Anche quest’anno l’Associazione di volontariato cristiano “Agape” di Sant’Eufemia sarà al fianco dell’Airc, che torna in 2.000 piazze per distribuire le colorate confezioni da 200 grammi di cioccolato fondente Venchi.
Nel 2023 sono state registrate in Italia 395.000 nuove diagnosi di tumore (208.000 tra gli uomini e 187.000 tra le donne), più di mille al giorno. I progressi nella ricerca rendono però più efficaci le cure e prevengono le recidive: tra il 2010 e il 2020 sono infatti aumentate del 54% le persone vive a dieci anni di distanza dalla diagnosi.
Con l’acquisto dei cioccolatini della ricerca offriamo un contributo concreto al lavoro di circa 6.000 ricercatori Airc, per rendere il cancro sempre più curabile.
Vi aspettiamo in piazza Matteotti, domenica 10 novembre, a partire dalle ore 9:00.
4 novembre
La ricerca sugli eufemiesi che parteciparono alla Prima guerra mondiale, durata quasi quattro anni, si rivelò molto impegnativa, perché mai come allora il foglio da riempire si presentava bianco. Scrivere la biografia di ogni singolo soldato è operazione molto complessa, realizzabile soltanto incrociando i dati forniti da diverse fonti. Le informazioni sui circa 600 militari di Sant’Eufemia d’Aspromonte che parteciparono al conflitto si trovano infatti sparse tra le pagine di 257 volumi di ruoli matricolari della provincia di Reggio Calabria, da sfogliare una ad una, così come le schede contenute nei 67 cassetti dell’Ufficio notizie. Ma le difficoltà sono anche altre, ad esempio riuscire a seguire gli spostamenti delle compagnie sul fronte di guerra o individuare i paesi e le frazioni dove venivano allestiti gli ospedali da campo, la cui numerazione varia costantemente.
La ragione dello studio pubblicato nel libro Sant’Eufemia d’Aspromonte e la Grande Guerra (Il Rifugio editore, 2018) si può riassumere nella volontà di andare oltre i freddi numeri. Mi interessava ribadire la funzione etica della parola scritta in quanto atto di giustizia nei confronti degli ultimi, dei dimenticati, di coloro che attraversano la storia senza lasciare alcuna traccia. Per questo avevo bisogno di tutti quei giovani, non soltanto degli ottantotto ai quali era già stata riservata qualche riga nell’Albo d’Oro dei caduti.
Non si può comprendere il significato di quella tragedia se non si entra nei camminamenti insieme a chi li percorse allora, senza patire insieme ai fanti il gelo dell’inverno sul Carso, la fame, le condizioni igieniche aberranti delle trincee. Dei circa seicentocinquantamila caduti italiani, centomila morirono per malattia: febbri, bronchiti, polmoniti, infezioni, colera, tubercolosi, tifo, malaria, meningite, “spagnola”. A quella sofferenza volevo dare un nome e un volto, in modo da percepirla ancora viva, più vicina a chi la legge tradotta in una cifra: ventuno, il numero degli eufemiesi morti per malattia.
Ho così visto i piedi congelati di Antonino Carlo sull’Asiago e di Francesco Villari sul Pasubio, e sono stato accanto ai 130 feriti e ai 72 prigionieri nei campi di prigionia austro-ungarici e tedeschi, dove le condizioni di vita erano durissime. Giovani ammassati in baracche prive di qualsiasi forma di riscaldamento, con a disposizione una razione di cibo (una minestra con poche foglie di rapa, una patata, pochi grammi di pane) inferiore a 1.000 calorie giornaliere. La denutrizione e la scarsissima igiene provocavano l’insorgere di epidemie, il dilagare della dissenteria e uno stato di deperimento che in breve tempo portava molti prigionieri alla morte: tra questi e insieme ad altri cinque eufemiesi, Domenico Ceravolo, stroncato da un’enterite nel campo di prigionia di Milowitz, in Boemia.
I versi di “San Martino del Carso” ci toccano più nel profondo se scopriamo che, tra i morti asfissiati in seguito all’attacco chimico austriaco sul monte reso immortale dai versi di Giuseppe Ungaretti, cinque erano nostri nonni o bisnonni.
Ma mi interessava anche scoprire l’umanità che mai capitola, nemmeno tra le atrocità e l’abiezione della guerra. L’eroismo del diciottenne Antonino Tripodi, che trae in salvo cinque civili travolti dall’inondazione provocata da una piena dell’Isonzo, le commoventi cartoline di Giovanni Siviglia e Antonino Sofo, la lettera che Antonia invia al marito Giuseppe Luppino insieme ad una ciocca di capelli castani, la punizione assurda di Bruno Cammarere, reo di avere dato di nascosto del vino a un prigioniero austriaco.
Tra i soldati eufemiesi morti nella Prima guerra mondiale, undici risultano dispersi. Di loro non fu mai trovato il corpo, nessun fiore fu posato sulle loro tombe. La ricostruzione della loro tragica vicenda militare è una forma di risarcimento postumo, un modo per considerarli meno dispersi.
L’orologio azzurro di Giuseppe
Quando in spiaggia giocavi a pallone con gli altri bambini, non sapevo se essere felice o piangere mentre osservavo la tua determinazione nel calciare con tutta la forza che avevi. Ancora riuscivi a muovere qualche passo, se qualcuno ti sorreggeva da dietro. Alzami tu, dicevi. La più bella dichiarazione di fiducia mai ascoltata. Ripetuta negli anni. Sulle rampe delle scale con le tue braccia attorno al collo, sull’altalena che non avevi mai provato e della quale volesti fare esperienza, al largo, in mare, per raggiungere la boa diventata tua personale conquista: gli occhi sorridenti e le mani che si agitavano per richiamare l’attenzione degli altri volontari dell’Agape sulla riva. Avrei voluto piantarci una bandierina su quella boa: «Giuseppe è arrivato fin qui».
Nell’acqua ti sentivi libero, come se avessi lasciato sulla terraferma la gabbia della malattia che ti inchiodava ad una sedia a rotelle. Per questo volevi essere lasciato solo e allontanavi le nostre mani dalla ciambella.
La felicità aveva il colore del mare e della sabbia, e il suono della tua voce che inseguiva la boccia lanciata e caduta pochi centimetri davanti ai tuoi piedi. Vincevi lo stesso tu. Vincevi sempre tu. Come nella playstation: sullo schermo correvi e segnavi al pari di tutti gli altri bambini, ti lanciavi in tackle oppure ti tuffavi per parare il rigore di un incredulo Higuain, rassegnato e con le mani tra i capelli al cospetto della tua prodezza.
Abbiamo inventato tanti giochi e ne abbiamo cambiato i regolamenti, ogni volta che l’abbiamo voluto. In questo siamo stati liberi, nessuno poteva decidere per noi.
Sapevamo che il tempo ci era nemico. Ma chissà poi se è stato così. Non si può accettare la morte di un ragazzo. Non la possono accettare i genitori, non la possiamo accettare noi che ti abbiamo voluto bene. Se il tempo ha un inizio e una fine, se il dolore ha un inizio e una fine. Ma se ora e allora sono un tutt’uno, se riusciamo a confondere e a confonderci nell’unicità delle nostre esperienze: cosa sono stati i tuoi diciott’anni? Cosa il fuoco della tua lotta?
Il tempo scandito dal tuo orologio azzurro era diverso dal nostro. Tu lo sapevi, per questo hai detto ad Assunta, tua madre, di tenerlo al polso lei, quando non ci saresti più stato. Perché il tempo dell’amore non ha tempo, non ha scadenza. Come il pupazzo di Winnie the Pooh, che ti accompagnò con noi a Lourdes e che è con te oggi, in questo tuo ultimo viaggio.
Ho letto l’esperienza di un padre distrutto di fronte alla fragilità del figlio disabile, eppure capace di cogliere il senso più profondo della vita. Ciò che importa – diceva – non è capire fin dove potrà arrivare un figlio disabile, se riuscirà ad acquisire competenze e abilità, se sarà un minimo autosufficiente, o se non lo sarà per niente. Ciò che importa è cosa i genitori e coloro che gli vogliono bene saranno “capaci di fare”, cosa saranno “disposti a diventare”. Se saranno capaci di arrivare alla sua altezza.
Non lo so se siamo stati alla tua altezza. So però che hai cambiato in molti di noi il modo di vedere le cose, la prospettiva del mondo. Ci hai fatto capire cosa è importante e cosa è invece superfluo, coreografico, privo di sostanza. Ci sei stato maestro.
Ho un ricordo di molti anni fa, un saggio di musica nel teatro della scuola media. L’insegnante che ti aiuta ad alzarti, la tua fatica nello spingere in avanti le gambe per giungere alla pianola. Un passo dopo l’altro, un rallenty sospinto dagli occhi di tutti e poi “Jingle Bells”. Sorretto dalle mani sicure della docente, tra il silenzio e l’emozione della sala, tutta concentrata sulle tue dita che battono i tasti bianchi e neri: «Suonate campane, suonate tutto il tempo».
Continua a suonare, Giuseppe. Per te, per noi, per la vita che ci hai insegnato.
Passeggiata letteraria tra le vie di Sant’Eufemia
Grazie ad “Adexo”, che ha voluto inserire tra le iniziative del cartellone “Balenando in Burrasca Reading Festival” la passeggiata tra i profili illustri, gli edifici e i luoghi che hanno segnato la storia di Sant’Eufemia d’Aspromonte. Grazie all’Istituto Comprensivo Sant’Eufemia – Sinopoli – Melicuccà, ai ragazzi delle classi 3A e 3B della scuola media, che hanno partecipato con interesse alla conversazione ispirata dai pannelli illustrativi collocati nei vari punti del paese.
D.F.
IL REGGINO, 10 ottobre 2024 (articolo della redazione)
Sant’Eufemia d’Aspromonte, Domenico Forgione a Balenando Festival con la passeggiata letteraria
L’appuntamento si è concretizzato con un incontro itinerante che coniuga la ricerca storico-letteraria con l’attrazione turistica
La cultura si sposa con la montagna: una originale Passeggiata Letteraria a S. Eufemia D’Aspromonte si è realizzata grazie a una speciale guida: lo storico Domenico Forgione che ha proposto un itinerario montano tra letteratura, storia e suggestivi luoghi. In collaborazione con il Balenando in Burrasca Reading festival, infatti, Sant’Eufemia d’Aspromonte è stata protagonista di un racconto caratterizzato dall’attraversamento di tappe importanti che hanno visto protagonisti i profili illustri di quei personaggi che hanno segnato la storia del territorio, ma anche gli edifici e i luoghi che ancora oggi rappresentano punti di grande interesse paesaggistico, turistico e culturale.
«Un modo per entrare nella storia del paese e proporla a chi lo visita – racconta lo storico Forgione – quindi si può dire che il percorso proposto è una sorta di vero e proprio museo all’aperto. Nella passeggiata è stata ricostruito il corso degli eventi del paese di S. Eufemia D’Aspromonte attraverso i personaggi, i luoghi e gli avvenimenti più significativi». Si è partiti dalla zona più antica del sito, per attraversare le varie epoche affascinando soprattutto i giovanissimi studenti che, grazie alla dirigente Francesca Barbaro con gli insegnanti, Mariella Fedele, Teresa Zappalà, Rossella Morabito, Alessandra Tedesco, Gabriele Bello e Francesco Luppino, hanno aderito con grande entusiasmo al progetto, accompagnando all’interessante evento le classi 3A e 3B delle Scuole Secondarie di I grado “V. Visalli” Sant’Eufemia d’Aspromonte e dell’Istituto Comprensivo “Sant’Eufemia – Sinopoli – Melicuccà”. L’appuntamento si è concretizzato mercoledì 9 ottobre a S. Eufemia D’Aspromonte con un incontro itinerante che coniuga la ricerca storico-letteraria con l’attrazione turistica.
L’appuntamento letterario fa parte del programma di Balenando in Burrasca Reading festival, realizzato a cura di associazione Adexo con risorse Pac 2014/2020 – Az. 6. 8. 3. dalla Regione Calabria – Dipartimento Istruzione Formazione e Pari Opportunità – Settore Cultura.
GAZZETTA DEL SUD, 11 ottobre 2024 (articolo di Giuseppe Fedele)
“Balenando in Burrasca” – Passeggiata letteraria per amare S. Eufemia
Studenti dell’I.C. guidati dallo storico Forgione per le vie del paese
Guidata dallo scrittore, storico e ricercatore Domenico Forgione, mercoledì mattina ha avuto luogo una “Passeggiata letteraria”, evento inserito nel tabellone stagionale annuale delle iniziative di “Balenando in Burrasca” reading festival organizzato dall’associazione “Adexo” di Reggio Calabria, con la collaborazione della scuola secondaria di I grado “V. Visalli” di Sant’Eufemia d’Aspromonte facente parte dell’I.C. S. Eufemia-Sinopoli-Melicuccà diretto dalla prof.ssa francesca Barbaro. Con i professori Rossella Morabito, Francesco Luppino, Mariella Fedele, Teresa Zappalà e la dirigente vi hanno preso parte gli allievi delle classi III A e III B.
Con la Passeggiata letteraria ieri mattina è stata ripercorsa la storia del paese tra il 1800 e il 1900, mediante soste che sono state effettuate presso i nove pannelli storici che lo scorso anno sono stati installati su iniziativa dell’Associazione Culturale “Aspromonte Milano” con sede a Segrate, presieduta da Massimo Rositano ed alla quale aderiscono molti eufemiesi trapiantati nell’hinterland milanese, lungo il percorso storico con lo scopo di creare occasioni per fare periodicamente qualche passeggiata, soprattutto con i ragazzi delle scuole che dovrebbero essere più interessati alla storia del proprio paese. Lungo tutto il percorso i ragazzi si sono dimostrati molto attenti, soprattutto quando lo scrittore Domenico Forgione ha parlato dello storico ponte in ferro lungo la dismessa tratta Sinopoli-Gioia Tauro della Ferrovia Calabro Lucana. E questo perché di recente gli studenti hanno partecipato a un concorso e saranno premiati concorrendo proprio con un lavoro sul ponte e sulla ferrovia. Vivo compiacimento è stato espresso al termine per il fatto che la passeggiata tra i pannelli esplicativi della storia di S. Eufemia è stata inserita nel tabellone stagionale annuale tra le iniziative di “Balenando in Burrasca” che comprende anche teatro, reading e iniziative culturali varie.
La giornata mondiale degli insegnanti
Non è facile essere insegnanti, oggi. A volte, occorre una sviluppata propensione al martirio. Per motivi noti a tutti, sui quali periodicamente si discute senza che si riesca a restituire a questa straordinaria missione (definirla soltanto una “professione” sarebbe riduttivo) il prestigio e l’autorevolezza di tempi ormai andati. Di prima delle risme di circolari ministeriali, della più varia burocrazia, dell’intrusione mortifera delle famiglie nelle questioni scolastiche.
Appartengo ad una generazione per la quale gli insegnanti stavano giusto un gradino sotto i genitori. Ovviamente, non a scuola: dentro l’aula non ce n’era per nessuno, la loro autorità non si discuteva e, a dirla tutta, nessun genitore si sarebbe mai sognato di farlo.
Oggi ricorre la giornata mondiale degli insegnanti, anche se mi pare ci sia poco da festeggiare. È tuttavia l’occasione per un tuffo nel passato, che in ogni campo della vita costituisce sempre un efficace artificio per sfuggire alle miserie del presente.
Nello specifico, se mi guardo indietro non posso che concludere di essere stato molto fortunato. Ho avuto ottimi insegnanti, sia sotto il profilo didattico che dal punto di vista umano: maestri ed educatori che hanno inciso profondamente sulla mia crescita, facendo di me l’uomo che oggi sono.
Negli anni delle elementari, la maestra Rina De Leo mi ha insegnato a leggere speditamente, a non sbagliare le “e” con l’accento e le “a” con l’acca, ma soprattutto mi ha educato al rispetto dei ruoli. Senza bisogno della bacchetta, dei ceci sotto le ginocchia, della punizione dietro la lavagna. Con la tenerezza di una madre. Una lezione che non ho dimenticato.
Alle medie, il professore Aldo Coloprisco (oggi compie gli anni: auguri!) mi ha fatto capire che non basta conoscere le date storiche più importanti o la biografia degli autori più famosi. L’attività teatrale che svolgevamo durante l’anno è servita a responsabilizzare noi ragazzi e a convincerci che il posto in cui viviamo è nostro. Buon cittadino è colui che si spende per rendere più bella la realtà nella quale vive, contribuendo alla sua crescita mediante l’aggregazione, la partecipazione ad iniziative socio-culturali, il coinvolgimento nei processi di integrazione di coloro che in genere vengono emarginati.
Nel quinquennio liceale, il professore Rosario Monterosso mi ha trasmesso l’amore per la storia: devo a lui i libri che ho scritto. Aveva valori solidi e non negoziabili, da uomo serio e rigoroso. Mi ha insegnato che, quando si osserva un fenomeno, non bisogna fermarsi alle apparenze; che, di fronte ad una “verità”, bisogna cercare un punto di osservazione diverso. Tentare di indossare le scarpe altrui, senza rinunciare alle proprie idee.
Qualche anno fa ho avuto una disavventura. Il professore Monterosso non c’era già più e, almeno, si è risparmiato un bel po’ di amarezza. C’erano però un migliaio dei suoi libri nella mia biblioteca, e quella notte un po’ di stupore tra i presenti lo suscitarono. Pensai spesso a lui e ai nostri incontri nei mesi a seguire, mentre la maestra De Leo e il professore Coloprisco riuscirono a farmi pervenire parole di grande affetto e vicinanza, che mi emozionarono. Non si tratta soltanto di gratitudine. In questi tempi veloci, che tutto travolgono, guardare al passato può essere utile per illuminare il presente.
Una veste di cento anni fa
Avrei voluto osservarti da vicino, starti accanto, in quella foto del 1925 che sembra una premonizione. Ci sono tuo padre, sopravvissuto alla carneficina del Carso nel ’15-’18, tua madre, le tue due sorelle, tuo fratello e, dietro di te, tua zia con la destra appoggiata alla tua spalla. Come un’investitura per te che, con i tuoi undici anni e con quegli occhi neri arrivati fino a me, gli accidenti della vita non potevi nemmeno immaginarli. Lei morta di parto, tu madre dei suoi figli a diciannove anni, più tardi sposa di suo marito.
Uno scampolo di stoffa diviso per tre rendeva le bambine uguali, un po’ impaurite o forse soltanto stupite dal magnesio della macchina fotografica che scattò l’unica immagine che ritrae tutta la tua famiglia.
Avrei voluto essere con te tra i banchi della scuola elementare, che sei riuscita a completare in un’epoca di analfabetismo dilagante, che non contemplava l’istruzione dei figli tra le priorità dei genitori. Guardarti mentre leggevi le lettere che parenti e amici ricevevano dai congiunti emigrati, osservarti china sul foglio quando eri la penna che portava lontano i racconti delle vite di qua. O con in mano la siringa di vetro, fatta sterilizzare nell’acqua bollente del suo contenitore in acciaio, prima di una puntura a grandi e piccoli della “rruga”.
Con te, mentre raccoglievi le olive o quando davi una mano nelle terre a “Crasta”, quando attendevi il ritorno di tuo marito dall’Aspromonte, una volta che aveva finito di sorvegliare la carbonaia. Un legno ruvido che la guerra nel Nordafrica e le mani callose avevano portato al comunismo e all’utopia di un mondo più giusto, dignitoso per gli ultimi della terra. Sul comodino, i ritratti severi di Stalin e Togliatti, ai quali contrapponevi rosario e libro delle preghiere, in una sorta di esorcizzazione domestica. Con te, quando mensilmente facevi il pane nel forno della “capurala” e poi lo sistemavi nella “cascia”.
Quella stessa cassapanca contiene oggi il poco che abbiamo potuto conservare della tua casa, della tua vita. Che era concentrata in due stanze, il gabinetto, il cucinotto con il fornello a tre fuochi e un piccolo giardino sul retro, pochi metri quadrati con piante e fiori di ogni specie. E poi, due figli da allevare, arrivati ad un’età per quei tempi avanzata: la piccola di casa da coccolare con la tazza di latte e le fette di pane portate nel letto. Sotto le lenzuola, per riscaldarle i piedi, un mattone tirato fuori dal braciere e, in caso di mal di gola, un calzino riempito con cenere viva da tenere arrotolato al collo come fosse una sciarpa.
C’ero, però, quando hai trasferito sui tuoi nipoti premura e generosità. Le ricorrenze segnate su un quaderno, da onorare estraendo per loro dal porta zecchini nero le banconote arrotolate a sigaretta. L’uscio sempre spalancato per i bambini che dal cortile si fiondavano dentro accaldati e sporchi. La merenda con pane, sale e olio. L’orzata, dolcissima, nel bicchiere che portava stampate sul vetro macchinine d’epoca. I gelati dal “grugno” o dalla “rofalazza”, annotati sulla “libretta” per quando saresti passata tu a saldare i conti. Ero rapito dalla treccia lunghissima che tenevi arrotolata sulla testa, fissata con tanti ferretti. Una corona nascosta sotto il foulard che, dopo la morte del nonno, restò per sempre nero.
E c’ero quando ormai non c’eri più, nuovamente bambina nel letto dei tuoi ultimi anni. Quando parlavi con persone che soltanto tu riuscivi a vedere. Quando chiamavi mamma tua figlia. Quando strapazzavi il bordo della maglia, nel tentativo di srotolare una veste immaginaria. Chissà, forse proprio quella dei tuoi undici anni.
Totò-Gol
Tutto in una estate. L’estate del sogno infinito, del cuore in gola, delle sfilate per le strade del paese al suono assordante dei clacson. “Negli occhi tuoi voglia di vincere”, urlavano Edoardo Bennato e Gianna Nannini, come se avessero saputo in anticipo che due occhi spalancati avrebbero fatto innamorare l’Italia intera.
Totò Schillaci è stato tutto ciò che noi ragazzi avremmo voluto essere. Uno che si era fatto largo con la forza della volontà. Un potenziale delinquente che il calcio aveva tirato fuori dai pericoli della strada, a conferma della potenza salvifica dello sport.
Un mese per entrare nella storia come una rasoiata. Come un guizzo dei suoi, rapidissimo. Il difensore si distrae un attimo e Totò-Gol, in qualche modo, la butta dentro: di testa, di piede, di spalla, di stinco. Alla Inzaghi, se non fosse che Superpippo sarebbe arrivato qualche anno dopo.
Le notti magiche di Schillaci sono una felicità bruciante, uno stato di grazia irripetibile: “l’istante in cui scocca l’unica freccia/ che arriva alla volta celeste/ e trafigge le stelle”, come nella canzone di Ivano Fossati.
Nell’estate del 1990 due ragazzi piangono sul tetto del bar mentre staccano da un palo la bandiera dell’Italia, dopo la sconfitta ai rigori nella semifinale contro l’Argentina. Il calcio era tutta la loro vita, consumata su campi terrosi, nelle piazze, nelle strade, in pineta, ovunque si potessero immaginare due porte e correre dietro ad un pallone fino a quando non faceva buio.
Totò Schillaci è nostalgia per un tempo in cui tutto sembrava possibile, prima che la gioventù svanisse in un battito di ciglia.
Settembre
«Settembre, andiamo. È tempo di migrare». Come i pastori di D’Annunzio, transumanti dalla montagna alla pianura, si parte. Da Sud a Nord. Chissà se è più amara la malinconia di chi va via o se lo sconforto opprime maggiormente chi resta. Se si riesce ancora a provare tristezza. Se ormai non sia soltanto rassegnazione. Nel 2023 la Calabria ha guadagnato il terzo gradino del podio nella speciale classifica delle regioni con la maggiore riduzione dei residenti (1.838.000, -4.6 per mille rispetto al 2022), dietro Sardegna e Basilicata. Dati ufficiali, che non tengono conto delle decine di migliaia di fuorisede, lavoratori o studenti che siano. Giovani che “magari tra qualche anno torno” e mantengono per questo la residenza nei comuni di origine.
Sempre più laureati e diplomati, ad arricchire di professionalità altre regioni e ad impoverire una terra disgraziata. Destinata allo spopolamento, costretta a subire politiche economiche sciagurate e responsabili del mantenimento di un’atavica condizione di inferiorità, che favorisce l’espulsione dei giovani. Non un grande novità, a leggere da Sud la storia d’Italia dall’Unità ad oggi.
Siamo passati dai viaggi in terza classe all’aereo, ma che abbiamo fatto la rivoluzione emigrando, diciamocelo: è una gran truffa. Abbiamo fatto e continuiamo a fare scelte legittime, per molti obbligate, ma dall’incidenza esclusivamente individuale, che nulla spostano sul piano generale.
Briganti o migranti, è stato sentenziato. E tali siamo rimasti. Bestie da fatica nel secolo scorso, professionisti qualificati nel nuovo millennio. Comunque banditi, nell’accezione pasoliniana del termine: banditi da una società che sta dalla parte dei potenti e degli ascari meridionali, servi o utili idioti dello status quo.
Non ci sono più lacrime, non c’è più rabbia. Forse è questo ciò che fa più male. Assuefatti ai treni pieni e alle colonne interminabili di automobili sull’autostrada, ci consoliamo con i logori cliché sui tramonti, la natura e le delizie culinarie dei nostri borghi. Come se davvero fosse possibile nascondere lo sradicamento e la soppressione di culture millenarie, sacrificate sull’altare di una omologazione feroce e cinica.
Il disincanto ci rende muti: incapaci di parlare tra di noi, a noi, continuiamo ad eludere il monito di Franco Costabile sulla necessità di “ragionare davvero con calma/ da soli/ senza raccontarci fantasie/ sulle nostre contrade”. Da questa incomunicabilità ha origine la frattura nella connessione con lo spirito dei luoghi, il loro abbandono esistenziale prima che fisico.
Settembre è nostalgia lacerante. Qualcosa finisce, qualcosa (forse) inizierà. In sottofondo, la triste melodia di ciò che era e più non sarà.
La colonia estiva dell’Agape 2024
Si è conclusa nel cortile della Scuola dell’infanzia paritaria “Padre Annibale Maria di Francia” l’edizione 2024 della colonia estiva dell’Agape. Una serata di canti, balli, giochi, rustici, dolci e tanti, tanti sorrisi. Il magone alla fine resta sempre, ma anche la determinazione nel darsi tutti appuntamento alla prossima estate.
Quest’anno è stata dura, inutile nasconderlo. Ma forse proprio per questo è stato più bello riuscirci ancora, perché la forza di volontà davvero è capace di smuovere le montagne. Abbiamo fatto del nostro meglio, siamo stati ripagati dalla felicità dei ragazzi. Questo conta.
C. con le sue mille domande, R. che barcolla ma non crolla, G. che aspetta in piedi dietro la porta l’arrivo del furgone, anche quest’anno generosamente messo a disposizione dalla “Annibale Maria di Francia”. T. lo “sdraiatore”, improvvisatosi anche venditore ambulante, per la gioia di tutti. N. che ha provato senza braccioli né ciambella: «Tienimi stretto». Certo che ti teniamo stretto, basta il tuo “ciauwu” ad aprire il cuore. Bastano i tuoi occhi, quando ti abbiamo detto che era l’ultimo giorno di mare.
E poi l’esordio della sedia job ricevuta in dono, a conferma di quanto importante sia il contributo della comunità e dei privati che da sempre sostengono questa iniziativa, in silenzio o partecipando al veglione di fine anno, che di fatto finanzia la colonia. Ancora una volta a Bagnara, quest’anno in due tempi: fine luglio e fine agosto, per riuscire in qualche modo a completare due settimane.
Quest’anno siamo stati in pochi, troppo pochi, anche se tre nuove volontarie hanno avuto modo di provare questa esperienza. Ma non si può fare volontariato, così come partecipare alle attività di qualsiasi associazione, se non si è disposti a rinunciare a qualcosa. Non si tratta di coprire un buco nelle proprie vite, quanto di aggiungere qualcosa che le arricchisca di senso.
Esistono sempre validi motivi che portano altrove: impegni di lavoro e di famiglia, difficoltà ad incastrare giorni ed ore. Ma ne esiste sempre almeno uno in più per non tirarsi indietro, per esserci. E per rispondere al dolore recente degli addii di Cosimo e Angela con l’allegria di questi giorni, che a loro dedichiamo.
Una giustizia disumana non è giustizia
Bastassero l’indignazione e la rabbia. L’indignazione per i 165 morti in carcere, dal primo gennaio ad oggi, in un Paese sedicente civile, vigliacco di fronte all’emergenza drammatica che si vive quotidianamente nei penitenziari italiani. Dove, secondo i dati di “Ristretti Orizzonti”, nel 2024 sono già 67 i detenuti che si sono tolti la vita (due in meno rispetto a tutto il 2023), mentre altri 98 sono deceduti per “altre cause” (ben oltre i morti registrati nell’intero anno passato). La rabbia nei confronti di una classe politica imbelle, a destra come a sinistra pronta a strumentalizzare fatti e persone per puro calcolo politico, a seconda che si trovi al governo o all’opposizione. Perché il dato incontrovertibile è che nessuno ha mai fatto niente per porre fine alla sistematica violazione dei diritti umani che si verifica nelle carceri italiane, certificata da un sovraffollamento medio del 130% e dall’insufficienza cronica di personale penitenziario e sanitario. Lo stiamo vedendo in questi giorni: ogni ipotesi deflattiva, anche di infima entità, diventa una “svuota-carceri”.
«Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo», stabilisce l’articolo 40 del codice penale, richiamato da “Nessuno tocchi Caino” nella denuncia-esposto-provocazione contro il ministro della Giustizia Nordio e i sottosegretari Delmastro Delle Vedove e Ostellari, le figure istituzionali sulle quali ricade la responsabilità della custodia dei soggetti ristretti in carcere.
Gonfiamo il petto per “la Costituzione più bella del mondo” e non siamo capaci di difenderla da chi la calpesta, nonostante dovrebbe rappresentarne spirito e applicazione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità». Umanizzazione delle pene, lo suggerisce la parola stessa, significa considerare il detenuto una persona, non un anonimo numero di matricola. Si dimentica o non si vuole comprendere che in carcere entra l’uomo, non ciò che di illecito ha commesso. Il reato resta fuori dalla recinzione, a nutrire l’autocompiacimento dei legni dritti. Chi non è mai entrato in un carcere non ha idea di quante vite un “delinquente” possa salvare, con un gesto o con una parola.
“Le” pene (non “la” pena), afferma la Costituzione. Che non dovrebbero pertanto consistere esclusivamente nella reclusione in carcere. Che potrebbero essere altro. Che sarebbe meglio fossero altro, come anche le statistiche sulle recidive suggeriscono. Misure diverse non vuol dire “tutti liberi”, né che chi sbaglia non debba pagare. Se la finalità delle pene è tutelare la sicurezza pubblica evitando il reiterarsi di comportamenti contrari alla legge, esistono oggi strumenti di controllo efficacissimi, che non richiedono necessariamente la detenzione carceraria.
Manca il coraggio per riuscire a superare la visione carcerocentrica dell’esecuzione penale. Stare dalla parte dei reietti non porta voti. Mentre si propone di costruire più strutture penitenziarie (tra due, tre anni), di carcere si muore. L’ingiustizia di una giustizia disumana è in questi numeri drammatici e nella responsabilità di chi consente afflizioni gratuite, inutili, ignobili.