanchezza è tanta che torniamo a dormire.
Per tempo stamane ho ripreso il mio giro, inoltrandomi nella parte più alta del paese: le stesse rovine, le vie scomparse, macerie da per tutto. Solo in via Cremona due case resistono ancora, apparentemente in buono stato; ma all’interno tutto è precipitato: in una di esse abitavano due famiglie di dodici persone ciascuna, e tutti si salvarono da un balcone.
In piazza Cavallotti è ancora sulla via la carogna di un mulo, col basto, e un carico di barili di vino sfasciati. Ieri l’altro era stato estratto lì presso il padrone, un contadino sconosciuto. Costui si recava a un paese vicino per vendere del vino; ma giunto colà, sorpreso dal crollo di una casa, restò sepolto.
Nella stessa via mi si mostra una casa da cui ieri soltanto fu estratto il cadavere di un certo Tommaso Anastasio, che, sorpreso dal terremoto mentre scendeva le scale, restò con la mano afferrato alla ringhiera. Caduti il giorno dopo, per le successive scosse, un muro e le macerie che ricoprivano il cadavere, questo, irrigidito, restò nella stessa posizione per tre giorni; e tutti si recavano a vederlo.
Molti dei sepolti vivi sopravvissero per vari giorni; poi, per mancanza di soccorsi, morirono. Così Giuseppe Passalacqua, ebanista, che rimase sotto le macerie per quattro giorni, con la moglie e quattro figli già cadaveri, fino a venerdì, poté implorare aiuto; ma la sera di quello stesso giorno, per l’enorme cumulo di materiali, morì.
Vicino, era Francesco Tripodi con la moglie e sette figli; chiamò aiuto per tre giorni, ma quando s’iniziarono i lavori per il dissotterramento, era già cadavere. Furono salvati tre figli suoi, ma uno è in pericolo di morte. Dalla barella su cui giace, grida agitandosi: «Ecco il terremoto! Salvatevi!».
Dalle rovine dell’albergo “Aspromonte” furono estratti in due giorni consecutivi i cadaveri di Antonio Militano, proprietario dell’albergo e quelli del padre suo, della madre, di due zie e di tre figliuoli: mancavano ancora la moglie e un bambino lattante di 9 mesi. Ieri si continuò il lavoro, e si rinvenne alfine il cadavere della povera donna che faceva col suo corpo ponte al figlioletto. Questo era ancor vivo dopo cinque giorni: e fu da alcuni pietosi congiunti raccolto e trasportato a Sinopoli.
Dopo quattro giorni sono stati estratti ancora vivi dalle macerie anche certa Maria Cassone con il bambino incolume, che era avvinto al cadavere del padre. Appena estratto, il bimbo cominciò a scherzare.
Maria Ascrizzi abitava in via Telesio, in un punto dove si sviluppò l’incendio. Ella udiva le grida strazianti dei feriti e la puzza d’arso, e attendeva la morte rassegnata. Passarono così tre giorni, senza che le venisse dato alcun aiuto; poiché ormai disperava e le sue sofferenze erano enormi, pensò di abbreviarle appiccando il fuoco a poche schegge di legno raccolte con alcuni fiammiferi che aveva in tasca. Stava già per mettere in atto il suo disegno, quando intese dei colpi ripetuti ad un muro vicino. Sperò allora, e gridò: e l’indomani fu salvata. Sta bene relativamente e chiede da mangiare.
Due impiegati comunali perdettero la vita in circostanze orribili e quasi identiche.
Giuseppe Melardi, segretario-capo, abitava in via Roma. Precipitato nel baratro, gli rimase fuori un braccio, e con voce flebile chiedeva aiuto, mentre agitava nell’aria la mano di tanto in tanto, quasi a mostrare che era ancora vivo. Il fratello Antonio, professore di ginnasio a Monteleone, e che era qui in licenza, uscito sano dalle macerie, accorse subito per tentare il salvataggio; ma l’impresa era impossibile, ed allora egli si diede a confortare il sepolto, standogli vicino. Gli gridava a breve intervallo: «Coraggio! Coraggio!». Fino a che non vide rinserrarsi quella mano per non più riaprirsi. E il povero superstite, senza attendere altro, si allontanò dal paese.
Gaetano Zagari era vicesegretario e corrispondente del Giornale d’Italia. Abitava con la vecchia madre, di cui era il sostegno. Travolti tutti e due, la madre si salvò ed è ora impazzita. Il povero giovane restò con ambe le braccia di fuori, e agitò per un paio d’ore le mani per dar segno di vita. Molti tentarono il salvataggio assai difficile: ma quando videro che le mani non si agitarono più, si allontanarono. Allora la povera madre, che sino a quel momento aveva pianto, cessò dal versar lacrime, e accollatasi presso le braccia inerti, si mise a ricoprire di baci.
La fine di Rocco Occhiuto è stata anche più straziante. Rimosso il materiale che gli era intorno, uscì fuori con la testa intrisa di fango: e poiché egli era ancora vivo, furono intensificati dai parenti i lavori di dissotterramento. A poco a poco riuscì a metter fuori le spalle, il petto, le braccia: nella caduta egli era rimasto in piedi. Ma ogni sforzo per liberarlo dall’enorme massa di rottami che lo teneva fortemente stretto fu inutile: e il disgraziato, mentre urlava cercando di districarsi, dava intanto precise indicazioni sul posto ove doveva trovarsi un suo figliuolo. Difatti, a pochi metri di distanza, questi veniva salvato e il povero Occhiuto veniva abbandonato al suo destino, dopo aver avuto la cura – per sottrarlo alla furia della pioggia – di innalzare sul suo capo, su due listelle di legno, un riparo di tavole. Egli sopravvisse in simile difficile posizione per oltre due ore dopo lo scavo, ossia fin verso sera…
Per i soccorsi ai superstiti provvede qui il Comitato di Milano. Stamane sono qui tornati il maggiore Bassi e l’ing. Stucchi per rifornire l’attendamento».
Ancora sulla barbarie delle intercettazioni
Grazie ad un articolo di Strettoweb, ho scoperto che ieri sera sono finito su una slide del programma Controcorrente (Rete 4). Non sono avvocato, come erroneamente riportava il cartello, ma non è ovviamente questa inesattezza che voglio commentare dopo avere guardato sul sito di Mediaset la trasmissione.
Probabilmente la redazione ha preso spunto dal mio recente articolo pubblicato su “Il Dubbio” e mi ha accostato, in maniera secondo me impropria, alla vicenda che coinvolse l’ex ministra dello Sviluppo economico Federica Guidi come esempio della stortura che a volte si registra nell’uso delle intercettazioni. Cosa che accade, ad esempio (e di questo gli ospiti in studio hanno dibattuto), quando un magistrato allega agli atti un’intercettazione di natura privata, che non ha attinenza con l’imputazione, e quando il giornalista che si ritrova quella intercettazione la pubblica sul giornale. Il dibattito, insomma, era incentrato sulla questione della pubblicazione. Per questo sostengo che la mia vicenda è stata citata in maniera impropria.
A volte mi sembra di essere un disco rotto e di questo mi scuso. Ma il mio caso ha a che fare con una questione preliminare, a monte – diciamo – dell’utilizzo delle intercettazioni: e cioè sul fatto che prima di arrestare una persona intercettata, della quale si ha la voce registrata, il minimo sindacale sarebbe di verificare se quella voce è effettivamente sua. La terribilità delle manette sta proprio nell’uso disinvolto e approssimativo degli strumenti di indagine intercettivi che caratterizzano alcune inchieste antimafia.
Link dell’articolo di Monia Sangermano per Strettoweb: Inchiesta Eyphemos, il clamoroso errore giudiziario ai danni di Domenico Forgione finisce su Rete 4
Vi spiego io la barbarie delle intercettazioni
“Il Dubbio” di oggi ospita una mia riflessione su intercettazioni e trojan
La relazione al Senato del guardasigilli Nordio ha innescato la prevedibile reazione di chi, da decenni, intossica il dibattito sul tema della giustizia in Italia con considerazioni per lo più strumentali, che passano come un carrarmato sulla vita delle persone. Io credo, invece, che occorra un alto livello di umanità, quando si affrontano temi che incidono fortemente sulla libertà, sulla dignità e sulla rispettabilità degli individui.
Il ministro della Giustizia afferma, e noi gli crediamo, che «il nostro fermo proposito è di attuare nel modo più rapido ed efficace il garantismo del diritto penale». Però dice anche, per stoppare le urla scomposte del fronte giustizialista, che «non sarà mai abbastanza ribadito che non vi saranno riforme che toccheranno le intercettazioni su mafia e terrorismo».
Mi permetto di dissentire e di portare ad esempio, ahimè, la mia esperienza personale: un caso forse limite, ma comunque utile – spero – per centrare e meglio evidenziare i contorni della discussione, quando si parla di intercettazioni e di 416 bis. Sono stato arrestato il 25 febbraio 2020, sulla base di una conversazione (11 pagine sulle 3651 complessive dell’indagine) intercettata tramite il trojan installato sul telefonino di un altro indagato, che si trovava a cena con due persone, ad una delle quali era stata attribuita la mia identità. Nonostante la mia dichiarazione di assoluta estraneità, già in sede di interrogatorio di garanzia (due giorni dopo l’arresto e senza avere ancora ascoltato l’audio della conversazione), e la contestuale richiesta di effettuare una comparazione fonica (non accordata nell’immediato; mentre in nessuna considerazione il Tribunale della libertà ha tenuto la perizia fonica presentata dalla difesa), ho dovuto subire sette mesi di custodia cautelare in carcere, fino a quando il Ris di Messina, su incarico della Procura di Reggio Calabria, non ha stabilito che la voce intercettata non era la mia. Duecentocinque giorni dopo il mio arresto, trascorsi negli “hotel” a cinque stelle di Palmi e di Santa Maria Capua Vetere. Successivamente, la mia posizione è stata archiviata.
La questione, dal mio punto di vista, è quindi un’altra, più profonda e grave. Può la lotta alla mafia giustificare la sospensione dello stato di diritto in vaste aree del Paese? L’Italia è uno stato di diritto o uno stato di polizia, nel quale le garanzie individuali possono essere calpestate? Sono queste le domande per le quali io e migliaia e migliaia di altre vittime attendiamo risposte, anche per riuscire ad avere nuovamente fiducia nella giustizia.
La sensazione è che il populismo penale di parte della magistratura e dell’informazione spinga all’accettazione del fatto che la lotta alla criminalità organizzata possa avere come effetto collaterale un numero cospicuo di innocenti in manette. Per motivi ideologici, ma anche per una questione all’apparenza banale: chi parla di carceri, di buttare le chiavi, di innalzare forche nelle pubbliche piazze, lo afferma senza cognizione di causa; senza avere cioè la minima idea del terremoto emotivo che si scatena nell’animo di chi varca il cancello di un carcere, soprattutto se sa di essere innocente. Senza, inoltre, avere la minima idea della condizione disumana delle carceri italiane.
Ecco perché, pur riconoscendo l’importanza e l’efficacia dell’utilizzo di trojan e intercettazioni telefoniche per assicurare alla giustizia i rei, sarebbe auspicabile una rivisitazione del loro impiego, nel senso di ribadirne la validità come strumento di indagine attorno al quale costruire la prova vera e propria.
Prendere atto che su questa delicata materia occorre intervenire, al di là delle caciare strumentali che si sollevano ogni qual volta qualcuno pone con spirito costruttivo la questione, sarebbe già un passo in avanti, a tutela della giustizia e della dignità delle persone, poiché “non c’è tirannia peggiore di quella esercitata all’ombra della legge e sotto il calore della giustizia” (Montesquieu).
Link: Il Dubbio
Marco Annicchiarico: I cura cari
“Curacaro”, traduzione dell’inglese caregiver (“colui che si prende cura”) è un neologismo introdotto nella lingua italiana dallo scrittore Flavio Pagano, autore di Perdutamente (Giunti, 2014), Infinito presente (Sperling & Kupfer, 2017), Oltre l’Alzheimer. L’arte del caregiving (Maggioli, 2019), nonché del corto Abbracciami, presentato nel 2021 all’Alzheimer Fest di Cesenatico, manifestazione ideata nel 2017 dal giornalista Michele Farina, il quale – a sua volta – ha dedicato alle problematiche che coinvolgono i pazienti affetti da demenza senile, i loro familiari e gli operatori sanitari il libro-inchiesta Quando andiamo a casa? Mia madre e il mio viaggio per comprendere l’Alzheimer. Un ricordo alla volta (Rizzoli, 2015).
I cura cari, scritto dal giornalista, critico musicale e poeta Marco Annicchiarico, prende in prestito (separando le due parole) il neologismo di Pagano e racconta l’esperienza dell’autore, già nota ai lettori delle sue due rubriche: Diario di un caregiver, per la rivista «Mind», è “la storia delle difficoltà, degli ostacoli, della burocrazia e dei paradossi che affronta chi assiste un malato di demenza”; Caregiver Whisper – Storie di ordinario Alzheimer, per il blog collettivo «Poetarum Silva», racconta invece “piccole storie di vita nella malattia, tra le mille difficoltà con cui mi sono dovuto misurare, il più delle volte da solo, e l’ironia che ci ha aiutato a non impazzire nei momenti più difficili”.
Prendersi cura di familiari malati è un’attività dai forti risvolti emotivi, oltre che pesante sotto il profilo materiale: basti considerare che il 70% di chi assiste un familiare malato è costretto ad abbandonare il lavoro. Quando poi si tratta di soggetti affetti da Alzheimer o da altre forme di demenza, le difficoltà si avvertono in forma ancora più acuta. Come riuscire, infatti, a trovare un senso ad un’esperienza che spesso comporta l’annullamento della propria vita? Come gestire la malattia del familiare e l’inevitabile deterioramento del proprio equilibrio psicofisico?
Annicchiarico, che affronta la questione ricorrendo alla propria esperienza personale, offre al lettore una storia d’amore tra madre e figlio che è al tempo stesso poetica e dolorosa: “un romanzo-pugno e un romanzo-carezza, capace di commuovere e di farci sorridere nello stesso rigo”.
I cura cari è la ricerca di un nuovo equilibrio, che consenta a madre e figlio di ritrovarsi in quella realtà parallela del malato che Pietro Vigorelli (autore, tra l’altro, del libro edito da FrancoAngeli nel 2015: Alzheimer. Come favorire la comunicazione nella vita quotidiana) ha definito “mondi possibili”: «Noi dobbiamo accettare quello che i malati sono ora. Il salto nei mondi possibili ci permette di stare vicino a loro “dove sono in questo momento” rispettando, anche nelle situazioni più drammatiche, la loro dignità di persona e valorizzando le abilità che hanno mantenuto».
Annicchiarico attraversa le diverse fasi della malattia della madre Lucia, che inevitabilmente si ripercuotono sulla sua quotidianità, stravolta dagli effetti devastanti della caduta del familiare nel gorgo della demenza. Il sasso che manda in frantumi la finestra della propria esistenza si manifesta con la perdita dei ruoli (“non si può tornare ad essere figlio, non si può tornare ad essere madre”). All’inizio prevale il senso di vergogna, di fronte ad una mamma che gradualmente perde ogni freno inibitore: mangia con le mani, diventa scurrile, non è capace di controllare le funzioni corporali. Poi subentra l’accettazione, a conclusione di un processo graduale, che porta alla consapevolezza di trovarsi di fronte ad un’altra persona, che vede quello che non c’è e lo rivela al figlio. Con questa nuova mamma, sospesa sempre nell’altrove in cui è finita, l’autore si sforza di entrare in relazione, nonostante l’avvilente impressione di essere lo spettatore di una donna che lentamente si sta dissolvendo.
Madre e figlio si incontrano così in storie spesso inventate, raccontate con l’utilizzo di una nuova lingua, una sorta di esperanto fatto di frasi e parole senza senso o che non esistono. «Sono una ticococca», afferma Lucia sul finire del libro, in un dialogo che ispira all’autore versi struggenti:
Ho scoperto che mia madre
è diventata una ticococca,
per metà è fatta di carne
e per metà è fatta di nebbia.
La notte scompare nel suo letto,
riesci solo a sentirne la voce, flebile,
che arriva da lontano.
Al mattino, però, con tutta
la sua forza chiude le dita dolenti
attorno alle mie mani.
A volta sembra sussurrare:
«Sono qui, vienimi a salvare».
Buon anno
A volte sembra di avere vissuto troppo. Abbiamo realizzato tutti i nostri desideri e soddisfatto ogni aspettativa. Vaghiamo, senza fuoco dentro ad ardere, perché ogni cosa è diventata stanca abitudine. Non è una questione di età: Ninuzzo aveva quasi un secolo quando piantò un albero e immaginava di raccoglierne lui i frutti, nel giro di pochi anni.
Oppure siamo stati talmente messi alla prova da sentirci sfibrati. Ogni azione, ogni pensiero ci risultano faticosi. Rimaniamo inchiodati al nulla, vorremmo soltanto dormire e non svegliarci più.
Altre volte si ha invece l’impressione che il tempo non sarà mai abbastanza. Eppure ancora abbiamo libri da leggere, viaggi da intraprendere, incontri da godere. Una vita sola non può bastarci. Avremmo bisogno del treno arrugginito richiamato con feroce disincanto da De Andrè per ritornare indietro, al punto di partenza. Un treno che non esiste; ed è bene che sia così.
Da qualche parte ho letto che la vita è quella cosa che ci accade mentre siamo impegnati in altri progetti. Succede nonostante noi, anche contro di noi.
Ecco perché non faccio più bilanci. Non mi va di dividere il foglio in colonne di dare e avere. Separare le cose belle da quelle brutte, le giuste dalle sbagliate. Tutto ha un senso, anche le favole tristi che opprimono e fanno mancare il respiro, come certe assenze conficcate nel cuore. Ma quel senso dobbiamo sforzarci di trovarlo noi, con tenacia da esploratore.
Aggrappiamoci alla vita, cerchiamola ovunque. Sempre.
Buon anno a tutti.