Photo @SaraBonfiglio |
Se penso alla mia infanzia, ne avverto subito il freddo. Assoluto. Non le folate del vento in inverno, picchiettate di gelo sulla pelle e gli occhi che faticano a restare aperti. Fastidi tutto sommato accettabili, tanto sai bene che dopo ci penserà il calore di un qualche caminetto a ritemprarti, o la buona sorte di una tazza di cioccolata calda. Densa, non la roba liquida bollente che servono in certi bar. Bisogna prestare attenzione e mescolare con cura il cacao sul fuoco, aggiungendo poco a poco il latte. Piano piano. Mica è una pizza, che l’inforni e quando è pronta la tiri fuori.
Il freddo dell’abbandono si incunea nelle ossa e le lavora come un tarlo. Per sempre. Anche se poi le fiammate di un amore sovrumano tempereranno l’anima e mitigheranno il dolore. Anche quando il senso di solitudine trova il conforto della favola di una famiglia che ti accoglie e ti proclama imperatore. Il sole attorno al quale tutti ruotano, premurosi.
I miei primi otto anni sono tramontana mulinante brandelli di vita, che il tempo tenta di sospingere oltre il confine della memoria. Eppure ritornano, come onde che risalendo mi travolgono. Eccomi di nuovo accovacciato con la schiena attaccata al muro, le ginocchia strette tra le braccia esili. Le lacrime e a farmi compagnia un lento dondolare, avanti e indietro. Per ore e giorni infiniti. Fino a quel pomeriggio di passi svelti nel corridoio, l’arrivo di un uomo e di una donna accompagnati dall’interprete, il loro parlare a bassa voce, fatto di frasi pronunciate in un idioma per me incomprensibile: «Guarda quanto sono belli e tristi. Come si fa a scegliere? Come si fa a salvarne uno e a condannarne venti?».
Li vidi scegliere singhiozzando. Scegliere me, dentro la mia felpa troppo grande, le dita timorose che spuntavano fuori dalle maniche. Scegliere me, che non capivo e che correvo come un matto. Me che ancora un po’ matto mi credete, voi che mai avete assaggiato il brodino insapore di un orfanotrofio e vi chiedete perché oggi tolgo il filo di grasso dai bordi del prosciutto crudo affettato.
Non ero mai salito su di una macchina e ora avevo un sedile tutto mio, una specie di divano sul quale stare seduto, sdraiato, in piedi con le mani e il viso incollati al finestrino per osservare il mondo di fuori. Per guardare gli alberi e le case che correvano veloci, la neve alta sui marciapiedi, il respiro fumante delle persone intabarrate. Un viaggio di tremila chilometri verso sud, a ogni stazione la temperatura più mite e cioccolatini, patatine, caramelle, merendine. Ci parlavamo con gli occhi e per la prima volta in vita mia non avevo paura. Mi addormentai sul ventre accogliente di una sconosciuta: mia madre. Era ebbra di gioia, dopo anni di tentativi vani. Felice, ma tesa. Sempre meno, però, di quando il giudice dovette pronunciarsi sull’adozione dopo il periodo di affidamento preadottivo, gli incontri con l’assistente sociale e le sue domande per me. Io neanche immaginavo l’esistenza di un amore così forte: cosa avrei potuto rispondere di grave, per giustificare la sua incredibile ansia?
Non ho mai fatto i conti con quel pezzo di vita mancante, una mutilazione che sento violenta. Mi mancano i giochi che non ho fatto, i banchi che non ho scarabocchiato, le storie dei vecchi che non ho ascoltato. Le strade che non ho vissuto. Sono rimasto indietro e cerco aiuto, ma nessuno può restituirmi ciò che non ho mai posseduto. Il mio passato è una gabbia vuota, contro le sue sbarre ha trovato sfogo la rabbia di uno che, in fondo, è stato per tutti soltanto uno straniero. Che non ha mai capito i doppi sensi e che dietro ogni battuta spiritosa ha intuito l’offesa dello schiaffo, l’umiliazione dello sputo. Che ha sofferto per i sorrisini e per il darsi di gomito complice dei suoi compagni di scuola. Preferivo restare a casa, a interpretare il ruolo del protagonista nella fiaba che mi era stata cucita addosso.
L’ho capito molti anni dopo che troppo amore può asfissiare. Dopo troppe partite perse e davanti a guerre che non ero attrezzato a combattere, io che non avevo mai dovuto lottare per ottenere ciò che volevo. E così mi perdo nella mia vita bastarda, un piede piantato in una storia che a malapena ricordo, l’altro bloccato dalla confusione di un presente che non mi appartiene.