L’espressione del viso, impressa nella fotografia scattata cinquant’anni fa, conferma la frase vergata sul retro da mio padre: «I due disperati». Tre parole per esprimere con ironia l’affetto, l’amicizia, la condivisione di un riscatto cercato e trovato lontano dall’Italia, in quell’Australia che ha accolto e dato a molti italiani la possibilità di un futuro che non fosse miseria.
La notizia ci è arrivata addosso come una secchiata d’acqua gelida, nonostante il sospetto. I social sono uno strumento utile, ma in casi come questi crudele: è bastato ricordare i nomi dei figli e percorrere a ritroso la cronologia dei loro post per imbattersi in Paolo Rao sorridente accanto alla figlia Agata, a dispetto dell’annuncio della sua morte nel 2021. Da tempo non ricevevamo le sue periodiche telefonate, mentre i nostri tentativi si infrangevano contro il silenzio del suo cellulare. Lo sconvolgimento degli ultimi anni ci aveva impedito di andare più a fondo nella ricerca, ma ora, nonostante tutto, sarebbe stato il momento di una boccata d’ossigeno. Non è andata così ed è un dolore che punge, per quanto differito. Sono gli occhi di mio padre, che dicono tutto di quell’alchimia unica con Paolo e con mio zio Stefano, del vuoto lasciato da entrambi in sua assenza. L’ennesima ingiustizia.
Impetuosa è l’onda dei ricordi, che riaffiorano insieme al tono della voce di Paolo nell’imprecazione “maledetto vento!”, masticata mentre con la mano cercava di sistemarsi i capelli nel deserto australiano.
Si erano conosciuti da “Bendinelli & Carlini”, la ditta di un fiorentino e di un romano che pitturava le case a Melbourne e dintorni. Paolo di origini siciliane, mio padre dall’Aspromonte: entrambi con addosso il culto del lavoro che ha scritto le pagine più belle e dignitose dell’emigrazione italiana.
Tra le altre “imprese”, ricorreva spesso il ricordo del viaggio epico attraverso la “Nullarbor Plain”, oggi proposto nei pacchetti vacanze riservati ai turisti che amano l’avventura.
La notte di Natale del 1974 il Nord Territorio era stato devastato dal ciclone Tracy, le cui raffiche di vento raggiunsero i 240 km/h: l’80% della capitale Darwin (dove morirono 66 persone) fu distrutto, il 94% delle abitazioni dichiarato inabitabile, la stima dei danni ammontò a 837 milioni di dollari.
E a Darwin i due amici decisero di recarsi. A neanche trent’anni e con la storia che si erano lasciati alle spalle, i 9.000 km di strada da percorrere in macchina non erano fonte di apprensione.
Per ricostruire le città servivano muratori, carpentieri, idraulici, elettricisti e ovviamente imbianchini. Come loro due. Uno sguardo d’intesa e via, a bordo della possente Ford Falcon 500 di mio padre.
A Darwin non ci arrivarono. C’era da ricostruire anche a Port Hedland, in Australia Occidentale, raggiunta dopo i circa 7.000 km percorsi per tagliare da Est a Ovest e risalire a Nord. Quattro giorni a snocciolare il rosario delle città attraversate, una volta partiti da Melbourne: Adelaide, Ceduna, Norseman, Perth, Geraldton, Carnarvon, Broome. Sul tavolo, ora, tra le mie mani un cartello indica il 26° Parallelo, un altro segnala la linea del Tropico del Capricorno, Paolo pesca dalla battigia con una lenza i pesci per il sontuoso barbecue da consumare insieme agli altri operai, mio padre pennella dalla scala a forbice, entrambi sorridono con una birra in mano.
La pianura di Nullarbor si estende per oltre 1.200 km di deserto tra Ceduna a Norseman. La “Eyre Highway” che l’attraversa è una linea retta infinita e senza dislivello, dall’effetto ipnotizzante. Non essendo al tempo asfaltata, il passaggio delle auto sollevava un polverone di terra rossa e sottile capace di resistere per mesi anche ai lavaggi più accurati. Ogni 200 km circa, la presenza di una “Road House” dava la possibilità di fare rifornimento, mangiare e bere qualcosa.
A dispetto dell’etimologia (dal latino: “senza alberi”), puntini in lontananza indicavano la presenza di qualche acacia, dall’ombra delle quali potevano saltare fuori aborigeni in costume tradizionale e armati di lance, che andavano incontro all’auto con l’intento di piazzare strumenti musicali tribali (“didgeridoo”, “bullroarer”) e i “boomerang”, dopo una serie di lanci dimostrativi.
A Port Hedland soggiornarono in una roulotte per un mese e, alla fine del lavoro, rientrarono a Melbourne. Per la gioia dei bambini, anche se Fanny – nonostante i tentativi di corruzione con caramelle e cioccolatini – faticò a perdonare il capellone simpatico e pieno di vita che aveva avuto il torto di portare via suo zio.