Se tu fossi qui, ora, sarebbe un cielo terso. Acquamarina come i miei occhi. Come i tuoi. E noi sotto, a parlarci del tempo che scappa, dei tuoi capelli sempre più bianchi e del senso di solitudine che mi assale prima di ogni partenza. Il mio pomeriggio sarebbe altro da queste quattro mura tappezzate di poster superati, che però non me la sono sentita di levare. Diversa la play-list selezionata sul portatile, meno malinconica. Non vivrei il distacco dai tuoi libri sulle mensole come un abbandono. Il poco che ho di te, che mi invoca per farsi trovare tra righe lette trenta o quarant’anni fa. Ti scopro in una freccetta verde o rossa tracciata con delicatezza sul margine di pagine sciupate, quasi impercettibile ma fondamentale per la mia ricerca di figlia che non ha conosciuto il genitore. Tu sei là, nel primato del viaggio sulla meta e nella ricerca della felicità di Kerouac; o nella protervia con cui il giovane Holden si rifiuta di varcare la soglia dell’adolescenza. L’America sbirciata sui libri e vista al cinema dalla tua generazione, quando sognare non era ancora un lusso difficile da mantenere.
La mia testa è nell’unico posto in cui posso trovarti. Un altrove fatto di assenza. Non di rimpianto. Si rimpiange ciò che si ha avuto, conosciuto, amato. Sei stato mio padre per così troppo poco tempo che non riesco a darti una collocazione tra le caselle dei sentimenti. Sei da qualche parte, offuscato da una nebbia impenetrabile che è il senso di noi, un vuoto che aggredisce lo stomaco come un virus e non permette di respirare.
Sei un papà di seconda o terza mano. Sei il figlio di nonna, il marito di mamma, l’amico di conoscenti. Non sei mio padre. Non lo sei mai stato, anche se ti ho visto ridere in vecchie fotografie, con lo spumante tra le mani dietro di me che stavo dietro alla torta con una sola candelina. Vent’anni fa. Anche se concentrata sulle pagine di un libro ho la tua identica, attenta espressione di chi non avrebbe bisogno di nient’altro per resistere a colpi che piovono da ogni parte.
Dicono che la mia irrequietezza era la tua, la stessa irriverente smania di spaccare il mondo. Col tempo forse saresti cambiato e mi avresti invitato alla prudenza. I papà sanno sempre cos’è giusto perché sono infallibili, almeno fino a quando i figli non diventano adulti. Poi no, il rapporto tende a diventare paritario e allora sì che cominciano i dolori, gli scontri. Questa fase non la conosco, mi tocca fidarmi di quello che osservo accadere ai miei coetanei. Ma sono sicura che per noi sarebbe stato differente, che ci saremmo capiti. Che avresti assecondato il mio anelito di libertà. Se c’è una cosa che mi manca, è proprio il conforto di avere te dalla mia parte, qualsiasi cosa io decida di fare. So che tu lo avresti fatto, a sentire chi ti ha vissuto accanto: «Non bisogna mai permettere che siano gli altri a decidere per noi. Mai».
Avresti saputo accompagnarmi con discrezione, da lontano, pronto a scattare in mio soccorso. Forse arricciando le labbra come facevi tu, in una sorta di tic che non so ripetere. Mi avresti dato i consigli che da te non ho mai avuto e che ho dovuto intuire guardandomi attorno.
Ti rivedo in rari fotogrammi della mia memoria, mentre sei con me e con il mio inseparabile compagno di giochi, un cavallo rosso di plastica con le rotelline che ci divertivamo a fare correre nel salotto. Il tuo viso è allegro, come quando mi osservavi di là dalla finestra bassa della scuola materna con il vassoio dei cornetti caldi in mano. La scarna dimensione dei ricordi, un soffio leggero che dona linfa alla tua vita e la fonde con la mia.